Sentenza N. 87 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
29/04/1971
Data deposito/pubblicazione
29/04/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/04/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO –
Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI –
Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
comma, del d.P.R. 15 giugno 1959, n. 393 (testo unico delle norme
sulla circolazione stradale), promosso con ordinanza emessa il 17
aprile 1969 dal pretore di Torino nel procedimento penale a carico di
Dassetto Maria Magda, iscritta al n. 304 del registro ordinanze 1969 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 207 del 13
agosto 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 1971 il Giudice
relatore Angelo De Marco;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri
Nel procedimento penale a carico di Maria Magda Dassetto, imputata
della contravvenzione di cui all’art. 80 del d.P.R. 15 giugno 1959, n.
393 (cosidetto codice della strada) per avere circolato guidando
un’automobile, nonostante la patente di guida le fosse stata ritirata
dal prefetto di Torino, nell’esercizio del potere attribuitogli
dall’art. 91, comma secondo, del predetto d.P.R., essendo essa Dassetto
diffidata, ai sensi dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423,
il pretore di Torino, accogliendo analoga richiesta della difesa
dell’imputata, con ordinanza 17 aprile 1969, sollevava questione di
legittimità costituzionale di detto articolo 91, comma secondo, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Il pretore dichiarava rilevante ai fini del giudizio la sollevata
questione, in quanto nel caso di illegittimità del potere del prefetto
di ritirare la patente, sarebbe caduto il presupposto del reato
attribuito all’imputata.
Ne motivava, poi, la non manifesta infondatezza, rilevando
testualmente: “Infatti la norma attribuisce al prefetto una
discrezionalità assoluta circa i casi e i tempi della sospensione
della patente all’art. 91, comma secondo, nei successivi commi, invece,
sono stabiliti sia i periodi minimi e massimi di sospensione sia le
fattispecie alle quali la sospensione è ricollegata.
Inoltre negli altri casi la sospensione è sottratta alla
discrezionalità del prefetto che “sospende ” e non soltanto “può
sospendere “.
La discrezionalità della sospensione lede il principio di
uguaglianza, perché determina in concreto una disuguaglianza tra
cittadini che si trovano nella medesima condizione di diffidati
(condizione a sua volta conseguenza di altra valutazione discrezionale
di autorità amministrativa): vi sarà quindi il diffidato che conserva
la patente ed il diffidato al quale la patente è sospesa, senza nessun
punto di riferimento obbiettivo per la decisione dei prefetto”.
Dopo gli adempimenti di legge, il giudizio così promosso viene
oggi alla cognizione della Corte.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, con
l’atto di intervento, depositato il 28 giugno 1969, richiamati i
principi generali in materia amministrativa, quali risultano anche
affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, chiede che la questione
venga dichiarata infondata.
1. – Con l’ordinanza di rinvio, il giudice a quo, pur accennando ad
altri motivi, in sostanza, denunzia a questa Corte l’art. 91, comma
secondo, del d.P.R. 15 giugno 1959, n. 393 (che approva il testo unico
sulla circolazione stradale), soltanto in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, in quanto la discrezionalità della sospensione della
patente, nel citato secondo comma preveduta, lederebbe il principio di
uguaglianza perché determinerebbe una distinzione tra cittadini che si
trovano nella medesima condizione di diffidati: vi sarebbe, quindi, il
diffidato che conserva la patente ed il diffidato al quale la patente
è sospesa senza alcun punto di riferimento obbiettivo per la decisione
del prefetto
2. – È vero, come osserva il giudice a quo, che nei successivi
commi dell’impugnato art. 91, la sospensione della patente è preveduta
come atto dovuto e non discrezionale del prefetto, ma lo è appunto
perché sono stabilite le fattispecie alle quali la sospensione è
ricollegata, fattispecie non suscettibili di apprezzamento
discrezionale, in quanto rispecchiano ipotesi o di ripetute
trasgressioni di legge, costituenti contravvenzioni, o di reati
particolarmente gravi (commi terzo, quarto e quinto).
Dato, poi, che in tali ipotesi la sospensione assume il carattere
di vera e propria sanzione accessoria, sia pure amministrativa, ben si
spiega che ne siano prefissati i termini minimi e massimi.
L’ipotesi preveduta dal secondo comma, invece, si ricollega ad una
attività tipicamente amministrativa, in quanto attiene ai requisiti
richiesti dalla legge per il rilascio della patente.
