Sentenza N. 580 del 1990
Corte Costituzionale
Data generale
28/12/1990
Data deposito/pubblicazione
28/12/1990
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/12/1990
Presidente: prof. Giovanni CONSO;
Giudici: prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, dott. Francesco
GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco
Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Luigi MENGONI, prof.
Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA;
comma terzo, del codice di procedura penale, in relazione all’art.
129 dello stesso codice; 5 della legge 11 aprile 1990, n. 73 (Delega
al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia) e 5
del D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75 (Concessione di amnistia), promossi
con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 22 giugno 1990 dal G.I.P. presso la
Pretura di Marsala nel procedimento penale a carico di Rizzo Ninfa,
iscritta al n. 538 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale,
dell’anno 1990;
2) ordinanza emessa il 12 luglio 1990 dal G.I.P. presso la
Pretura di Marsala nel procedimento penale a carico di Ribaudo Vito
Roberto, iscritta al n. 532 del registro ordinanze 1990 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie
speciale, dell’anno 1990;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre il Giudice
relatore Ettore Gallo;
preliminari presso la Pretura di Marsala sollevava questione di
legittimità costituzionale degli artt. 459, comma terzo, in
relazione all’art. 129 cod. proc. pen., 5 della legge 11 aprile 1990,
n. 73, e 5 d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, in riferimento agli artt. 3,
comma primo, e 24, commi primo e secondo, della Costituzione.
Successivamente, con ordinanza 12 luglio 1990, sollevava in altro
procedimento penale identica questione in riferimento agli stessi
parametri, argomentando con le stesse parole della precedente.
La questione è stata occasionata dalla sopravvenienza di un
decreto di amnistia rinunziabile, dopo che il pubblico ministero
aveva richiesto al G.I.P. di emettere decreto di condanna a carico
dell’imputato per il reato di assegno a vuoto. Osserva il giudice che
negli atti c’è prova certa della commissione del reato,
rappresentata dall’attestazione del notaio che, allegando fotocopia
del titolo, accerta che gli è stato trasmesso per il protesto
dall’Istituto trattario: anche se poi gli è stato chiesto in
restituzione dallo stesso Istituto per essere stati i fondi
ricostituiti.
Ciononostante rileva il giudice a quo di non poter aderire alla
richiesta del pubblico ministero a causa della sopravvenuta amnistia,
ma di non potere nemmeno dichiarare l’estinzione del reato perché,
essendo l’amnistia rinunciabile, l’imputato dev’essere messo in
condizione di conoscere l’esistenza del processo a suo carico, al
fine dell’eventuale esercizio della rinunzia, che questa Corte ha
definito come aspetto fondamentale del diritto di difesa (sent. 14
luglio 1971 n. 175). Afferma, però, il giudice di non ravvisare
nell’ordinamento processuale strumenti idonei a dare all’imputato
conoscenza del procedimento.
Esclusi, infatti, gli strumenti escogitati sotto la vigenza del
codice processuale precedente, che risulterebbero inattuabili in un
modello processuale del tutto diverso, nemmeno si ritiene possibile
adottare le regole generali di cui all’art. 127 cod. proc. pen. , che
disciplinano il procedimento in camera di consiglio.
Secondo l’ordinanza, infatti, il procedimento camerale si
riferirebbe ad ipotesi tassative, che nella specie non ricorrono, e
va comunque definito con ordinanza (art. 127, comma 7, cod. proc.
pen.), mentre la declaratoria de qua va pronunziata con sentenza
(art. 129, comma 2, cod. proc. pen.).
Fra l’altro – secondo il remittente – l’imputato non troverebbe
rimedio nemmeno nell’impugnazione del provvedimento che avesse
applicato l’amnistia senza consentirgli la possibilità di
rinunziare, perché il giudice di secondo grado potrebbe decidere nel
merito – previa eventuale rinnovazione del dibattimento – soltanto
nel caso in cui riconosca erronea la declaratoria di estinzione del
reato.
Da tutto questo la lesione dei principi costituzionali invocati,
sia perché, a differenza degli altri modelli processuali, l’azione
per decreto priva l’imputato della possibilità di conoscere
l’esistenza del procedimento e quindi di rinunziare all’eventuale
amnistia (art. 3, primo comma, Cost.), sia perché questi viene
privato della facoltà di agire e viene leso il suo diritto di difesa
(art. 24, primo e secondo comma, Cost.).
2. – È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato dall’Avvocatura Generale dello Stato, la
quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
legittimità costituzionale in relazione allo stesso reato e al
procedimento per decreto, con riferimento ai medesimi parametri
costituzionali. I due procedimenti, pertanto, possono venire riuniti
per essere decisi con unica sentenza.
2. – La questione riguarda la sopravvenienza dell’amnistia dopo
che il pubblico ministero ha richiesto al G.I.P. l’emissione del
decreto penale di condanna. L’imputato ignora che a suo carico sia in
corso procedimento penale perché questo si apre proprio con la
richiesta del pubblico ministero che non gli viene notificata, né
c’è stata mai occasione nella fase delle indagini preliminari di
incidente probatorio o di interrogatorio.
Sostiene il rimettente che una siffatta situazione, determinata
dagli articoli impugnati, viola i parametri invocati perché il
giudice non può accogliere la richiesta del pubblico ministero, né
pronunziare la sentenza che dichiara l’estinzione del reato, ai sensi
dell’art. 129, secondo comma, cod. proc. pen., se prima l’imputato
non è stato messo in condizioni di rinunciare, se lo voglia,
all’amnistia. Egli, però, non ravvisa alcuno strumento processuale
per dare notizia all’imputato della pendenza del procedimento, e
perciò solleva la riportata questione.
3. – La questione non è fondata.
Intanto, va detto subito che non è esatto che l’imputato non
troverebbe rimedio, nemmeno attraverso il gravame d’appello, alla
declaratoria di estinzione del reato, pronunziata senza che egli
fosse stato posto in grado di rinunziare all’amnistia. Una volta,
infatti, che il giudice riconosce che l’amnistia non può essere
applicata allorché l’imputato ignora l’esistenza del processo,
perché gli verrebbe confiscato un diritto (quello di rinunzia
all’amnistia) che trova il suo supporto in un principio
costituzionale (art. 24, secondo comma), sembra evidente che se, al
contrario, il giudice pronunziasse la sentenza di estinzione del
reato quando l’imputato fosse stato determinato a rinunziare
all’amnistia, la pronuncia integrerebbe “una decisione erronea”.
Proprio l’ipotesi, cioè, prevista dall’art. 604, sesto comma, cod.
proc. pen., che consente al giudice d’appello di decidere nel merito,
se l’imputato ha impugnato per rinunziare all’amnistia.
Ma la questione è un’altra: quella secondo cui non potrebbe
essere posta a carico dell’imputato la via del gravame, senza che la
legge gli appresti la possibilità di esprimere la sua rinunzia prima
della decisione di primo grado. Altro è, infatti, il caso
dell’errore del giudice, altro che la legge lasci al giudice la sola
alternativa della declaratoria di estinzione del reato, sia o non
consapevole l’imputato della pendenza del procedimento.
È proprio qui, dunque, il punto decisivo della questione: se sia
vero, cioè, che il giudice per le indagini preliminari, a fronte
della richiesta di decreto penale avanzata dal pubblico ministero,
non abbia nella legge processuale, nel caso di sopravvenienza
dell’amnistia, alcuno strumento per renderne edotto l’imputato al
fine di consentirgli di esprimere eventuale rinunzia.
4. – Non senza ragione, intanto, rileva l’Avvocatura generale che
la previsione del terzo comma dell’art. 459 cod. proc. pen. non
esclude per nulla, nelle more della decisione, “il compimento di
quelle attività materiali (biglietto di cancelleria, avviso scritto,
convocazione informale) volte a rendere concretamente attuabile il
principio di diritto sostanziale fissato negli articoli 5 della legge
e del decreto presidenziale d’amnistia”.
Ma quand’anche siffatte innocue escogitazioni, intese soltanto a
favorire l’imputato, fossero ritenute non ortodosse, e comunque
certamente non obbligatorie per il giudice, non è vero che la legge
non preveda strumenti idonei a consentire una formale informazione
all’imputato. E la soluzione è proprio nella norma impugnata.
Il comma terzo dell’art. 459 prescrive, infatti, testualmente che,
quando il giudice “non accoglie la richiesta (del pubblico
ministero), se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a
norma dell’art. 129, restituisce gli atti al pubblico ministero”.
Ora, che nella specie il giudice non debba accogliere la richiesta
del pubblico ministero, è pacifico e lo afferma anche il rimettente:
egli non può, infatti, emettere decreto penale di condanna perché
è sopravvenuto il decreto d’amnistia. Ma non deve nemmeno
pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129, sia
perché non ricorrono le altre condizioni (c’è in atti la prova
documentale, certificata dal notaio, della commissione del reato di
emissione di assegno a vuoto), sia perché l’estinzione del reato non
può essere pronunciata, se prima non è stata portata a cognizione
dell’imputato l’esistenza del processo, dato che la stessa legge di
amnistia (art. 5) gli consente espressamente la possibilità di
avvalersi della facoltà di rinunzia, manifestazione di un diritto
costituzionalmente tutelato.
Ciò è tanto riconosciuto dal giudice rimettente da fondare sul
dovere di osservanza di quel diritto la sollevata questione di
legittimità costituzionale. Il giudice, perciò, è consapevole che
“non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art.
129 cod. proc. pen.”.
Ma allora, se così è, bastava dare corso all’ulteriore disposto
della norma impugnata secondo cui, in tal caso, il giudice
“restituisce gli atti al pubblico ministero”.
A quel punto, quest’ultimo potrà avvalersi dell’art. 375 cod.
proc. pen. e invitare la persona interessata a presentarsi,
precisando il tipo di atto per il quale l’invito è predisposto
(lettera c dell’art. 375): e, cioè, spiegando che viene invitato a
dichiarare se intenda o meno rinunciare all’amnistia ai sensi
dell’art. 5 del d.P.R. n. 75 del 1990, altrimenti si procederà alla
declaratoria di estinzione del reato. E poiché una siffatta
decisione implica una valutazione tecnica e una manifestazione di
volontà dispositiva sull’ulteriore corso del procedere, sarà
opportuno anche l’invio della informazione di garanzia ex art. 369
cod. proc. pen.
Tutto ciò, comunque, viene detto a solo titolo dimostrativo delle
non poche possibilità formali ed informali offerte dal sistema per
raggiungere il fine doveroso di non offendere diritti
costituzionalmente garantiti. La loro scelta è affidata, però, ai
poteri della magistratura di merito.
Infine, la questione concernente gli artt. 5 della legge e del
decreto, citati in epigrafe, resta ovviamente assorbita.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 459, comma terzo, in
relazione all’art. 129 cod. proc. pen., 5 della legge 11 aprile 1990,
n. 73, e 5 del d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, sollevata dal Giudice
per le indagini preliminari presso la Pretura di Marsala, con le
ordinanze 22 giugno e 12 luglio 1990, in riferimento agli artt. 3,
comma primo, e 24, commi primo e secondo, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1990.
Il Presidente: CONSO
Il redattore: GALLO
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1990.
Il cancelliere: DI PAOLA