Sentenza N. 72 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
09/04/1969
Data deposito/pubblicazione
09/04/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/03/1969
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE,
Giudici,
nella determinazione delle tariffe telefoniche contenute nell’art. 232
del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, nell’art. 135 del regio
decreto 19 luglio 1941, n. 1198, nell’art. 49 dei DD.PP.RR. 14
dicembre 1957, nn. 1405, 1406, 1407 e 1409, e 28 dicembre 1957, n.
1408, e nel decreto del Ministro per le poste e telecomunicazioni 24
aprile 1964, promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1967 dal
giudice conciliatore di Genova nel procedimento civile vertente tra De
Luca Luigi, la Società Italiana per l’esercizio telefonico (S.I.P.) ed
il Ministero delle poste e telecomunicazioni, iscritta al n. 260 del
Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 321 del 23 dicembre 1967.
Visti gli atti di costituzione di De Luca Luigi, della S.I.P. e del
Ministero delle poste e telecomunicazioni, e d’intervento del
Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 12 marzo 1969 la relazione del
Giudice Francesco Paolo Bonifacio;
uditi l’avvocato Egidio Tosato, per la S.I.P., ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri e per il Ministero delle poste e
telecomunicazioni.
1. – Con atto di citazione del 3 maggio 1966 l’avvocato Luigi De
Luca convenne la Società italiana per l’esercizio telefonico (S.I.P.)
innanzi al conciliatore di Genova, deducendo la illegittimità parziale
di alcune fatture di utenza telefonica: illegittimità derivante,
secondo il suo assunto, dalla circostanza che le relative tariffe erano
state imposte sulla base dell’art. 232 della legge postale e di altre
disposizioni tutte contrastanti col principio enunciato nell’art. 23
della Costituzione.
A seguito della sentenza 12 giugno 1967 con la quale le sezioni
unite della Corte di cassazione – pronunziandosi su un ricorso
preventivo proposto dalla S.I.P. – avevano dichiarato la sussistenza
della giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, la causa
venne riassunta e la S.I.P. chiese che, a seguito della proposizione
di una sua domanda riconvenzionale per lire 228.518, la causa venisse
rimessa al pretore, giudice competente per valore. Nel giudizio
intervenne, ai sensi dell’art. 105 del codice di procedura civile,
anche l’Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni.
2. – Con ordinanza 26 ottobre 1967 il giudice conciliatore, dopo
un’ampia disamina dell’eccezione di incompetenza per valore sollevata
dalla S.I.P. in riferimento alla domanda riconvenzionale, ha trattenuto
presso di sé la causa introdotta con la citazione del De Luca, ha
rimesso al pretore di Genova la decisione sulla riconvenzionale ed ha
proposto, in riferimento all’art. 23 della Costituzione, la questione
di legittimità costituzionale concernente l’art. 232 del regio decreto
27 febbraio 1936, n. 645, l’art. 135 del regio decreto 19 luglio 1941,
n. 1198, l’art. 49 dei decreti del Presidente della Repubblica nn.
1405, 1406, 1407 e 1409 del 14 dicembre 1957 e 1408 del 28 dicembre
1957, nonché del decreto ministeriale 24 aprile 1964.
Nel motivare in ordine alla non manifesta infondatezza della
questione, l’ordinanza osserva che le tariffe telefoniche sono
determinate con atto di autorità e che pertanto ci si trova di fronte
ad una imposizione di prestazioni che, per essere legittima, dovrebbe
essere effettuata, come dispone l’art. 23 della Costituzione, in base
alla legge; ed invece – a suo avviso – la riserva di legge non è
rispettata, perché nessuna delle norme che vengono in discussione – a
parte la questione sulla loro natura di legge formale – contiene limiti
e controlli idonei a garantire gli utenti: l’art. 232 del regio decreto
n. 645 del 1936 si limita a stabilire che le tariffe per abbonamenti,
compensi ed impianti interni sono approvate con decreto del Ministro
per le poste e telecomunicazioni di concerto col Ministro per il tesoro
e col Ministro per l’industria e commercio; l’art. 135 del regio
decreto n. 1198 del 1941 precisa che le tariffe sono comprensive di
ogni onere e spesa per impianto e manutenzione; nessuno dei vari
decreti ministeriali che riguardano la materia ha il carattere di legge
formale e, comunque, non potrebbe mai dirsi che le norme in essi
contenute rispondono all’esigenza di una preventiva precisazione di
elementi che valgano a limitare i poteri dell’autorità; lo stesso vale
per il decreto ministeriale 24 aprile 1964, perché le sue norme non
consentono di stabilire se la determinazione dei costi, da una parte, e
dei canoni, dall’altra, garantiscano l’obbligato. In definitiva,
secondo il giudice a quo, in base all’art. 232 del Codice postale il
Ministro si limita ad approvare le tariffe predisposte dall’ente
concessionario.
