Sentenza N. 74 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
26/05/1981
Data deposito/pubblicazione
26/05/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
03/04/1981
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. LEOPOLDO ELIA Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof.
LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA –
Prof. VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
degli artt. 10, comma primo, e 131 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124
(Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) promosso
con le ordinanze emesse il 24 gennaio 1975 e il 13 luglio 1977 dal
Pretore di Torino, nei procedimenti civili vertenti tra Vercelli
Ilario e Longo Andrea e la Soc.p.a. Michelin italiana,
rispettivamente iscritte al n. 231 del registro ordinanze 1975 e al n.
81 del registro ordinanze 1978 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 195 del 1975 e n. 109 del 1978.
Visti gli atti di costituzione della Soc.p.a. Michelin italiana e
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 gennaio 1981 il Giudice
relatore Brunetto Bucciarelli Ducci;
uditi l’avv. Cristoforo Barberio Corsetti per la Soc.p.a. Michelin
italiana, e l’avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
1. – Con due ordinanze emesse dal pretore di Torino e iscritte ai
nn. 231/1975 e 81/1978 viene sollevata, in riferimento agli artt. 3,
4, 24, 32 e 41 della Costituzione, questione incidentale di
legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 10,
primo comma, e 131 d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui esonera
il datore di lavoro dalla responsabilità civile contrattuale nei
confronti del lavoratore in presenza dell’assicurazione contro gli
infortuni e le malattie professionali.
Secondo il pretore le norme denunciate svuoterebbero di
significato concreto il precetto di cui all’art. 2087 cod. civ. e
sarebbero in contrasto con la ratio dell’art. 9 della legge n. 300 del
1970, che consente ai lavoratori di controllare attraverso proprie
rappresentanze l’ambiente di lavoro sotto il profilo della sicurezza
igienico-prevenzionistica. In particolare il giudice a quo ravvisa
nella disciplina impugnata la violazione dei seguenti principi
costituzionali: a) il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), perché
ai lavoratori sarebbe preclusa la possibilità – riconosciuta agli
altri cittadini – di richiedere la tutela giurisdizionale dei diritti
ad essi derivanti dal rapporto di lavoro e dalle norme che lo
regolano; b) il principio della tutela giurisdizionale dei propri
diritti (art. 24 Cost.), perché nelle ipotesi di specie il ricorso a
tale tutela si risolverebbe in un rifiuto di ogni valutazione di
merito; c) il principio della tutela della salute (art. 32 Cost.)
perché, assoggettando le violazioni agli obblighi previsti dall’art.
2087 cod. civ. alle sole sanzioni penali e non anche alle dirette
sanzioni civili, gli articoli impugnati attribuirebbero alla norma
costituzionale mera natura programmatica; d) il principio della
subordinazione della libertà di iniziativa economica all’utilità
sociale (art. 41 Cost.), nella quale deve farsi rientrare la difesa
della sicurezza, della libertà e dignità umana, che sono corollari
del diritto al lavoro e alla tutela dello stesso, affermato nell’art.
4 della Costituzione.
2. – In entrambi i giudizi si è costituita la Società per azioni
Michelin Italiana (S.A.M.I.), resistente nei giudizi di merito,
rappresentata e difesa dagli avvocati Agostino e Teodoro Manara,
eccependo in primo luogo l’irrilevanza della questione di
illegittimità sollevata dal pretore e in subordine la sua
infondatezza.
La parte privata osserva, in ordine alla rilevanza, che l’impugnato
art. 10 del t.u. n. 1124/1965 afferma la responsabilità civile del
datore di lavoro qualora la sentenza penale stabilisca che
l’infortunio, o la malattia, è avvenuto per fatto imputabile al
datore di lavoro o ad alcuno dei soggetti del cui operato il datore
debba rispondere, cosicché la questione di costituzionalità sarebbe
stata rilevante solo se e quando il giudice penale avesse escluso
dette responsabilità. L’irrilevanza viene anche prospettata sotto
altro profilo, in quanto il giudizio avrebbe potuto definirsi anche
senza la risoluzione della questione di legittimità costituzionale,
qualora fosse risultata in linea di fatto la mancanza di fondamento
delle pretese degli istanti (nocività dell’ambiente, nesso di
causalità con le malattie lamentate, ecc.) con conseguente assoluzione
del datore di lavoro.
3. – È intervenuto nei due giudizi il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per la manifesta infondatezza della questione
sollevata. Assume l’Avvocatura che l’intero sistema legislativo in
materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali non configura il rapporto tra lavoratore, datore di
lavoro e istituto previdenziale, come una vera e propria assicurazione
da responsabilità civile (nel senso di strumento predisposto per
sollevare il datore di lavoro dalle conseguenze degli infortuni), ma
piuttosto come mezzo diretto di tutela dell’infortunato. In effetti
mentre il lavoratore assicurato vede estesa la prestazione
assicurativa anche in ipotesi in cui non possa configurarsi
responsabilità civile di terzi, il datore di lavoro ne riceve un
vantaggio indiretto in quanto l’indennizzo assicurativo da un lato va a
scomputo del risarcimento in ipotesi dovuto e dall’altro costituisce
il limite del risarcimento stesso. In questo senso soltanto – spiega
l’Avvocatura – va inteso il cosiddetto “esonero di responsabilità”,
sulla cui legittimità costituzionale la Corte costituzionale si è
già pronunciata con le sentenze nn. 22 del 1967 e 134 del 1971.
4. – Nelle more di questo giudizio Ilario Vercelli, istante nel
procedimento di cui all’ordinanza di rimessione n. 231/1975, ha
definito transattivamente la vertenza con la S.p.a. Michelin Italiana,
con la conseguente estinzione del relativo processo.
1. – I giudizi promossi con le due ordinanze di rimessione possono
essere riuniti e definiti con unica sentenza, essendo identica la
questione prospettata.
La Corte costituzionale deve decidere se contrasti o meno con gli
artt. 3, 4, 24, 32 e 41 della Costituzione il combinato disposto degli
artt. 10, primo comma, e 131 d.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965, nella
parte in cui esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile
contrattuale in presenza dell’assicurazione contro gli infortuni e le
malattie professionali, per il dubbio che tale esenzione violi: a) il
principio di uguaglianza, discriminando i lavoratori rispetto agli
altri cittadini; b) il principio della tutela giurisdizionale dei
propri diritti, essendo preclusa nelle ipotesi denunciate ogni
valutazione di merito; c) il principio della tutela della salute,
assoggettando le violazioni degli obblighi previsti dall’art. 2087
cod. civ. alle sole sanzioni penali; d) il principio della
subordinazione della libertà di iniziativa economica all’utilità
sociale, comprendente la difesa della salute del lavoratore.
2. – Va, innanzitutto, disattesa la eccezione di irrilevanza
proposta dalla Soc. Michelin.
È vero, infatti, che l’impugnato art. 10 del t.u. n. 1124 del
1965 esclude in tema di infortuni sul lavoro la responsabilità civile
del datore di lavoro, a meno che non sia intervenuta una sentenza
penale, la quale stabilisca che l’infortunio è avvenuto per fatto
imputabile all’imprenditore o ad alcuno dei soggetti del cui operato
egli debba civilmente rispondere (secondo e terzo comma, come
modificati a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 22
del 1967) e che l’art. 131 dello stesso testo unico estende tale
deroga alle malattie professionali.
Ma la questione di costituzionalità non si pone nel giudizio
civile – come sostiene la difesa della Società Michelin – solo dopo
che il giudice penale abbia escluso le suddette responsabilità, ma
nel momento stesso in cui il giudice a quo si vede precluso ogni esame
in ordine alla responsabilità civile del datore di lavoro, per
effetto appunto della norma impugnata; salvo nei casi, non ricorrenti
nella fattispecie, di amnistia, morte dell’imputato o prescrizione
(art. 10, quinto comma, come modificato dalla citata sentenza della
Corte costituzionale). La stessa indagine sull’esistenza o meno di
una sentenza penale presuppone, infatti, l’applicazione della norma
denunciata.
3. – La questione nel merito è comunque infondata.
Le norme impugnate, invero, non entrano in conflitto né col
principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) né con quello della tutela
giurisdizionale dei diritti (art. 24 Cost.), che al primo chiaramente
si richiama nella prospettazione del giudice a quo. Si ha contrasto,
infatti, con il principio di uguaglianza – secondo le precedenti
pronuncie di questa Corte – solo quando le disparità fra due
discipline riguardanti fattispecie relativamente omogenee sono tali da
non trovare alcun ragionevole fondamento nella diversità di
situazioni.
Nell’attuale normativa previdenziale-assicurativa in tema di
infortuni sul lavoro e malattie professionali, della quale fanno parte
integrante gli articoli denunciati, il lavoratore riceve una
particolare tutela in caso di infortunio o di malattia causati dalla
sua attività lavorativa, che lo pone in linea di massima in una
situazione giuridicamente più favorevole degli altri cittadini che
abbiano subito un infortunio o contratto una malattia per cause
estranee ai rapporti di lavoro. Questi vantaggi, in deroga alle norme
generali, consistono – come si rileva nella citata sentenza di questa
Corte n. 22 del 1967 – sotto l’aspetto sostanziale nella garanzia al
lavoratore di essere risarcito in ogni caso, anche quando l’infortunio
sia occorso per caso fortuito o addirittura per sua colpa, e sotto
l’aspetto procedurale nell’automaticità della liquidazione
dell’indennizzo, che lo esonera dal promuovimento dell’azione
giudiziaria e di conseguenza dall’onere della prova. A questi vantaggi
del lavoratore, che si ricollegano all’origine assicurativa del
sistema, corrisponde il cosiddetto esonero del datore di lavoro dalla
responsabilità civile, nel senso che la misura del risarcimento, in
deroga alle norme generali, è limitata all’indennizzo erogato
dall’INAIL secondo speciali tabelle predisposte, anche se inferiore
all’effettivo danno subito dall’infortunato.
Tale limitazione, tuttavia, non determina, nell’attuale stato
della normativa, un sostanziale pregiudizio per il lavoratore, in
quanto la responsabilità civile del datore di lavoro rivive in tutta
la pienezza dei principi generali nell’ipotesi – come si è già
osservato – di sentenza penale di condanna che abbia affermato la
responsabilità, nella produzione dell’evento lesivo, del datore di
lavoro o di qualsiasi suo sottoposto di cui egli debba civilmente
rispondere secondo le norme generali, oppure nelle ipotesi di
amnistia, morte dell’imputato o prescrizione del reato. In tutti
questi casi il giudice civile può essere adito dal lavoratore per
sentire affermato il suo diritto all’integrale risarcimento del danno
subito, al di là delle somme già erogate dall’INAIL.
Ora, se si considera la complessa e vasta normativa penale vigente
in materia di prevenzione degli infortuni e malattie professionali e
di tutela degli ambienti di lavoro, risulta del tutto marginale in
concreto l’eventualità di un fatto lesivo che non integri gli estremi
di un illecito penale, essendo sufficiente per affermare la
responsabilità penale per colpa – norma dell’art. 43 cod. pen. – che
il fatto sia stato determinato da negligenza o inosservanza di
disposizioni di legge.
La stessa violazione degli obblighi sanciti a carico
dell’imprenditore dall’art. 2087 cod. civ., per assicurare la
integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, è idonea
di per sé – come ritiene la giurisprudenza ordinaria – a configurare
la nozione giuridica di colpa, prevista in linea generale dal citato
art. 43 cod. pen., cosicché anche la violazione dell’art. 2087 cod.
civ., qualora valga ad integrare un’ipotesi di reato colposo, lesivo
dell’incolumità del lavoratore, costituisce inscindibilmente illecito
penale e civile e fa, conseguentemente, venir meno l’esonero da
responsabilità civile del datore di lavoro.
La suddetta eventualità marginale e l’impossibilità per il
lavoratore di adire autonomamente il giudice civile (salve le previste
ipotesi di amnistia, prescrizione o morte dell’imputato) trovano
dunque una giustificazione, secondo la valutazione discrezionale del
legislatore, nei molteplici e più significativi vantaggi garantiti
allo stesso lavoratore dal sistema vigente, cosicché la disparità
che ne deriva rispetto alla generalità dei cittadini non è
arbitraria o irrazionale, rispondendo a situazioni giuridicamente non
omogenee.
4. – Neppure risultano violati i principi costituzionali che
tutelano il lavoro (art. 4 Cost.), la salute (art. 32 Cost.) e
l’utilità sociale della libertà di iniziativa economica (art. 41
Cost.).
Si potrebbe, invero, dubitare che il datore di lavoro, per effetto
del cosiddetto esonero dalla responsabilità civile, non sia
incentivato ad adottare le misure precauzionali in materia di
sicurezza e di igiene degli ambienti di lavoro, quali sono previste
dalla legislazione in vigore e dagli stessi contratti collettivi. Si
verrebbe così a determinare una situazione di maggiore pericolosità
per la salute e l’integrità fisica del lavoratore, rispetto a quella
che vi sarebbe se l’esonero venisse eliminato.
Senonché nessuna minore incentivazione all’osservanza delle
misure di salvaguardia si verifica in concreto, quando si pensi che
l’inosservanza o l’omissione di queste misure ‘ di per sé sufficiente
– come si è già rilevato – ad integrare la responsabilità penale
del datore di lavoro per gli eventi lesivi a danno dei lavoratori ed a
far rivivere, di conseguenza, integralmente la sua responsabilità
civile secondo i principi generali.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
del combinato disposto degli artt. 10, primo comma, e 131 d.P.R. 30
giugno 1965, n. 1124, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24,
32 e 41 della Costituzione, dal pretore di Torino.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 3 aprile 1981.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
MICHELE ROSSANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere