Sentenza N. 89 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
10/06/1970
Data deposito/pubblicazione
10/06/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
03/06/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
AVV. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio
1969 dal pretore di Monopoli nel procedimento penale a carico di Greco
Giovanni, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 1969 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 2 aprile 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 aprile 1970 il Giudice relatore
Costantino Mortati;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso del procedimento penale contro Greco Giovanni, arrestato
dal direttore dei magazzini “Gamma” di Monopoli perché colto in
flagranza del reato di furto di oggetti esposti in vendita, il pretore
di quella città ha sollevato – con l’ordinanza in data 3 febbraio 1969
– questione di legittimità costituzionale dell’art. 242 del codice di
procedura penale, il quale consente l’arresto ad opera dei privati, in
presenza di determinate condizioni, in riferimento all’art. 13 della
Costituzione.
Nell’ordinanza il pretore argomenta innanzi tutto per dimostrare la
propria legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità e la
rilevanza della specifica questione rispetto al processo in corso.
Sul primo punto, dopo aver richiamato la conforme giurisprudenza di
questa Corte, ed in particolare le sentenze n. 13 e 52 del 1965, il
pretore osserva che, pur prescindendo dal rilievo che serie ragioni
suggerirebbero di riconoscere la legittimazione a sollevare questioni
di costituzionalità anche al pubblico ministero nel corso
dell’istruzione sommaria, è comunque indubbio che il pretore, anche
nell’esercizio delle corrispondenti funzioni, resta sempre e soltanto
un organo giurisdizionale.
Sul secondo punto egli osserva che, se la norma impugnata
risultasse incostituzionale, l’arresto dell’imputato dovrebbe ritenersi
illegittimo perché avvenuto fuori dei casi consentiti dalla legge e
dovrebbe conseguentemente emanarsi un decreto di scarcerazione ai sensi
dell’art. 246, primo comma, del codice di procedura penale. La
questione è perciò rilevante e tale rilevanza non viene meno neppure
per effetto della concessione della libertà provvisoria, (peraltro
condizionata al divieto di dimorare nel comune di Monopoli), disposta
col provvedimento stesso, in quanto siffatto beneficio comporta
soltanto la conversione di una forma di soggezione in altra, assai più
attenuata, ma non una vera e propria liberazione come quella che
conseguirebbe all’eventuale decreto di scarcerazione ex art. 246, primo
comma, del codice di procedura penale.
Dopo aver disatteso così il contrario indirizzo accolto nella
sentenza di questa Corte n. 13 del 1965, il pretore di Monopoli
aggiunge che la rilevanza della questione emerge anche dal fatto che la
legittimità o meno dell’avvenuto arresto potrebbe condizionare la
valutazione, sul piano probatorio, delle dichiarazioni e della condotta
dell’imputato nel periodo in cui egli è rimasto in potere del privato.
Passando a dimostrare la non manifesta infondatezza della
questione, il pretore muove dalla considerazione che l’art. 13 della
Costituzione riserva all’autorità giudiziaria e, in circostanze
eccezionali e con determinate limitazioni all’autorità di pubblica
sicurezza, il potere di disporre restrizioni della libertà personale
dei cittadini e non prevede invece un analogo potere del privato che si
trovi presente alla commissione di un reato. Il riconoscimento a favore
di questo di un tale potere concreta pertanto una violazione del
precetto costituzionale e non può trovare giustificazione in alcuna
delle teorie che sono state a questo scopo formulate dalla dottrina.
Respinta la tesi che vede nel privato che procede all’arresto un
negotiorum gestor o un organo occasionale dell’autorità di pubblica
sicurezza, quella secondo cui l’attività del privato realizzerebbe una
semplice fase preliminare rispetto alla presa in consegna
dell’arrestato da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, la quale
rappresenterebbe l’arresto vero e proprio, e quella secondo cui l’art.
242 del codice di procedura penale, più che fondare un potere di
arresto, conterrebbe essenzialmente una causa di giustificazione della
condotta del privato che la rende non perseguibile, il pretore osserva
che l’arresto ex art. 242 del codice di procedura penale, oltre alla
fisica coazione della persona altrui, incide notevolmente sulla
personalità morale e sulla dignità sociale del colpito, producendo
così quelle altre conseguenze che, secondo un recente orientamento
dottrinale, costituirebbero i sicuri connotati distintivi di ogni
provvedimento concernente la libertà personale.
Ricordate quindi le ragioni di opportunità che militano a favore
dell’introduzione della norma nell’ordinamento positivo, il pretore
conclude notando che esse potrebbero trovare accoglimento da parte del
legislatore mediante la formulazione di una diversa norma la quale
salvaguardi il diritto di libertà personale, mentre se ciò risultasse
impossibile non resterebbe che rinunciare alla soddisfazione di tali
esigenze di sicurezza e di difesa sociale.
Dopo che l’ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 85 del 2 aprile 1969, è
intervenuto nel processo costituzionale il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato come per legge dall’Avvocatura generale dello
Stato con deduzioni depositate il 22 aprile 1969.
In esse l’Avvocatura, dopo avere diffusamente illustrato i motivi
che hanno indotto il legislatore a riconoscere al privato il potere di
arresto in flagranza, mette particolarmente in evidenza come il
rispetto della libertà personale non si può spingere fino al punto da
consentire l’annullamento della libertà altrui, impedendo quelle forme
di autodifesa che sono consentite in tutti gli ordinamenti giuridici.
Rifacendosi all’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che
vede nel privato che procede all’arresto ai sensi dell’articolo 242 del
codice di procedura penale, un organo dell’amministrazione della
pubblica sicurezza, l’Avvocatura illustra quindi come tale costruzione
logico – giuridica consenta di superare il denunciato contrasto con
l’art. 13 della Costituzione e conclude quindi chiedendo che la
questione sia dichiarata infondata.
La questione sollevata dal pretore di Monopoli – con cui si
eccepisce la illegittimità costituzionale dell’art. 242 del codice di
procedura penale, nella considerazione che l’arresto ivi previsto, per
opera di un privato, di chi sia colto in flagranza di reato si pone in
contrasto con l’art. 13, terzo comma, della Costituzione il quale
consente l’adozione di siffatti provvedimenti provvisori restrittivi
della libertà personale solo all’autorità di pubblica sicurezza -,
non appare fondata.
È esatto che i provvedimenti in parola, costituendo deroga al
principio consacrato nel citato articolo, che incentra nella sola
autorità giudiziaria ogni potere di disporre misure incidenti sulla
libertà delle persone, devono ritenersi di stretta interpretazione, e
quindi non suscettibili di applicazione estensiva. Tuttavia è da
ritenere che la facoltà conferita al privato dalla norma in
contestazione non opera una vera estensione della portata propria della
disposizione costituzionale, in quanto il privato, allorché agisce in
presenza delle condizioni e rimane nei limiti stabiliti dalla norma
stessa, assume la veste di organo di polizia, sia pure straordinario e
temporaneo, ed in conseguenza viene a godere, nell’esercizio delle
funzioni pubbliche assunte, della stessa speciale posizione giuridica
conferita agli ufficiali di polizia giudiziaria, come risulta dal n. 2
dell’art. 357 del codice penale. Ciò non diversamente da quanto
avviene nell’ipotesi prevista dall’art. 652 del codice penale che
impone al privato, sotto comminatoria di sanzioni penali, di prestare,
se richiesto, il proprio aiuto o la propria opera nella flagranza di un
reato. Il fatto che in quest’ultima ipotesi il privato obbedisca ad un
ordine, conseguente all’accertamento della flagranza stessa da parte di
una pubblica autorità, mentre nell’altra agisce di propria iniziativa
e sulla base della constatazione della flagranza da lui stesso
effettuata, non muta sostanzialmente il tipo di attività giuridica che
egli viene ad esplicare nelle due ipotesi, diversificabili pertanto fra
loro solo sotto l’aspetto quantitativo della durata del tempo di
apprensione del colpevole fino al momento dell’intervento
dell’autorità ordinaria di polizia.
In entrambi i casi esaminati si fa applicazione del principio
generale della “collaborazione civica” in base al quale ogni cittadino
è, secondo i casi, obbligato o facultato a svolgere attività
richieste, con carattere di assoluta e urgente necessità, nel comune
interesse, per far fronte ad eventi rispetto ai quali, data la loro
eccezionalità o imprevedibilità, le autorità costituite non siano in
grado di intervenire con la necessaria tempestività, oppure in misura
sufficiente al bisogno. Il ricorso al privato nel caso denunciato deve
farsi derivare dal richiamo che l’art. 2 della Costituzione fa
all’osservanza dei “doveri di solidarietà sociale”, e che trova nel
diritto vigente numerose specie di applicazione.
La circostanza che il campo di azione consentito al privato
dall’art. 242 sia più limitato di quello in cui si muove l’autorità
costituita e si limiti alla sola apprensione materiale del reo (e
all’eventuale custodia delle cose costituenti il corpo del reato), non
comprendendo la compilazione del processo verbale dell’arresto o
qualunque comunicazione all’autorità giudiziaria (mentre egli può
pretendere dagli uffici di polizia il certificato del fermo da lui
operato), discende dalla veste che viene ad assumere di organo
straordinario, fornito, come tale, dei soli poteri strettamente
necessari ad evitare il pericolo della fuga, e limitatamente al tempo
anch’esso strettamente necessario ad operare la consegna dell’arrestato
alla più vicina autorità. Analogamente la facoltatività del potere
ex art. 242 trova la sua ovvia spiegazione nell’esigenza di evitare al
privato l’assunzione dell’obbligo di iniziative che, oltre a presentare
pericoli alla propria integrità fisica, possono far sorgere in lui
ragioni di dubbio circa la sussistenza dei requisiti che, ai sensi
dell’articolo stesso, sono necessari a legittimare l’arresto.
Le considerazioni che precedono conducono a far concludere che la
disposizione denunciata non contrasta con il terzo comma dell’art. 13,
non facendo a ciò ostacolo né il fatto che quest’ultimo non ricordi
espressamente il privato fra gli abilitati all’adozione delle attività
ivi menzionate, né la considerazione che alla potestà consentita al
privato non si adegui la qualifica di provvedimento, adottata
dall’articolo stesso (in realtà detto termine non assume un
significato tecnico, e pertanto è da interpretare come includente
qualsivoglia misura, comunque adottata dal cittadino nella veste di
titolare straordinario di una pubblica funzione, assunta sotto la
propria responsabilità). Ciò sempreché l’attività esercitata si
mantenga nei limiti derivanti dalla natura stessa del potere
consentito, e che inoltre rimanga fermo il rispetto del limite massimo
di vigenza di ogni provvedimento provvisorio qual è stabilito
dall’art. 13, con la conseguenza che l’inizio del termine di 48 ore
prescritto per la comunicazione all’autorità giudiziaria venga sempre
fatto decorrere dal momento dell’arresto operato dal privato e non già
da quello della consegna da parte sua all’autorità di polizia.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 242 del codice di procedura penale, proposta con l’ordinanza
del pretore di Monopoli, in riferimento all’art. 13, terzo comma, della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale Palazzo
della Consulta, il 3 giugno 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.