Contro la tesi dell’illegittimità costituzionale – così conclude
l’ordinanza – non si può opporre che il contratto telefonico ha natura
privatistica, con prestazioni liberamente assunte dagli utenti: non vi
è libertà nella scelta delle clausole e condizioni, e non pare quindi
esatto parlare di contratto privato là dove nessuna libertà spetta
all’utente di fronte a prestazioni che la parte più forte ha
provveduto, essa solo, a sottoporre agli organi del potere esecutivo
per un mero atto di approvazione.
3. – L’ordinanza ritualmente notificata alle parti ed al Presidente
del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere,
è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 321 del 23 dicembre
1967.
Nel presente giudizio si sono costituiti l’avvocato Luigi De Luca
(atto del 21 novembre 1967), la Società italiana per l’esercizio
telefonico (atto del 9 gennaio 1967) e l’Avvocatura generale dello
Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio e del Ministro per
le poste e per le telecomunicazioni (atti del 12 gennaio 1967).
4. – L’avvocato De Luca, nel chiedere l’accoglimento della
questione, sostiene che nella materia de qua ci si trova di fronte ad
una vera e propria prestazione imposta e che non è stata rispettata la
riserva legislativa di cui all’art. 23 della Costituzione. Sul primo
punto il deducente, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali di
questa Corte, osserva che la tutela insita in quella norma
costituzionale non deve farsi valere solo nei confronti dei soggetti
pubblici, ma deve riguardare tutte le ipotesi in cui si realizzi un
regime di monopolio, perché di fronte a questo il cittadino ha diritto
a che limiti ad ogni strapotere siano fissati da quegli organi
legislativi che lo rappresentano. Posto che, perciò, alla fattispecie
deve applicarsi la garanzia assicurata dall’art. 23 della Costituzione,
l’illegittimità delle disposizioni impugnate deriva, a suo avviso,
dalla circostanza che queste demandano all’arbitrio dell’ente
impositore la determinazione delle prestazioni: gli artt. 232 del
regio decreto n. 645 e 135 del regio decreto n. 1198 parlano di
abbonamenti e tariffe, ma nulla stabiliscono in ordine ai minimi ed ai
massimi, agli indici, ai controlli, ecc.; i decreti del dicembre 1957,
che hanno indubbia forza di legge, sono diretta conseguenza del decreto
legge 6 giugno 1957, n. 374, convertito in legge 26 luglio 1957, n.
615, ma questa legislazione delegante nulla sancisce in ordine alle
tariffe, e perciò i suddetti decreti non avevano alcuna potestà in
proposito; il decreto ministeriale 24 aprile 1964, che proviene non da
un singolo Ministro ma da una collegialità che sostituisce il
Consiglio dei Ministri, ha quel carattere innovativo che è
caratteristico degli atti legislativi, ma le sue statuizioni – che
danno luogo ad arbitrarie differenziazioni fra categorie di utenti –
creano una compiuta ed eterogenea materia di imposizioni che non trova
alcuna base nella legge. Queste conseguenze – così conclude la memoria
– costituiscono indice della denunziata illegittimità.
5. – La difesa della S.I.P. ritiene che la questione sollevata dal
giudice conciliatore è ammissibile solo nella parte che riguarda
l’art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, che è atto
avente forza di legge perché emanato in seguito a delegazione
legislativa. Nel merito la S.I.P. contesta l’esattezza del presupposto
dal quale muove l’ordinanza di rimessione: nella fattispecie non ci si
trova di fronte a quelle prestazioni di cui tratta l’art. 23 della
Costituzione, perché le obbligazioni a carico dell’utente non sorgono
in connessione ad un atto amministrativo, ma derivano dal contratto,
come risulta da tutta la disciplina vigente ed in particolare da
numerose norme del regolamento del 1941 e come è confermato dalla
giurisprudenza e dalla dottrina concordi. Il decreto ministeriale
previsto dall’art. 232 è, certamente, un atto unilaterale
dell’autorità amministrativa, ma esso non dà vita a quelle
obbligazioni che trovano la loro fonte esclusivamente nell’atto col
quale l’utente accetta le condizioni del contratto; il fatto che queste
ultime siano unilateralmente predeterminate non esclude la natura
contrattuale del rapporto che l’utente stringe con la concessionaria,
sicché non si può parlare di prestazione imposta: se si ritenesse
altrimenti, si giungerebbe all’assurdo di mettere in dubbio perfino la
costituzionalità dei contratti per adesione. La difesa della S.I.P.
conclude mettendo in evidenza che le esposte ragioni rendono inutile
attardarsi nel dimostrare che l’impugnato art. 232, valutato nel quadro
della legislazione sul Comitato interministeriale dei prezzi,
risponderebbe comunque ai requisiti stabiliti dall’art. 23 della
Costituzione.
6. – Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato il giudice conciliatore,
a seguito della proposizione di una riconvenzionale eccedente la sua
competenza per valore, avrebbe avuto il potere di decidere la causa
principale solo se la domanda fosse stata fondata, come l’art. 35 del
Codice di procedura civile richiede, su titolo non controverso o
facilmente accertabile: nella specie il giudice nulla ha deciso, ma si
è avvalso del potere di rimettere gli atti alla Corte in un caso nel
quale, non ricorrendo l’ipotesi prevista dalla legge processuale, egli
non disponeva di alcun potere decisorio.
Dopo aver rilevato che ad eccezione dell’art. 232 del decreto del
1936 tutte le altre disposizioni impugnate non hanno forza di legge,
anche l’Avvocatura sostiene che il rapporto fra utente e concessionario
– come risulta dalla disciplina in materia e dalla stessa pronunzia
emessa dalle sezioni unite della Cassazione in sede di regolamento di
giurisdizione – trova la sua fonte in un contratto di adesione, sicché
le relative obbligazioni non sono imposte da un atto dell’autorità.
Dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte sull’oggetto al
quale l’art. 23 della Costituzione si riferisce, l’Avvocatura assume
che, ad ogni modo, la riserva di legge sarebbe soddisfatta perché le
tariffe telefoniche sono formate da organi della pubblica
amministrazione, in base a disposizioni legislative: precisamente dal
Comitato interministeriale dei prezzi, sulla base dei poteri ad esso
attribuiti dall’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 19
ottobre 1944, n. 347. Questa considerazione deve indurre, secondo la
difesa dello Stato, a valutare il denunziato art. 232 nel quadro della
legislazione relativa ai prezzi e delle garanzie di sostanza (ad
esempio, il Comitato deve tener conto del costo dei servizi) e di
procedimento che tale legislazione ha apprestato.
7. – Nell’udienza pubblica l’Avvocatura dello Stato e la difesa
della S.I.P. hanno illustrato le rispettive tesi e conclusioni.
1. – L’Avvocatura dello Stato sollecita l’esame preliminare di
questa Corte su quella parte dell’ordinanza nella quale il giudice
conciliatore di Genova, pur rimettendo al pretore la decisione sulla
domanda riconvenzionale proposta dalla società convenuta, ha ritenuto
di poter trattenere alla propria cognizione la domanda dell’attore. In
proposito è sufficiente osservare che il controllo sull’esatta
applicazione del combinato disposto degli artt. 36 e 35 del Codice di
procedura civile si risolverebbe in un sindacato sulla competenza del
giudice a quo a decidere la controversia di merito: ma tale sindacato,
secondo la costante giurisprudenza, esula dai poteri di questa Corte.
2. – Il regio decreto 19 luglio 1941, n. 1198, avente ad oggetto
l’approvazione del regolamento di esecuzione dei titoli I, Il e III del
libro II della legge postale e delle telecomunicazioni, non ha forza di
legge. Altrettanto deve dirsi dei decreti del Presidente della
Repubblica 14 dicembre 1957, nn. 1405, 1406, 1407 e 1409 e 28 dicembre
1957, n. 1408, che approvarono e resero esecutive le convenzioni per il
rinnovo delle concessioni stipulate fra il Ministero delle poste e
delle telecomunicazioni e le società telefoniche, nonché del decreto
ministeriale 24 aprile 1964 col quale furono approvate le tariffe di
abbonamento. Di conseguenza la questione di legittimità costituzionale
sollevata dal giudice conciliatore di Genova è ammissibile solo nella
parte in cui essa ha ad oggetto l’art. 232 del regio decreto 27
febbraio 1936, n. 645, contenente il “Codice postale e delle
telecomunicazioni” ed emanato in base a delegazione legislativa.
3. – Il citato art. 232 stabilisce che le tariffe telefoniche ivi
specificate sono approvate con decreto del Ministro per le poste e le
telecomunicazioni, emanato di concerto col Ministro per il tesoro e col
Ministro per l’industria ed il commercio. Ad avviso del giudice a quo,
questa disposizione, in quanto demanda all’autorità governativa un
potere non soggetto né a limiti né a controlli, contrasterebbe con
l’art. 23 della Costituzione, in forza del quale nessuna prestazione
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Per decidere la questione di legittimità costituzionale così
proposta è necessario, in primo luogo, accertare se nella materia
concernente le tariffe telefoniche ci si trova di fronte a vere e
proprie “prestazioni imposte”, per le quali si possa invocare la
riserva di legge contemplata nella norma costituzionale di raffronto.
Secondo l’Avvocatura dello Stato e la difesa della S.I.P. una
conclusione negativa in proposito sarebbe inevitabile, atteso che
l’obbligo del pagamento secondo le tariffe non nasce dal provvedimento
dell’autorità governativa, ma dal contratto che l’utente stipula col
concessionario del servizio: il necessario concorso della volontà
dell’interessato, che si estrinseca in un attività negoziale di
diritto privato riconducibile al paradigma del contratto di adesione,
escluderebbe la possibilità di configurare i relativi obblighi come
oggetto di una vera e propria imposizione.
Gli argomenti esposti dalle due parti, fondati su una esatta
qualificazione della fattispecie giuridica presa in considerazione,
sono certamente idonei a dimostrare che le obbligazioni degli utenti
trovano la loro fonte immediata in un contratto, ed è del pari certo
che sulla natura del conseguente rapporto non incidono né il carattere
pubblicistico della concessione né i poteri che in proposito la legge
attribuisce al Governo. Queste conclusioni, tuttavia, non appaiono di
per sé sufficienti a giustificare la tesi dell’inapplicabilità
dell’art. 23 della Costituzione al caso in esame. Va anzitutto rilevato
che l’intercorrere del rapporto fra due soggetti privati – utente e
concessionario – e l’assoggettamento di esso alla disciplina
privatistica non fa certo venir meno il carattere pubblico del servizio
telefonico, che la legge riserva allo Stato (art. 1 R.D. 27 febbraio
1936, n. 645). Ciò premesso, e sviluppando spunti già contenuti nella
precedente giurisprudenza (cfr. sent. n. 55 del 1963), si deve
affermare che il carattere impositorio della prestazione non è escluso
per il solo fatto che la richiesta del servizio dipenda dalla volontà
del privato: ed invero tutte le volte in cui un servizio, in
considerazione di una sua particolare rilevanza, venga riservato alla
mano pubblica e l’uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni
della vita, è d’uopo riconoscere che la determinazione autoritaria
delle tariffe deve assimilarsi, nella realtà effettuale, ad una vera e
propria imposizione di prestazioni patrimoniali. Quando ricorrano
entrambi gli indicati presupposti, il fatto che l’obbligazione al
pagamento del corrispettivo del servizio presupponga la volontà
dell’utente di avvalersi dello stesso non giuoca, sotto il profilo che
qui viene in considerazione, un ruolo determinante. Se è vero,
infatti, che il cittadino è libero di stipulare o non stipulare il
contratto, è altrettanto vero che questa libertà si riduce alla
possibilità di scegliere fra la rinunzia al soddisfacimento di un
bisogno essenziale e l’accettazione di condizioni e di obblighi
unilateralmente e autoritariamente prefissati: si tratta, insomma, di
una libertà meramente formale, perché la scelta nel primo senso
comporta il sacrificio di un interesse assai rilevante. Si deve
ritenere, perciò, che quando si tratti di un servizio essenziale – e
non c’è dubbio che tale sia da considerare, nella odierna società,
quello relativo alle comunicazioni telefoniche -, esercitato in regime
di monopolio pubblico, la determinazione delle tariffe non possa essere
rimessa all’arbitrio dell’autorità, ma debba essere assistita da
quelle garanzie che la Costituzione ha voluto assicurare attraverso la
riserva di legge.
4. – Pienamente fondata, invece, risulta la tesi subordinata,
sostenuta sia dall’Avvocatura dello Stato che dalla difesa della
S.I.P., secondo la quale la determinazione delle tariffe telefoniche
avviene, nell’ordinamento ora in vigore, in base alla legge.
L’impugnato art. 232, infatti, non può essere considerato come avulso
dal sistema giuridico nel quale la disposizione oggi si inserisce, ed
il potere conferito all’autorità governativa deve necessariamente
essere valutato nel quadro del regime giuridico che in generale
disciplina le competenze, il procedimento ed i criteri concernenti la
fissazione dei prezzi dei servizi.
A tal proposito deve essere posto in rilievo che il potere di
determinare tali prezzi è devoluto al Comitato interministeriale
istituito con decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n.
347, secondo le modalità prescritte da tale provvedimento legislativo
e dalle successive disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale
23 aprile 1946, n. 363, e del decreto legislativo del Capo provvisorio
dello Stato 15 settembre 1947, n. 896, e bisogna ritenere – come
risulta dal primo comma dell’art. 4 della citata legge istitutiva del
nuovo organo, che non consente se non a quest’ultimo la modificazione
di preesistenti tariffe autoritative – che si tratta di una competenza
esclusiva, la quale è rimasta tale anche dopo l’emanazione del decreto
del Presidente della Repubblica 30 marzo 1968, n. 626, il cui art. 2 è
da intendersi nel senso che le direttive del Comitato interministeriale
per la programmazione economica in ordine alla determinazione delle
categorie di servizi per i quali il C.I.P. può esercitare le sue
attribuzioni non riguardi le ipotesi nelle quali la fissazione delle
tariffe sia prevista da una legge.
Una volta accertato che il Governo non può esercitare – ed in
effetti non esercita – il potere conferitogli dall’art. 232 del regio
decreto 27 febbraio 1936, n. 645, se non uniformandosi alle
deliberazioni adottate dal C.I.P., il problema in esame trova la sua
soluzione nelle considerazioni che la Corte, sia pure con riferimento
ad altra norma costituzionale, pose a fondamento della decisione
adottata con sentenza n. 103 del 1957. In quella occasione, infatti,
sulla base di quanto risulta dalle disposizioni concernenti la
composizione del C.I.P. e le modalità del suo funzionamento, venne
accertato che la legge attribuisce a quel Comitato un potere che “lungi
dall’essere illimitato sì da sconfinare in una valutazione di fattori
riservata al legislatore, è collegato ad elementi di natura tecnica
che ne circoscrivono l’ambito”. Le stesse ragioni giustificano la
conclusione che il denunziato art. 232, interpretato in collegamento
con la vigente legislazione sulla determinazione dei prezzi dei
servizi, non viola la riserva di legge prevista nell’art. 23 della
Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
concernente l’art. 135 del regio decreto 19 luglio 1941, n. 1198,
l’art. 49 dei decreti del Presidente della Repubblica 14 dicembre 1957,
nn. 1405, 1406, 1407 e 1409, e del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1957, n. 1408, ed il decreto ministeriale 24
aprile 1964 (Gazzetta Ufficiale n. 104 del 28 aprile 1964), sollevata
dall’ordinanza 26 ottobre 1967 del giudice conciliatore di Genova in
riferimento all’art. 23 della Costituzione;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, contenente il
“codice postale e delle telecomunicazioni”, sollevata dalla stessa
ordinanza in riferimento all’art. 23 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 marzo 1969.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ERCOLE ROCCHETTI – ENZO
CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE.