Sentenza N. 80 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
03/06/1970
Data deposito/pubblicazione
03/06/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
21/05/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
– Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
31, 34, primo comma, e 39, primo comma, dell’Ordinamento giudiziario
approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 14 novembre 1968 dal pretore di Bologna nel
procedimento penale a carico di Moruzzi Armando, iscritta al n. 9 del
registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 66 del 12 marzo 1969;
2) ordinanza emessa il 26 giugno 1969 dal pretore di Torino nel
procedimento penale a carico di Borca Spartaco, iscritta al n. 398 del
registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 280 del 5 novembre 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 aprile 1970 il Giudice relatore
Ercole Rocchetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso di un procedimento penale a carico di Moruzzi Armando,
imputato di furto nei magazzini Standa, il pretore di Bologna, su
istanza della difesa e su conclusioni conformi del pubblico ministero,
con ordinanza emessa il 14 novembre 1968 ha proposto, come rilevanti e
non manifestamente infondate, questioni di legittimità costituzionale
concernenti gli artt. 4 (limitatamente alla espressione “di ogni
grado”), 31 (limitatamente alla espressione “in sottordine”), 34 e 39,
comma primo, dell’Ordinamento giudiziario approvato con R .D. 30
gennaio 1941, n. 12, ritenendole contrarie alle norme di cui agli artt.
101 e 107, comma terzo, della Costituzione.
Il pretore, in via pregiudiziale, esamina la proponibilità in
genere di questioni di costituzionalità aventi per oggetto norme
dell’Ordinamento giudiziario anteriore alla Costituzione, stante che la
disposizione VII transitoria, col prescrivere che, in attesa di una
nuova legge in materia, seguitano ad applicarsi quelle della vecchia
legge, sembra aver precluso la proponibilità di tali questioni. Egli
ritiene invece che esse siano, allo stato, proponibili perché anche se
non è stata ancora emanata una nuova legge generale sull’Ordinamento
giudiziario, molte parziali riforme sono state ad esso apportate con
vari e numerosi provvedimenti legislativi i quali, avendo, nel
complesso, trasformato l’ordinamento anteriore, inducono a considerare
non più operante la preclusione che potesse comunque derivare dalla
norma VII transitoria della Costituzione.
Quanto alla rilevanza, il pretore di Bologna osserva che la
illegittimità costituzionale delle norme da lui denunciate, attenendo
esse alla natura delle funzioni di cui egli è stato investito,
inficierebbe la sua stessa capacità di giudice e, ai sensi dell’art.
185 n. 1 del codice di procedura penale importerebbe conseguenzialmente
la nullità dei provvedimenti che egli adottasse nel giudizio in corso
come in ogni altro giudizio.
In ordine poi alla non manifesta infondatezza, lo stesso pretore
rileva che le disposizioni dell’Ordinamento giudiziario del 1941, da
lui denunziate, devono ritenersi contrarie alle norme degli artt. 101,
comma secondo, e 107, comma terzo, della Costituzione perché, mentre
queste proclamano che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e
che “i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di
funzioni” quelle – restate, a suo parere, sostanzialmente invariate nel
loro contenuto anche dopo la emanazione della legge 24 maggio 1951, n.
392 – configurerebbero i giudici, e in particolare i pretori, come
strutturati in ordine gerarchico; secondo si evincerebbe dall’art. 4
che parla di giudici “di ogni grado” delle preture, dei tribunali e
delle corti e dall’art. 31, che parla di magistrati “in sottordine”
destinati a coadiuvare il titolare della pretura nell’adempimento delle
“sue” funzioni (art. 34); e di sezioni presiedute dal magistrato più
“elevato in grado”.
Concludendo, il pretore di Bologna rileva che la eventuale
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate
“non intaccherebbe le necessarie attribuzioni del titolare, cui l’art.
38 dell’Ordinamento, che non si contesta, già riserva la direzione
dell’ufficio, la distribuzione del lavoro fra le sezioni, la esclusiva
competenza per le attribuzioni di carattere amministrativo, e la
sorveglianza sull’ordinamento generale dei servizi”.
2. – Le stesse questioni di legittimità costituzionale, in
rapporto ai soli artt. 31 e 34 dell’Ordinamento giudiziario e in
riferimento, oltre che agli artt. 101 e 107, anche all’art. 25 della
Costituzione, sono state proposte dal pretore di Torino con ordinanza
26 giugno 1969, emessa nel corso del procedimento penale a carico di
Borca Spartaco, imputato del reato di cui all’art. 217 del R.D. 16
marzo 1942, n. 267.
Il pretore di Torino, dopo essersi rimesso alle ragioni espresse
dal pretore di Bologna nell’ordinanza sopra richiamata, aggiunge che la
generica dizione delle norme denunziate, riferentesi a un rapporto di
gerarchia, rende possibile quella prassi, che si attua nelle grandi
preture ed in base alla quale vengono scisse ripartendole in separate
sezioni, le funzioni istruttorie da quelle decisorie: il che
faciliterebbe, da parte del titolare, la scelta del giudice d’udienza
per ogni singolo processo, con violazione del principio del giudice
naturale, preordinato per legge, ai sensi dell’art. 25, comma primo,
della Costituzione.
3. – Mentre nel secondo giudizio non vi è stata costituzione di
parti, nel primo è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale, con
deduzioni 5 febbraio 1969, ha chiesto che siano dichiarate infondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate dal pretore di
Bologna.
Secondo l’Avvocatura, il fatto che l’ordinanza sia stata emanata e
che la Corte costituzionale sia stata investita delle questioni di
legittimità prospettate dal giudice a quo, costituirebbe la prova più
evidente della indipendenza dei magistrati addetti agli uffici della
pretura. Tale osservazione varrebbe non solo ai fini della decisione di
merito, ma anche dello stesso giudizio di rilevanza della questione.
Per quanto attiene al principio di gerarchia ravvisato dal pretore
nelle norme impugnate, l’Avvocatura rileva che già all’epoca di
emanazione della legge sull’ordinamento giudiziario, esso non poteva
essere confuso col vincolo di subordinazione gerarchica di tipo
amministrativo perché, all’enfasi autoritaria delle espressioni, non
avrebbe corrisposto un condizionamento della capacità del giudice,
indipendente e soggetto soltanto alla legge. A maggior ragione, se le
norme impugnate vengono collocate nella luce delle disposizioni della
Costituzione e della legge 24 maggio 1951, n. 392, le espressioni che,
secondo l’ordinanza, si riferiscono ad una asserita subordinazione
gerarchica, acquisterebbero un diverso significato in chiave di
strutturazione amministrativa, in quanto esse varrebbero sul piano
della organizzazione funzionale e della direzione dell’ufficio.
L’Avvocatura infine rileva come lo stesso giudice a quo riconosca
spettare legittimamente al titolare della pretura i poteri attinenti
alla distribuzione del lavoro tra le sezioni, alla competenza per le
attribuzioni di carattere amministrativo e alla sorveglianza
sull’andamento generale dei servizi.
Stante la parziale identità dell’oggetto delle questioni sollevate
con le due ordinanze, le due cause vanno decise con unica sentenza.
1. – Secondo il pretore di Bologna, gli artt. 4, 31, 34 e 39
dell’ordinamento giudiziario, approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n.
12, sarebbero incostituzionali perché – enunciando che l’ordine
giudiziario è costituito dai giudici di “ogni grado” delle preture,
dei tribunali e delle corti, che alle preture sono assegnati, uno o
più magistrati “in sottordine” i quali coadiuvano il titolare
nell’espletamento delle “sue” funzioni, e che le sezioni sono
presiedute dal magistrato “più elevato in grado” – configurerebbero
una magistratura tutta ordinata in gradi, e cioè in ordine gerarchico;
e sarebbero perciò in contrasto con gli artt. 101 e 107 della
Costituzione, i quali dispongono invece che i giudici sono soggetti
soltanto alla legge (e quindi non al superiore gerarchico) e che i
magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni
(e quindi non di grado).
Oltre ad aderire genericamente a questi rilievi, il pretore di
Torino aggiunge poi che i poteri riconosciuti ai pretori titolari da
tali norme dell’ordinamento giudiziario renderebbero possibile la
prassi, invalsa nelle grandi preture, di costituire sezioni incaricate
della sola istruttoria; prassi che, consentendo al titolare di
scegliere, in sede di assegnazione delle cause al dibattimento, il
giudice, violerebbe il principio del giudice naturale precostituito per
legge, tutelato dall’art. 25, comma primo, della Costituzione.
2. – Il pretore di Bologna prospetta, in via pregiudiziale, la
questione relativa alla stessa proponibilità dei giudizi di
costituzionalità in rapporto alle norme dell’ordinamento giudiziario
del 1941, stante che la disposizione VII transitoria, stabilendo che,
fin quando non sia emanata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario
in conformità della Costituzione, continuano a osservarsi le norme
dell’ordinamento anteriore, sembra aver voluto precludere la
proposizione di questioni di costituzionalità in ordine ad esse.
Ma egli rileva altresì che, essendo stato, con vari provvedimenti
legislativi, modificato in più parti l’ordinamento giudiziario del
1941, debba ammettersi che questo, anche se non rinnovato in toto, più
non esista nella sua originaria struttura e che la norma che ne
disponeva la provvisoria conservazione nel nuovo ordine costituzionale
sia da ritenersi caducata, per essere venuto a mancare l’oggetto cui si
riferiva.
3. – La Corte, condividendo la tesi così esposta, ritiene, in
conformità della sua sentenza n. 156 del 1963, che (in qualunque modo
dovesse essere interpretata la VII disposizione transitoria della
Costituzione), una volta avvenuta la revisione, sia pure parziale,
dell’ordinamento giudiziario preesistente, le norme conservate, cui si
inseriscono e sovrappongono le nuove, non possano sfuggire al sindacato
di legittimità costituzionale. E, si aggiunge, non possono
particolarmente sfuggirvi quelle denunziate che, contrariamente a
quanto si mostra di ritenere nelle ordinanze di rimessione, e secondo
si dirà meglio in seguito, sono state incisivamente modificate e per
così dire riplasmate, dalle disposizioni di cui alla legge 24 maggio
1951, n. 392.
4. – Quanto alla rilevanza, la Corte non condivide i dubbi di cui
è cenno nelle difese dell’Avvocatura.
In proposito la Corte non può che riferirsi alla sua costante
giurisprudenza, secondo la quale è rimesso al giudice del merito
accertare se le questioni sollevate costituiscono presupposto
necessario per la definizione della lite: accertamento che quando, come
nel caso, sia sufficientemente motivato, si sottrae al controllo in
questa sede.
5. – Passando all’esame del merito, la Corte rileva che nessuna
delle questioni proposte è da ritenersi fondata.
Innanzi tutto è da porre in evidenza che, contrariamente a quanto
si afferma nelle due ordinanze di rimessione, non è esatto che la
legge 24 maggio 1951, n. 392 – della legittimità costituzionale delle
cui disposizioni non si discute – non abbia sostanzialmente mutato la
normativa anteriore quanto alla divisione dei magistrati per gradi.
Quella legge, all’art. 1, stabilisce, in conformità della formula
della Costituzione, che i magistrati ordinari “si distinguono secondo
le funzioni” e si dividono, appunto in base ad esse, in magistrati di
tribunale, di Corte di appello e di Cassazione. Da quella legge non
possono quindi non ritenersi modificati, anche nella loro espressione
letterale, gli artt. 4, comma primo, e 39, comma primo, del R.D. 30
gennaio 1941, n. 12, nei quali, al riferimento ai gradi, va sostituito
quello di funzioni. Né si dica, come appare al pretore di Bologna, che
col mutare i termini non si risolve la questione di sostanza perché,
attraverso le funzioni, sarebbero conservati i vecchi gradi (così, ad
esempio, potrebbe osservarsi che, se, per l’art. 39, la presidenza
della sezione va attribuita al magistrato più elevato “in grado”,
nulla cambia se leggiamo ora che va assegnata al magistrato più
elevato “nelle funzioni”, in quanto, comunque lo si chiami, il
designato è sempre lo stesso).
Ma tutto ciò non implica nessuna contraddizione con la norma
costituzionale che, pur distinguendo i magistrati secondo le funzioni,
non esclude che le funzioni siano fra loro graduate secondo la
importanza che esse hanno nello stesso ordine del processo e non
postula affatto che ai magistrati venga riconosciuta una posizione di
assoluta parificazione, giacché nella stessa Costituzione, all’art.
105, si prevede che fra i magistrati intervenga avanzamento per
promozioni, assegnandosene il relativo compito al Consiglio superiore
della magistratura.
Questa Corte, già nella sentenza n. 168 del 1963, ebbe a ritenere
che una parificazione tra i magistrati esiste, in relazione all’art.
101 della Costituzione (i giudici sono soggetti soltanto alla legge),
solo per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni istituzionali e gli
atti ai quali esse si ricollegano. Quegli atti sono infatti emanati in
base alla legge e sono sottratti a qualsiasi sindacato, che non sia
quello espressamente preveduto dalle leggi processuali.
Tale parificazione, invece, non sussiste relativamente alla
posizione soggettiva che, al di fuori delle predette funzioni, i
magistrati assumono nell’ordinamento giudiziario, nel quale ovviamente,
in vista della crescente importanza delle funzioni in rapporto alle
fasi del processo, sono connessi affidamenti di incarichi direttivi e
titolarità di uffici.
6. – Quanto alle disposizioni contenute negli artt. 31 e 34
dell’ordinamento giudiziario, che qualificano in sottordine i
magistrati di pretura in contrapposizione al titolare dell’ufficio, è
ovvio che anch’esse vanno ora lette in rapporto alla nuova terminologia
e soprattutto allo spirito della legge del 1951 che ha distinto, come
vuole la Costituzione, i magistrati secondo le funzioni: ed esclude
quindi fra loro una subordinazione gerarchica del tipo di quella che
regola i rapporti tra i funzionari della pubblica amministrazione e
che, del resto, i magistrati non possono subire, perché incompatibile
con la natura stessa della loro funzione.
Quella terminologia arcaica è ora da ritenersi del tutto
impropria: e la riprova della improprietà, per quanto concerne i
magistrati così detti “in sottordine”, è fornita dalla stessa legge
la quale, determinando quali siano i poteri del titolare nei loro
confronti, li elenca, nell’art. 38, in modo del tutto ortodosso in
rapporto anche alla nuova concezione costituzionale dell’ordine
giudiziario, giacché stabilisce che “il titolare della pretura dirige
l’ufficio e distribuisce il lavoro delle sezioni”. Ed aggiunge che:
“sono di sua esclusiva competenza le attribuzioni di carattere
amministrativo e la sorveglianza sull’andamento generale dei servizi”.
Tale disposizione sembra anche al pretore di Bologna ineccepibile nel
suo contenuto e nella sua formulazione, onde egli afferma,
nell’ordinanza, che i poteri con essa conferiti al titolare
dell’ufficio sono necessari e non vanno contestati, né possono
risultare intaccati da una eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle norme da lui impugnate.
Ma, così dicendo, lo stesso pretore ammette che queste ultime
norme, per quanto improprie nella loro terminologia, non possono essere
affette da incostituzionalità, dal momento che sono immuni da tale
censura le norme che determinano i poteri del titolare, cui
corrispondono i correlativi doveri degli altri magistrati addetti alla
pretura, comunque essi siano qualificati. Se, come è certo, oltre a
quelli elencati nell’art. 38, e ritenuti legittimi, il pretore
titolare non ha altri poteri nei confronti dei magistrati dell’ufficio,
questi, anche se qualificati “in sottordine”, non subiscono infatti
alcuna menomazione delle proprie attribuzioni, né viene lesa la
relativa tutela costituzionale. Il che è quanto dire che la eccezione
di costituzionalità è infondata, perché investe una terminologia,
che si può senz’altro ritenere discordante con quella della
Costituzione, ma che, non concretando alcun contenuto normativo lesivo
di quest’ultima, non può dar luogo a pronuncie di incostituzionalità.
Perché è ovvio che le norme possono annullarsi in rapporto al loro
contenuto, contrastante con la Costituzione, e non alla sola
improprietà lessicale delle parole che lo esprimono.
7. – Esaminando infine le questioni sollevate dal pretore di Torino
sulle norme degli artt. 31 e 34 dell’ordinamento giudiziario, in
riferimento agli artt. 25, comma primo, 101 e 107, comma terzo, della
Costituzione, la Corte rileva che esse debbono essere dichiarate
egualmente infondate.
Valgono per le censure da lui proposte, e comuni nelle due
ordinanze, gli argomenti già svolti.
Si aggiunge soltanto che la prassi, che si dice in uso nelle grandi
preture per agevolare il lavoro dei magistrati nell’interesse del
servizio, e consistente nel riunire in una o più sezioni la sola
attività istruttoria e quindi dividere ogni processo fra due
magistrati, uno che l’istruisce e uno che lo giudica, ovviamente non
può essere denunziata sul piano costituzionale se non in riferimento
alle norme che l’autorizzano.
Ed il pretore di Torino, che ciò avverte, indica le norme, ma in
modo ipotetico, giacché aggiunge che “se questa prassi si fonda sugli
artt. 31 e 34 dell’ordinamento, che la consentono, le norme sono in
contrasto anche con l’art. 25, primo comma, della Costituzione”.
Ciò posto, e pur rilevando che la denominazione dei pretori,
qualificati “in sottordine”, non ha collegamento alcuno con quella
prassi, deve osservarsi altresì che fra le norme che quella
qualificazione contengono e per la ragione che la contengono, e l’art.
25 della Costituzione, che enuncia il principio del giudice naturale,
non vi è parimenti alcuna logica connessione e nessun possibile
contrasto. La facoltà di cui fa uso il pretore titolare nel creare
sezioni volte alla sola istruzione dei processi va valutata in rapporto
ai suoi poteri, i quali sono enunciati nell’art. 38, articolo a
proposito del quale, e secondo si è già visto, in una delle due
ordinanze di rimessione si esclude espressamente ogni dubbio di
costituzionalità.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 4, 31, 34, comma primo, e 39, comma primo, dell’ordinamento
giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, questioni
proposte, con le ordinanze citate in epigrafe, in riferimento agli
artt. 25, comma primo, 101 e 107, comma terzo, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.