Difatti, l’art. 82, comma primo, tassativamente indica le categorie
di persone che sono ritenute prive dei requisiti morali necessari per
essere ammesse all’esame per ottenere la patente, mentre il comma
secondo dispone che il prefetto può negare la patente stessa ai
diffidati ai sensi dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423.
Appunto da questa norma si ricava quello che il giudice a quo
definisce “il punto di riferimento obbiettivo per la decisione del
prefetto”.
Certamente il diffidato, quale persona pericolosa per la sicurezza
o per la pubblica moralità, in astratto, dovrebbe ritenersi privo dei
requisiti morali alla sussistenza dei quali il citato art. 82
subordina il rilascio della patente.
Senonché, la diffida è un provvedimento che mira a recuperare per
la società le persone che ne sono colpite, incitandole a cambiare
condotta, con la sanzione, in caso di inosservanza, di applicazione
delle misure amministrative di sicurezza personali o delle misure di
prevenzione prevedute dall’art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n.
1423, che ai sensi del primo comma dell’art. 82 sopra richiamato non
consentono neppure l’ammissione all’esame per ottenere la patente di
guida.
Dati questi fini della diffida, evidentemente, per meglio
raggiungerli, è necessario non ostacolare il diffidato nell’acquisire
la possibilità di dedicarsi ad un onesto lavoro, quale può essere
quello che si può svolgere con il possesso della patente di guida.
Ma se il diffidato, pur non arrivando a porre in essere gli estremi
per la sottoposizione a misure di sicurezza o di prevenzione, si
comporti in modo tale da non dare sufficienti garanzie di usare la
patente per fini onesti, o, dopo averla ottenuta, ne faccia un uso, se
non proprio disonesto, quanto meno sospetto, cadono i presupposti, che
nell’intento del legislatore giustificano la concessione della patente
a questa categoria di persone e, a seconda dei casi, la patente può
essere negata (art. 82, comma secondo), sospesa (art. 91, comma
secondo) o addirittura deve essere revocata (art. 91, comma 12, n. 2).
Si viene, così, a creare una situazione del tutto analoga a quella
già decisa da questa Corte con la sentenza 27 febbraio 1969, n. 32,
con la quale venne dichiarata infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, sollevata in
riferimento all’art. 3 della Costituzione e motivata con l’assunto che
la norma impugnata non conteneva alcun razionale criterio, in base al
quale, fra persone appartenenti alle stesse categorie, alcune potevano
essere diffidate ed altre no.
La Corte, con tale sentenza, ebbe a considerare che l’appartenenza
a quelle categorie è condizione necessaria, ma non sufficiente per la
sottoposizione a misure di prevenzione, in quanto perché in concreto
tali misure possano essere adottate occorre anche un particolare
comportamento che dimostri come la pericolosità sia effettiva ed
attuale e non meramente potenziale.
Ebbe, inoltre, ad affermare che l’accertamento di questa specifica
pericolosità – la quale tra l’altro realizza una differenza tra le
persone comprese nelle categorie genericamente ritenute pericolose – si
raggiunge necessariamente attraverso un apprezzamento di merito, nel
procedere al quale vi è sempre un certo margine di discrezionalità.
Ebbe, infine, a rilevare che chiarita nel modo sopradetto quale
fosse la natura funzionale dell’accertamento affidato al questore, non
si potesse ritenere violato il principio di uguaglianza, tanto più che
in ogni caso l’esercizio del potere discrezionale è soggetto al
controllo del giudice amministrativo, il quale si estende sicuramente
alla razionalità, alla imparzialità, alla parità di trattamento
3. – Stabilito, come sopra si è fatto, a quali criteri deve
ispirare la sua attività il prefetto nell’esercizio dei poteri
conferiti dal secondo comma dell’art. 91 del t.u. n. 393 del 1959,
evidentemente sono pienamente applicabili, per la risoluzione della
questione in esame, i principi affermati con la richiamata sentenza di
questa Corte e, quindi, la questione stessa dev’essere dichiarata non
fondata
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 91, secondo comma, del testo unico delle norme concernenti la
disciplina della circolazione stradale (approvato con d.P.R. 15 giugno
1959, n. 393), sollevata dal pretore di Torino, con ordinanza in data
17 aprile 1969, in riferimento all’art. 3 della Costituzione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 aprile 1971
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIOVANNI BATTISTA
BENEDETTI – FRANCESCO PAOLO BONIFACIO
LUIGI OGGIONI – ANGELO DE MARCO
ERCOLE ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA –
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI