Sentenza N. 81 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
14/04/1969
Data deposito/pubblicazione
14/04/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/04/1969
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE,
Giudici,
primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, contenente norme sui
licenziamenti individuali, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 31 maggio 1967 dal pretore di Vicenza nel
procedimento civile vertente tra Castellani Livio e la società
“Fornaci di Villaverla”, iscritta al n. 199 del Registro ordinanze 1967
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 258 del 14
ottobre 1967;
2) ordinanza emessa il 3 giugno 1967 dal pretore di Napoli nel
procedimento civile vertente tra Carretta Carmine e la ditta Marino
Alfonso, iscritta al n. 212 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 282 dell’11 novembre 1967;
3) ordinanza emessa il 20 luglio 1967 dal pretore di Pistoia nel
procedimento civile vertente tra Danesi Ugo e Piona Giulietto, iscritta
al n. 222 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 282 dell’11 novembre 1967;
4) ordinanza emessa il 29 aprile 1968 dal pretore di Cuneo nel
procedimento civile vertente tra Brondolo Luigi e l’impresa servizi
pubblici appaltati Murasso, iscritta al n. 126 del Registro ordinanze
1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 222 del
31 agosto 1968;
5) ordinanza emessa il 3 maggio 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento civile vertente tra Proietti Bruno e Tenaglia Giovanni,
iscritta al n. 130 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 222 del 31 agosto 1968;
6) ordinanza emessa il 5 giugno 1968 dal pretore di Trieste nel
procedimento civile vertente tra Bacer Nevio e Sfacich Natale, iscritta
al n. 153 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 235 del 14 settembre 1968;
7) ordinanza emessa il 30 giugno 1968 dal pretore di Giulianova nel
procedimento civile vertente tra Bonomo Elpidio e la ditta Zenobi
Pasquale, iscritta al n. 195 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968.
Visti gli atti di costituzione di Castellani Livio e della società
“Fornaci di Villaverla”, e di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 12 marzo 1969 la relazione del
Giudice Luigi Oggioni;
uditi l’avv. Benedetto Bussi, per Castellani, gli avvocati Arturo
Carlo Jemolo e Giuseppe Stratta, per la società “Fornaci di
Villaverla”, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Con un gruppo di sette ordinanze, emesse nel corso di procedimenti
civili, è stata sottoposta alla Corte la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 11, primo comma, della legge 15 luglio 1966,
n. 604, contenente norme sui licenziamenti individuali, che esclude
l’applicabilità a favore dei lavoratori impiegati presso le imprese
con meno di 35 dipendenti, della garanzia della stabilità del posto;
garanzia che sussiste per le imprese con più di 35 dipendenti, dato
che il licenziamento, sancito dalla legge stessa, non può avvenire se
non per giusta causa dimostrabile.
Le seguenti ordinanze, elencate secondo l’ordine di iscrizione
nello speciale registro della cancelleria, e riferentisi alle cause per
ognuna di esse indicate, hanno sollevato la questione in relazione
all’art. 3 della Costituzione:
ordinanza del pretore di Vicenza, del 31 maggio 1967: Castellani
Livio contro la società “Fornaci di Villaverla”;
ordinanza del pretore di Cuneo del 29 aprile 1968: Luigi Brondolo
contro l’Impresa servizi pubblici appaltati Murasso;
ordinanza del pretore di Pistoia del 20 luglio 1967: Danesi Ugo
contro Piona Giulietto;
ordinanza del pretore di Roma del 3 maggio 1968: Proietti Bruno
contro Tenaglia Giovanni;
ordinanza del pretore di Trieste del 5 giugno 1968: Bacer Nevio
contro Sfarcich Natale;
ordinanza del pretore di Giulianova del 30 giugno 1968: Bonomo
Elpidio contro la ditta Zenobi Pasquale.
Ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale della
detta norma, oltre che per violazione del principio di eguaglianza,
anche in relazione agli artt. 4 e 35 della Costituzione, il pretore di
Napoli, con ordinanza del 3 giugno 1967 emessa nel procedimento civile
vertente fra Carretta Carmine e la Ditta Marino Alfonso.
Quanto al primo profilo di illegittimità il pretore di Vicenza
osserva che la norma impugnata provocherebbe una ingiustificata
disparità di trattamento fra i lavoratori delle imprese con meno di 35
dipendenti e gli altri perché il riferimento al mero dato numerico,
trascurando le effettive dimensioni dell’impresa, che potrebbero essere
anche assai vaste pur abbisognando di un ristretto numero di dipendenti
grazie alle moderne tecniche organizzative e di produzione,
escluderebbe che la diversa disciplina stabilita dalla legge
corrisponda ad una intrinseca diversità di situazioni, riflettendo
piuttosto le condizioni personali e sociali dei lavoratori
discriminati. Comunque, prosegue l’ordinanza del pretore di Vicenza, i
rapporti di lavoro dei dipendenti delle imprese al di sotto o al di
sopra del limite sarebbero sostanzialmente eguali, e postulerebbero
pertanto una identica garanzia, né tale identità potrebbe negarsi per
la maggiore accentuazione del carattere fiduciario del rapporto
istituito con le imprese della prima categoria, potendosi prevedere,
almeno nel caso di una differenza di pochi dipendenti, che il datore
di lavoro ne riduca il numero, allo scopo di conservare la facoltà di
licenziamento ad nutum, prevista dall’art. 2118 del Codice civile.
D’altronde, proprio il carattere collaborativo del rapporto
dovrebbe, se mai, imporre al datore di lavoro di non procedere a
licenziamenti se non per colpa del dipendente o per obiettive ragioni
di azienda, cioè dovrebbe maggiormente esigere l’osservanza di quelle
stesse garanzie apprestate dalla legge de qua a favore dei lavoratori
presso le imprese al di sopra del limite di 35 dipendenti. E ciò senza
dire, soggiunge l’ordinanza, che l’intuitus personne, nell’attuale
preminenza del capitale nel ciclo produttivo, si paleserebbe come un
elemento quasi del tutto estraneo al rapporto di lavoro onde, anche
sotto questo aspetto, la diversità di trattamento sancita dalla
impugnata disposizione sarebbe ingiustificata e condurrebbe, fra
l’altro, ad una disparità di dignità sociale fra soggetti fruenti di
una diversa sicurezza del posto di lavoro.
Mentre concetti in tutto analoghi sono espressi nell’ordinanza del
pretore di Cuneo, secondo il pretore di Pistoia la identità delle
situazioni trattate dalla legge in esame sarebbe di tutta evidenza
anche in considerazione del ruolo determinante che assumerebbe, nella
vita dell’uomo, la sicurezza del posto di lavoro, per cui le relative
garanzie costituirebbero diritto e patrimonio comune di tutti i
lavoratori, senza differenze, neppure in vista della fiduciarietà del
rapporto, la cui assunzione a criterio discriminante, oltre tutto,
introdurrebbe nel sistema un principio paternalistico laddove la
essenzialità degli interessi in gioco postulerebbe invece assoluta
rigidità di tutela.
Tutto ciò, d’altra parte, secondo il pretore di Roma, si
verificherebbe per un numero troppo vasto di lavoratori, data la
diffusione delle piccole imprese, tanto da raggiungere secondo
statistiche la metà del totale nazionale.
Per il pretore di Trieste, poi, il collegamento della differenza di
trattamento al numero dei lavoratori subordinerebbe, in sostanza,
l’intensità della garanzia del lavoro alle fluttuazioni del numero dei
dipendenti dall’impresa, condizionando l’attuazione del principio di
eguaglianza alle oscillazioni di tale elemento accidentale.
Nell’ordinanza del pretore di Giulianova si pone particolarmente in
luce la finalità della legge in parola, identificata da quel giudice
nella tutela dei lavoratori, quali contraenti più deboli, il che
postulerebbe l’estensione della relativa disciplina a tutti costoro,
apparendo illogica ed ingiustificata ogni diversa statuizione.
Né l’essere stata la discriminazione in discorso tenuta presente
nel lontano accordo interconfederale del 18 ottobre 1950 varrebbe ad
escludere la fondatezza delle critiche, trattandosi di dare oggi solide
ed innovatrici garanzie ai lavoratori, tanto più che, come afferma il
pretore di Napoli, il contenuto di accordi sindacali non dovrebbe
necessariamente assumersi quale criterio informatore della legislazione
in materia, specie in considerazione del fatto che gli accordi stessi
sarebbero frutto di reciproche concessioni, senza che il punto di
equilibrio così raggiunto fra le opposte posizioni possa considerarsi,
perciò solo, conforme alla Costituzione. Ed a riprova di ciò lo
stesso pretore di Napoli osserva che, diversamente, diverrebbe
superfluo il pur riconosciuto potere normativo dello Stato in materia
di lavoro.
Concludendo, lo stesso magistrato afferma poi che le relazioni
personali più immediate, non giustificherebbero la discriminazione
lamentata giacché sarebbero, se mai, facile motivo per l’insorgere di
questioni estranee al rapporto di lavoro e per conseguenti pretestuosi
licenziamenti.
Quanto al secondo profilo di illegittimità, il pretore di Napoli
afferma che, pur dovendosi considerare programmatiche le norme sancite
negli artt. 4 e 35 della Costituzione, il legislatore non potrebbe
tuttavia legittimamente contravvenire ai principi ivi accolti. Principi
che, nella specie, in conformità della giurisprudenza della Corte
costituzionale (sent. n. 45 del 1965) si risolverebbero nell’obbligo
del legislatore di adeguare la disciplina dei rapporti di lavoro a
tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità
del lavoro, circondando di doverose garanzie e di opportuni
temperamenti i casi in cui si rende necessario far luogo ai
licenziamenti.
Contrasterebbe quindi coi citati articoli della Costituzione la
norma impugnata che, attraverso la discriminazione sancita, attuerebbe
solo in parte le direttive costituzionali.
Le suddette ordinanze, notificate e comunicate a norma di legge,
sono state pubblicate sulle Gazzette Ufficiali della Repubblica
rispettivamente indicate in epigrafe.
Nel giudizio promosso con l’ordinanza del pretore di Vicenza si è
costituito il Castellani Livio, rappresentato e difeso dall’avvocato
Benedetto Bussi, che ha depositato le proprie deduzioni difensive in
cancelleria il 3 novembre 1967.
La difesa, in sostanza, osserva che già durante l’iter
parlamentare della legge, sarebbero emerse notevoli perplessità sulla
legittimità delle norme in esame in relazione all’art. 3 della
Costituzione, e ribadisce, le argomentazioni contenute nell’ordinanza
di rinvio, insistendo sulla pretesa identità della situazione dei
lavoratori indipendentemente dal limite previsto dalla legge,
soprattutto in relazione alla asserita comune necessità della garanzia
del posto.
Conclude pertanto chiedendo dichiararsi la illegittimità
costituzionale della norma impugnata nei sensi suddetti.
Nello stesso giudizio si è anche costituita la società “Fornaci
di Villaverla” rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Stratta,
che ha depositato le deduzioni il 28 settembre 1967.
Anche la difesa della società richiama le perplessità di ordine
costituzionale affiorate durante i lavori preparatori della legge de
qua, ma pone in rilievo che essendo state tali perplessità superate
dal legislatore, dopo approfondito esame, dovrebbe inferirsene
l’infondatezza delle odierne censure.
Osserva poi, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte in
materia, che il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della
Costituzione non escluderebbe che il legislatore possa regolare
diversamente situazioni ragionevolmente ritenute diverse, ed afferma
che nella specie, non soltanto ragionevole, ma giusta e opportuna
sarebbe la regolamentazione differenziata adottata dalla legge, così
come si evincerebbe appunto dalle dichiarazioni rese dal Ministro per
il lavoro in Parlamento.
In particolare, poi, dovrebbe escludersi la pretesa identità delle
situazioni dei lavoratori, giacché la diversità delle imprese si
rifletterebbe anche sulla situazioni dei rispettivi dipendenti, sia in
relazione all’elemento fiduciario ed alla minore fungibilità della
prestazione lavorativa che esisterebbero presso le imprese di modeste
proporzioni, sia in relazione alle diversità organizzative,
tecnologiche ed economiche concesse alla diversa importanza delle
imprese.
D’altra parte, prosegue la difesa, la scelta del limite di 35
dipendenti sarebbe frutto di una valutazione politica insindacabile in
sede di giudizio di legittimità costituzionale. Dovrebbe comunque, di
fatto, escludersi l’esistenza di imprese a forte produzione nazionale
con meno di 35 dipendenti, né l’eventualità di una preordinata
riduzione del numero stesso onde ricondurlo al di sotto del limite
potrebbe concretare in sé un vizio di legittimità costituzionale
della norma impugnata.
Altro argomento a favore della propria tesi la difesa poi adduce
ricordando che la lamentata discriminazione sarebbe già sanzionata sia
nell’accordo interconfederale 18 ottobre 1950 che, con l’art. 8,
escludeva appunto dalla speciale procedura sui licenziamenti
individuali ivi prevista le imprese che occupassero non più di 35
lavoratori, sia nel successivo accordo interconfederale 29 aprile 1965,
che all’art. 13 prevedeva analoga esclusione, il che comproverebbe la
ragionevolezza della scelta, rispondente a quel sottofondo sociale ed
economico al quale l’imperium del legislatore dovrebbe sempre cercare
di adeguarsi.
Conclude pertanto chiedendo dichiararsi infondata la questione
sollevata nell’ordinanza del pretore di Vicenza.
Nello stesso giudizio si è anche costituito il Presidente del
Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso come per legge
dall’Avvocatura generale dello Stato che ha depositato le proprie
deduzioni il 30 ottobre 1967.
Anche l’Avvocatura, per parte sua, svolge argomentazioni tendenti
ad escludere la asserita identità di situazioni fra i lavoratori, e
pone particolarmente in evidenza che la normativa in esame
concernerebbe due distinti soggetti, cioè lavoratori ed imprese, e che
le censure mosse alla legge non terrebbero conto di tale circostanza,
dimenticando che il principio di eguaglianza in materia di lavoro non
potrebbe essere considerato solo in funzione della posizione di taluni
prestatori d’opera rispetto agli altri, ma andrebbe anche visto in
relazione alla situazione degli imprenditori. Tale avviso sarebbe anche
legislativamente riconosciuto da quelle disposizioni che dettano
differenti discipline per le grandi e le piccole imprese confermando
che le relative esigenze funzionali non possono non reagire anche sul
rapporto di lavoro, e imprimere a questo caratteri differenziati.
La norma impugnata, prosegue l’Avvocatura, terrebbe appunto conto
delle diversità inerenti alle dimensioni delle aziende e della
correlativa diversa natura dei rapporti di lavoro e la scelta, fondata
su criteri obbiettivi, apparirebbe tutt’altro che arbitraria, anche
perché coincidente con le analoghe, e già citate, scelte sindacali.
L’Avvocatura, infine, insiste particolarmente sull’importanza
dell’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro con le piccole imprese,
elemento la cui conservazione sarebbe visibilmente legata all’esistenza
dell’intuitus personae, e che potrebbe venir meno, quindi, anche per
ragioni non obbiettive.
Conclude pertanto chiedendo dichiararsi infondata la questione.
Anche nel giudizio promosso con l’ordinanza del pretore di Napoli
si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha
depositato le proprie deduzioni il 30 novembre 1967.
L’Avvocatura, riprendendo le argomentazioni già svolte per
contestare la fondatezza della questione sollevata in relazione
all’art. 3 della Costituzione osserva, altresì, che il criterio
quantitativo adottato dal legislatore nello stabilire in un certo
numero di dipendenti il limite di applicabilità del beneficio si
risolverebbe in un criterio qualitativo perché il numero stesso “non
è solo un discreto, ma anche un continuo” e rappresenta, come tale, un
dato intermedio, indicativo della gradualità della differenziazione
dei caratteri intrinseci delle imprese.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 4 della Costituzione
l’Avvocatura osserva che la norma impugnata fa salve le disposizioni
che sanciscono la nullità dei licenziamenti per motivi politici,
religiosi e sindacali. Pertanto, anche per i dipendenti in questione,
il licenziamento sarebbe efficace solo se motivato da ragioni
obbiettive, il che escluderebbe il lamentato contrasto con l’art. 4
della Costituzione, interpretato nel senso precisato con la citata
sentenza n. 45 del 1965 della Corte.
Infine anche la censura concernente la violazione dell’art. 35
della Costituzione, sarebbe infondata, giacché la tutela del lavoro
dovrebbe intendersi proclamata nei confronti non soltanto dei
lavoratori, ma altresì dei datori di lavoro, in modo che, sul piano
della norma ordinaria, si contemperino le diverse esigenze obiettive
che la materia presenta.
E ciò appunto avrebbe fatto la norma impugnata diretta verso le
aziende, oltre che verso i lavoratori.
Conclude pertanto l’Avvocatura chiedendo anche in questa sede
dichiararsi infondate le sollevate questioni.
La difesa del Castellani ha depositato tempestivamente una memoria
illustrativa con cui ribadisce le considerazioni già svolte a sostegno
della propria tesi, aggiungendo anche altre argomentazioni, in parte
coincidenti con quelle svolte nelle ordinanze di rinvio. In particolare
insiste sulla pretesa arbitrarietà della scelta dell’elemento numerico
discriminante, che lascerebbe senza tutela proprio quei lavoratori i
quali, appartenendo a piccole imprese, sarebbe perciò stesso più
esposti al licenziamento. Ribadisce altresi la irrilevanza del fatto
che la discriminazione in esame sia stata in precedenza accolta in sede
sindacale, formulando al riguardo osservazioni analoghe a quelle svolte
in proposito nell’ordinanza del pretore di Napoli.
Anche la difesa della società Fornaci di Villaverla, affidata con
successivo mandato speciale anche all’avvocato prof. Arturo Carlo
Jemolo, ha depositato una memoria illustrativa con cui riprende e
sviluppa le argomentazioni già svolte. Riafferma in particolare,
anzitutto, la validità del dato numerico dei dipendenti dell’impresa
quale elemento qualificante del carattere fiduciario del relativo
rapporto di lavoro, ed illustra gli aspetti di tale carattere ponendone
in rilievo l’importanza decisiva ai fini della gestione delle piccole
imprese, e sempre meno incisiva invece man mano che aumentano le
proporzioni dell’impresa. Ed in proposito espone anche una analitica
esemplificazione dei vari tipi di piccole imprese in relazione alle
quali l’elemento fiduciario assumerebbe carattere essenziale. Osserva,
inoltre, che scarsamente attendibile sarebbe l’obbiezione secondo cui
proprio in relazione alle piccole imprese potrebbero maggiormente
verificarsi licenziamenti per rancori personali, essendo in pratica
tale fenomeno del tutto improbabile, se non accompagnato anche da altre
ed obbiettive ragioni di licenziamento.
Né sembrerebbe più probabile la temuta artificiosa riduzbne del
numero dei dipendenti, cui l’imprenditore certamente non ricorrerebbe
nei casi in cui la ritenesse in contrasto con lo sviluppo ed il reale
interesse dell’azienda, mentre, d’altra parte, la tendenza economica
attuale sarebbe verso imprese sempre più grandi e meno verso la
diffusione delle piccole.
Passa poi a svolgere argomenti a dimostrazione della razionalità
della norma impugnata, che esattamente considererebbe la situazione non
solo di uno dei termini del rapporto di lavoro, cioè dei lavoratori,
ma anche dell’altro termine, cioè delle imprese, valutando,
nell’ambito della discrezionalità riconosciuta in questo campo al
legislatore dalla giurisprudenza della Corte, la diversità della
disciplina da imporre, in relazione alle diverse caratteristiche delle
imprese medesime. Ed in proposito riprende e sviluppa fra l’altro
l’argomento costituito dai precedenti sindacali sopra menzionati.
Osserva, infine, che la norma impugnata non sarebbe un elemento
accessorio della legge, che possa venir meno, restando questa intatta
nella sua essenza. Invero la razionalità della legge stessa avrebbe un
elemento inscindibile proprio nelle norme impugnate, per essere le
altre ivi contenute logicamente valide solo per le imprese che abbiano
una dimensione “non minima”.
Insiste pertanto nelle già rassegnate conclusioni.
1. – Le sette ordinanze, elencate in epigrafe, hanno lo stesso
oggetto e riguardano la stessa questione: si ravvisa pertanto opportuno
la loro riunione, onde dar luogo a decisione con unica sentenza.
2. – Tutte le ordinanze propongono la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 11, primo comma, della legge 15 luglio 1966,
n. 604, prospettando, come motivo comune, l’eventuale contrasto con il
principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge,
statuito dall’art. 3 della Carta costituzionale.
A questo motivo comune, l’ordinanza del pretore di Napoli aggiunge
altri due motivi particolari, con riferimento e all’art. 4 della
Costituzione (effettività del diritto al lavoro ed alla conservazione
del posto di lavoro a favore di tutti i cittadini) e all’art. 35
(tutela generale del lavoro).
3. – La Corte ritiene che, nell’ordine dei motivi suindicati, debba
prima esaminarsi quello addotto con l’ordinanza del pretore di Napoli,
in relazione all’art. 4 della Costituzione ed all’art. 35 che ne
costituirebbe un corollario.
Invero, col permettere che per tutti, indistintamente, i lavoratori
dipendenti, sussista il diritto soggettivo alla conservazione del posto
di lavoro, salvo l’applicabilità in via di eccezione di identico
sistema di licenziamento, si viene a porre la questione, sotto un
motivo di base, di portata generale ed immanente.
La questione, considerata sotto questo profilo, non è fondata.
La portata della garanzia del diritto al lavoro è stata delineata,
sotto vari aspetti ed in diversi occasioni, dalla giurisprudenza di
questa Corte a partire dalla sentenza n. 3 del 1957 sino alle
affermazioni contenute nella sentenza n. 45 del 1965, che rappresentano
uno sviluppo dei già acquisiti principi, per quanto riguarda la
qualificazione del diritto al lavoro in relazione alla portata che esso
assume ed alla funzione che svolge direttamente nei rapporti fra
l’individuo e lo Stato.
Infatti, riaffermati nella sostanza gli aspetti già delineati del
diritto in esame, la Corte, con la detta sentenza, ha proceduto
ulteriormente nel definire i profili, affermando che, una volta
interpretata la norma costituzionale come fonte di un divieto posto
allo Stato di imporre limiti discriminatori alla libertà di lavoro, e
del correlativo obbligo di indirizzare la attività dei pubblici poteri
e dello stesso legislatore alla creazione di condizioni economiche,
sociali e giuridiche, che consentano l’impiego di tutti i cittadini
idonei al lavoro, ne deriva che la norma stessa, “come non garantisce a
ciascun cittadino il diritto al conseguimento di una occupazione, così
non garantisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che
nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto”:
ciò sempre con le doverose garanzie per quanto riguarda il rispetto
dei princìpi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa.
Ora è chiaro che, pur se la stessa sentenza prosegue affermando
l’esigenza che il legislatore “adegui la disciplina del rapporto di
lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la
continuità del lavoro e circondi di doverose garanzie e di opportuni
temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a
licenziamenti”, resta tuttavia escluso che possa parlarsi in relazione
all’art. 4 della Costituzione di un vero e proprio diritto soggettivo
alla conservazione del posto da parte del lavoratore.
La Corte, anche per la mancanza di contrapposti nuovi o diversi
motivi, non può che confermare il proprio indirizzo giurisprudenziale,
escludendo la fondatezza della questione in quanto proposta in
relazione agli artt. 4 e 35 della Costituzione.
4. – Ciò premesso, l’esame della questione di legittimità
costituzionale va ricondotto in relazione al solo profilo comune a
tutte le ordinanze, di cui all’art. 3 della Costituzione. Il principio
di parità, derivante da questo articolo, sarebbe violato per il fatto
che il diritto di recesso dal rapporto di lavoro è regolato in modo
diverso, in base al non razionale criterio quantitativo e distintivo
che siano fino a 35 o più di 35 i dipendenti assunti dal datore di
lavoro.
La questione non è fondata.
Come la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto,
l’art. 3 non corrisponde ad un criterio di mera uguaglianza formale e
formalistica e perciò non esclude che il legislatore possa adottare
norme diverse per regolare situazioni che esso ritenga diverse,
adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della
vita sociale, entro un margine di discrezionalità che giustifichi
sostanzialmente il criterio di differenziazione adottato. Tutto ciò
con conseguenti riflessi sui limiti del controllo di costituzionalità
consentito a questa Corte.
L’esame dell’art. 11 della legge sui licenziamenti individuali,
compiuto seguendo gli ora cennati criteri direttivi, elimina il
prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
Va, anzitutto, tenuto presente che il dato su cui la norma è
basata, consistente nella diversificazione, per determinati effetti, a
seconda delle dimensioni, maggiori o minori, che il datore di lavoro
imprime alla organizzazione della sua attività, è un dato aderente
alla realtà economica, di comune esperienza.
Che si tratti di distinzioni, penetrate in vario modo e misura, per
la loro forza realistica, nel sistema legislativo, è largamente
dimostrabile.
Basti richiamare, per tutte la norma dell’art. 2083 del Codice
civile e, correlativamente, quella dell’art. 2202, che, riguardando a
sé stante la categoria dei piccoli imprenditori, dimostrano, per
implicito, che vi sono elementi che li distinguono da quelli delle
altre categorie dei medi e dei grandi imprenditori. Lo stesso dicasi
per quanto riguarda l’esclusione dei piccoli imprenditori dalle
procedure concorsuali (art. 1 regio decreto 16 marzo 1942, n. 267).
Anche in leggi speciali sul lavoro subordinato, il legislatore ha fatto
ricorso a classificazioni distintive, basate su dati quantitativi circa
il numero dei dipendenti: così nella legge 25 luglio 1956, n. 860,
sulla disciplina giuridica delle imprese artigiane (considerate tali, a
seconda del numero dei dipendenti, addetti o meno a lavorare in serie):
e così nella legge 22 settembre 1960, n. 1054, sul personale egli
autoservizi urbani e extra urbani, la cui applicazione è subordinata
al numero superiore a 25 dipendenti occorrenti per le normali esigenze
di servizio.
Aggiungasi che la norma, di cui ora si pone in dubbio la
legittimità costituzionale, per avere escluso l’applicabilità della
condizione della giusta causa per i licenziamenti individuali, nella
ipotesi che i datori di lavoro occupino fino a 35 dipendenti, ha un suo
precedente, per quanto attiene alla considerazione di una certa
razionale distinzione segnata da questo stesso numero di dipendenti,
nell’accordo interconfederale 18 ottobre 1950 relativo ai licenziamenti
dei lavoratori dipendenti da imprese industriali e stipulato tra la
Confederazione generale dell’industria, la Confederazione generale
italiana del lavoro, la Confederazione italiana sindacati lavoratori e
l’Unione italiana del lavoro.
Tale accordo, recepito dal decreto del Presidente della Repubblica
14 luglio 1960, n. 1011, che questa Corte ritenne non contrastante con
la Costituzione con sentenza n. 50 del 1966, ha segnato, con l’art. 8,
la esclusione, per le aziende con non più di 35 lavoratori, dalla
speciale procedura per l’esame dei licenziamenti davanti ad un
“Collegio di conciliazione ed arbitrato”, riconducendo l’esame ad un
semplice tentativo di conciliazione tra l’azienda ed il delegato di
impresa. Un successivo accordo interconfederale del 29 aprile 1965 ha
ribadito che, sia pure in via transitoria, per le aziende che occupano
non più di 35 lavoratori, continua ad operare il tentativo di
conciliazione in sede sindacale anziché la procedura davanti al
“Collegio di conciliazione ed arbitrato”.
Questi precedenti non sono certo risolutivi per la questione di
costituzionalità, ma conferiscono positiva dimostrazione che la
componente numerica dei lavoratori ha riflessi sul modo di essere e di
operare del rapporto di lavoro organizzato. Non è solo e non tanto il
criterio della diretta fiducia che vale a qualificare il rapporto
nell’ipotesi di un numero inferiore di dipendenti, quanto il criterio
economico suggerito per regolare gli interessi delle aziende aventi un
minor numero di dipendenti, pur senza trascurare gli interessi dei
lavoratori, tanto che (artt. 4 e 9 della legge in relazione all’art.
11) è sempre salva la nullità del loro licenziamento, se effettuato
per ragioni politiche, religiose o di appartenenza a sindacati e
relative attività ed è sempre salva la indennità di anzianità.
5. – Riconosciuta, pertanto, la razionalità di una delimitazione
in genere di categorie di datori di lavoro, a seconda delle forze di
lavoro impiegate, la questione di costituzionalità si riduce al punto
specifico se l’art. 11 della legge sui licenziamenti abbia, nel segnare
il limite dei 35 dipendenti, operato insindacabilmente mantenendosi nei
limiti di equiparazione delineati dall’art. 3 della Costituzione,
ovvero questi limiti abbia superato, dando luogo ad una inammissibile
disparità di trattamento.
Ma, per quanto già si è esposto per segnare l’ambito di
interpretazione e di applicazione dell’art. 3, la questione non è
fondata.
Può anche prescindersi (per quanto la coincidenza è di
sintomatico rilievo) dal tener conto, come argomento decisivo e
vincolante, che lo stesso limite numero di 35 dipendenti è stato
adottato in sede sindacale per quanto riguarda la materia dei
licenziamenti.
Ma ciò che soprattutto induce ad escludere l’incostituzionalità
della norma e, nel contempo, a mantenere l’esercizio del controllo da
parte di questa Corte entro quei confini al di là dei quali si darebbe
luogo ad usurpazione delle valutazioni discrezionali e di politica
legislativa spettanti al Parlamento, è che la distinzione stabilita
non contiene, in se stessa, vizi di razionalità, per le ragioni di
massima suesposte; e, per quanto concerne la misura numerica, la
valutazione del Parlamento risulta essersi svolta secondo autonome e
motivate scelte tenendo conto dei fattori di equilibrio
economico-sociale che ne consigliavano, nel determinato momento,
l’adozione, nell’interesse generale.
Si tratta, del resto, di criteri che il Parlamento può sempre
rivedere, anche in considerazione dell’evolvere delle esigenze
organizzative, collegate, tra l’altro, al progresso tecnologico.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata in riferimento agli artt. 3, 4, 35 della
Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo
11, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, contenente norme
sui licenziamenti individuali, proposta con le ordinanze di cui in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1969.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ERCOLE ROCCHETTI – ENZO
CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE.