Sentenza N. 7 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
19/02/1965
Data deposito/pubblicazione
19/02/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
04/02/1965
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI –
Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO
MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.
Giudici,
Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 27 aprile 1964 dal
Giudice istruttore del Tribunale di Foggia nel procedimento penale a
carico di Bruno Raffaele, iscritta al n. 84 del Registro ordinanze 1964
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 144 del 13
giugno 1964.
Udita nella camera di consiglio del 6 novembre 1964 la relazione
del Giudice Giuseppe Chiarelli.
Nel procedimento penale a carico di Bruno Raffaele, imputato del
reato di abuso di ufficio ai sensi dell’art. 323 del Codice penale, il
Giudice istruttore del Tribunale di Foggia sollevava d’ufficio
questione di legittimità costituzionale del detto articolo in
riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 3 della Costituzione.
Risulta dalla stessa ordinanza che il Bruno, nominato custode
giudiziario in un procedimento di espropriazione mobiliare, si era
presentato alla casa della debitrice, assumendo di voler portare via i
mobili pignorati. Il marito della debitrice, tale Antonio Lo Surdo,
poté evitate l’asporto di essi versando quindicimila lire in acconto
di un debito di trentamila lire, contratto, a sua insaputa, dalla
moglie;
denunciò, quindi, il fatto al Pretore di Foggia. Eseguite le
indagini, gli atti erano rimessi al Procuratore della Repubblica, il
quale chiedeva all’Ufficio istruzione del Tribunale il prosieguo
dell’istruttoria con il rito formale.
Espletate le incombenze conseguenti, il Pubblico Ministero chiedeva
di contestare al Bruno il reato di cui al predetto art. 323 del Codice
penale.
Il Giudice istruttore, con l’ordinanza sopra indicata, ha sollevato
la questione di legittimità costituzionale di tale articolo, ritenendo
che esso sia in contrasto con l’art. 25, secondo comma, della
Costituzione, in relazione all’art. 1 del Codice penale, in quanto
rimetterebbe alla discrezionalità del magistrato la configurabilità
del reato, quando viene commesso un qualsiasi fatto non specificamente
previsto dalla legge come tale.
Subordinatamente l’ordinanza osserva che l’art. 323 del Codice
penale può essere ritenuto costituzionalmente illegittimo anche in
relazione al principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte
alla legge, in quanto la norma penale riguarda soltanto il pubblico
ufficiale e non anche l’incaricato di pubblico servizio, il quale, come
si esprime l’ordinanza, può parimenti compiere azioni non prettamente
lineari.
L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 144 del 13 giugno 1964.
La causa è stata decisa in camera di consiglio non essendosi
costituita alcuna delle parti, in conformità agli artt. 26, secondo
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9 delle Norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
La questione è infondata.
L’art. 323 del Codice penale non è in contrasto col secondo comma
dell’art. 25 della Costituzione, giacché la fattispecie ivi prevista
è determinata in modo da non lasciare alla discrezionalità
dell’interprete la configurazione del reato, come si assume
nell’ordinanza.
Ed invero, secondo la norma impugnata il fatto punibile consiste
nella trasgressione, da parte del pubblico ufficiale, di un dovere
inerente all’ufficio, quando essa si concreti in un atto o, comunque,
in un comportamento illegittimo, posto in essere con dolo.
In base a questa individuazione degli elementi del reato, si deve
riconoscere che il precetto penale in esame, mentre corrisponde
all’intento di reprimere quei comportamenti dei pubblici ufficiali,
che, pur essendo illegittimi, non rientrerebbero in un titolo specifico
di reato, dà nello stesso tempo sufficiente garanzia che il pubblico
ufficiale sia al coperto dalla possibilità di arbitrarie applicazioni
della legge penale, il timore delle quali nuocerebbe anch’esso al buon
andamento della pubblica Amministrazione e al sollecito perseguimento
dei suoi fini.
Né vale in contrario il rilievo che per determinare, in concreto,
la sussistenza del reato si rende necessario prendere in esame
l’eventuale violazione di norme non contenute nelle leggi penali,
quali, nel caso di specie, le norme del Codice di procedura civile su
gli obblighi del custode giudiziario. A parte che la possibilità di
considerare come illecito penale la violazione di norme inerenti
all’esercizio di una pubblica funzione, ovunque siano contenute, non
dà luogo a dubbi di costituzionalità; nel caso dell’art. 323 del
Codice penale elemento essenziale per la sussistenza del reato è il
dolo specifico; vale a dire, l’intenzione di recare ad altri un danno o
procurargli un vantaggio.
La proposta questione non ha fondamento neanche in riferimento
all’art. 3 della Costituzione.
È giurisprudenza costante di questa Corte che il principio di
eguaglianza enunciato in tale articolo consente al legislatore
ordinario di emanare norme differenziate rispetto a situazioni
obbiettivamente diverse, e che il giudizio sulla parità o diversità
delle situazioni spetta insindacabilmente allo stesso legislatore nei
limiti del rispetto della ragionevolezza e degli altri principi
costituzionali (sentenza n. 81 del 1963). Ora, non può ritenersi che
contrasti col criterio della ragionevolezza o con principi
costituzionali l’aver collegato la responsabilità penale con la
qualità di pubblico ufficiale, senza estenderla alla diversa
situazione giuridica dell’incaricato di pubblico servizio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 323 del Codice penale, sollevata dal Giudice istruttore del
Tribunale di Foggia con ordinanza del 27 aprile 1964, in riferimento
agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, in Camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 febbraio 1965.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.