Sentenza N. 88 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
10/06/1970
Data deposito/pubblicazione
10/06/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
03/06/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
della legge 1 dicembre 1956, n. 1426 (compensi spettanti ai periti,
consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite
a richiesta dell’autorità giudiziaria), promosso con ordinanza emessa
il 30 giugno 1968 dal giudice istruttore del tribunale di Ferrara nel
procedimento civile vertente tra Salvatori Antonio e Di Mella
Giancarlo, iscritta al n. 210 del registro ordinanze 1968 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 aprile 1970 il Giudice relatore
Vincenzo Michele Trimarchi:
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Nel procedimento civile vertente tra Antonio Salvatori e
Giancarlo Di Mella davanti al tribunale di Ferrara, il giudice
istruttore, dovendo provvedere, a sensi dell’art. 24 delle disposizioni
per l’attuazione del codice di procedura civile, alla liquidazione del
compenso al consulente tecnico ing. Guido Gargioni, nominato dal
tribunale con ordinanza collegiale del 21 dicembre 1966, sollevava, con
ordinanza del 30 giugno 1968, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 2, 3 e 4 della legge 1 dicembre 1956, n. 1426, in
riferimento all’art. 36, comma primo, della Costituzione.
Riteneva preliminarmente d’essere legittimato ad elevare
l’incidente in quanto il giudice istruttore civile ha carattere
giurisdizionale ed in quanto l’emittendo provvedimento (rientrante
nella di lui competenza funzionale ed esclusiva) ha natura decisoria
(almeno per quanto concerne il quantum debeatur).
Assumeva, quindi, che la sollevata questione fosse rilevante.
Ed infine, a sostegno della asserita non manifesta infondatezza,
ricordava, riportandosi in particolare agli artt. 3 e 4 della citata
legge n. 1426 del 1956, che le prestazioni del consulente tecnico
nell’interesse dell’ufficio debbono essere ragguagliate a vacazioni,
che per vacazione si intende un periodo lavorativo di due ore, che il
magistrato liquidatore, in caso di assistenza e collaborazione con
l’ufficio durante l’assunzione di prove, deve limitarsi a prendere atto
dell’orario per il quale il consulente tecnico ha prestato
effettivamente la propria opera, e comunque ed in ogni altro caso deve
calcolare il numero delle vacazioni da liquidare con rigoroso
riferimento al numero delle ore che siano state strettamente necessarie
per l’espletamento dell’incarico, e che il compenso unitario per le
vacazioni è di lire 1.000, 700 o 500 a seconda del titolo di studio di
cui il consulente tecnico sia munito, ed è aumentabile in ragione di
un quarto (per il solo procedimento civile). E da tali norme (posto che
nella prassi giudiziaria i termini per l’espletamento dell’incarico
vengono assegnati e le vacazioni calcolate con estrema larghezza al
fine di ubbidire al precetto dell’art. 36, comma primo, della
Costituzione, e tenuto conto per altro che in alcune ipotesi non
giovano codesti espedienti, i quali, oltre tutto, sono illegittimi ed
inopportuni) ricavava la esistenza di una “intollerabile situazione,
per cui l’opera altamente qualificata di un ingegnere viene retribuita
nella migliore delle ipotesi, in misura inferiore a quella di un
modesto operaio qualificato, il muratore – (lire 500 all’ora per
l’ingegnere di fronte a lire 1.250 all’ora per il muratore)”.
Osservava, infine, il giudice a quo che la pratica assurdità della
cosa sarebbe confermata attraverso la comparazione delle anzidette
tariffe con quelle professionali per gli ingegneri approvate con D.M.
25 febbraio 1965 che prevedono un compenso di lire 3.000 per ogni
vacazione di una sola ora e che sarebbero applicabili nella specie ove
le norme che prevedono le prime dovessero essere dichiarate
costituzionalmente illegittime.
2. – L’ordinanza veniva regolarmente notificata alle parti in
causa, al consulente tecnico per le cui prestazioni avrebbe dovuto
essere liquidato il compenso, e al Presidente del Consiglio dei
ministri e comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della
Camera dei deputati ed infine pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.
261 del 12 ottobre 1968.
Davanti a questa Corte non si costituiva nessuna delle parti.
Spiegava intervento, invece, il Presidente del Consiglio dei
ministri a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, che, con l’atto
di intervento e deduzioni depositato il 2 ottobre 1968, e con memoria
dell’8 aprile 1970, chiedeva che la questione fosse dichiarata
preliminarmente inammissibile ed in ogni caso non fondata.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, l’incidente di legittimità
costituzionale non sarebbe ammissibile perché l’orientamento, al
riguardo, di questa Corte, espresso soprattutto nella sentenza n. 109
del 1962, si baserebbe sul modo in cui la questione deve essere
proposta e sulla competenza alle relative valutazioni le quali
sarebbero riservate “all’organo giudiziario come tale e cioè al
Collegio e non all’istruttore, a prescindere dalla specifica competenza
di questo per specifici settori o per singoli provvedimenti”.
La questione, in ogni caso, sarebbe infondata nel merito.
L’ordinanza de qua, in effetti, non avrebbe denunciato la
legittimità del sistema delle norme circa i compensi spettanti ai
consulenti tecnici ed agli altri ausiliari della giustizia stabilito
con la citata legge n. 1426 del 1956, ma solo la misura dei compensi
fissi e per vacazioni stabiliti dalla legge stessa; e l’illegittimità
costituzionale, per violazione dell’art. 36, della legge deriverebbe
dall’avere questa stabilito quei compensi “in misura del tutto
irrisoria”.
Senonché, ad avviso dell’Avvocatura, la specie in esame non
concretizzerebbe un rapporto di lavoro inquadrabile nell’ambito del
principio stabilito nel citato art. 36, comma primo, ma un semplice
rapporto di collaborazione tra il consulente tecnico, investito di un
munus publicum, e l’organo giudiziario; ed il compenso riconosciuto ai
consulenti tecnici non sarebbe una “retribuzione” per l’opera prestata
e potrebbe quindi essere differente da quello previsto dalle normali
tariffe professionali, alle quali inesattamente si sarebbe richiamata
l’ordinanza.
1. – In un procedimento civile pendente davanti al tribunale di
Ferrara il giudice istruttore ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 2, 3 e 4 della legge 1 dicembre 1956, n.
1426, in riferimento all’art. 36, comma primo, della Costituzione,
assumendo che in forza delle norme denunciate e sulla base delle
tariffe in esse previste si verifica “la intollerabile situazione, per
cui l’opera altamente qualificata di un ingegnere viene retribuita,
nella migliore delle ipotesi, in misura inferiore a quella di un
modesto operaio qualificato, il muratore”, e che “la pratica assurdità
della cosa è confermata dalla comparazione delle tariffe adottate
dalla legge in questione con le tariffe professionali per gli ingegneri
approvate con D.M. 25 febbraio 1965”.
2. – L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito la
inammissibilità della questione in quanto la stessa sarebbe stata
sollevata dal giudice istruttore anziché dal collegio.
Dell’esame del problema si è fatto carico il giudice a quo, il
quale ha ritenuto la propria legittimazione al riguardo, argomentando
dal carattere di organo giurisdizionale del giudice istruttore civile e
dalla natura decisoria del provvedimento che sia irrevocabile o non
modificabile e sia logicamente pregiudiziale ed influente sulla
pronuncia che definisce il processo nel quale esso è inserito; ed in
particolare dal fatto che il provvedimento previsto dall’art. 24 delle
disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile sarebbe
riservato al giudice istruttore (per sua competenza funzionale ed
esclusiva), non sarebbe revocabile, modificabile o impugnabile e
concorrerebbe in modo vincolante alla formazione della decisione
collegiale finale in ordine alle spese (art. 90 e ss. C.P.C.) e non
avrebbe quindi carattere ordinatorio (ex art. 127 C.P.C.) o
istruttorio.
L’eccezione di inammissibilità dell’incidente non appare fondata.
Infatti, in sede di liquidazione del compenso al consulente tecnico
d’ufficio, il giudice istruttore civile è organo giurisdizionale ed
emette, nel caso, un provvedimento decisorio: e, poiché,
nell’emetterlo, doveva e deve applicare le norme impugnate, ha potuto
legittimamente denunciarle a questa Corte.
3. – Nel merito la questione non è fondata.
La Corte non si nasconde la possibilità che le tariffe previste
dalle norme denunciate siano odiernamente considerate inadeguate specie
perché sono trascorsi vari anni dalla data in cui esse sono entrate in
vigore e nel frattempo non è rimasto inalterato il potere d’acquisto
della moneta, ma è dell’avviso che non ricorra il denunciato contrasto
con l’art. 36, comma primo, della Costituzione.
Il raffronto che con l’ordinanza di rimessione è posto tra i
compensi spettanti ai consulenti tecnici (ed in particolare a quelli,
come gli ingegneri, forniti di titolo di studio universitario o
equivalente) per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità
giudiziaria e quelli spettanti agli stessi professionisti sulla base
del D.M. 25 febbraio 1965 e per le stesse prestazioni, anche se
denuncia una non uniformità di trattamento (che nella specie per altro
non è invocata direttamente, ma solo come fonte di convincimento in
ordine all’asserita intollerabile e assurda situazione in cui
verserebbero i consulenti d’ufficio), pone in risalto che nell’ipotesi
di cui si tratta il criterio o metodo di valutazione delle singole
operazioni e la misura unitaria del compenso sono fissati per ragioni
di politica legislativa: esse costituiscono il risultato di scelte del
Parlamento, che nella specie non sono irrazionali. I consulenti tecnici
d’ufficio sono soggetti estranei all’organizzazione degli uffici
giudiziari, ma sono ausiliari del giudice, in quanto tenuti e chiamati
a svolgere una funzione nell’ambito del processo.
Per tale qualità non possono essere considerati, a proposito della
valutazione delle loro prestazioni e della liquidazione del relativo
compenso, come dei puri e semplici lavoratori autonomi: la diversità
delle posizioni si riflette su quella dei rispettivi compensi. D’altra
parte, non è escluso che la differente e minore entità di quelli
spettanti ai consulenti di ufficio trovi riscontro nell’esigenza di
carattere pubblico che siano contenute le spese giudiziali, con
l’implicita e sostanziale imposizione di prestazioni personali a carico
di categorie di persone tipicamente individuate.
Il raffronto nei termini sopra ricordati non è utilmente posto. E
non lo è, del pari, l’altro tra i compensi previsti dalle norme
denunciate e le retribuzioni spettanti a dati lavoratori subordinati:
oltretutto, per la mancanza di omogeneità tra i due tipi di
prestazioni e per la diversità delle situazioni economico – sociali di
coloro che le pongono in essere.
4. – Infine l’art. 36, comma primo, della Costituzione è male
addotto innanzitutto, perché il lavoro svolto dai consulenti tecnici
d’ufficio non si presta a rientrare in uno schema che involga un
necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione e quindi
un qualsiasi giudizio sull’adeguatezza e sufficienza di quest’ultima.
Ed in secondo luogo, perché non c’è modo di valutare in che misura
quel lavoro giochi nella complessiva attività di coloro che in
concreto lo svolgono e come i compensi per le relative operazioni (a
parte l’impossibilità o difficoltà di coglierne la totale entità)
concorrano alla formazione dell’intero reddito professionale del
singolo prestatore.
La situazione in cui si trovano i consulenti d’ufficio, e che non
è dissimile da quella delle categorie dei periti, degli interpreti e
dei traduttori, potrebbe anche apparire tale da suggerire iniziative o
modifiche sul terreno legislativo nel rispetto delle esigenze di
carattere pubblico e privato concorrenti nello svolgimento del processo
civile. Ma essa non conduce, a proposito delle norme che la comportano,
ad alcuna violazione dell’art. 36, comma primo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli articoli 2, 3 e 4 della legge 1 dicembre 1956, n. 1426 (sui
compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e
traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità
giudiziaria), sollevata con l’ordinanza indicata in epigrafe in
riferimento all’art. 36, comma primo, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 3 giugno 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.