Sentenza N. 89 del 1999
Corte Costituzionale
Data generale
23/03/1999
Data deposito/pubblicazione
23/03/1999
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/03/1999
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
3, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e 58-ter della
legge 26 luglio 1975, n. 354, promossi con ordinanze emesse il 17
ottobre e il 10 ottobre 1997 dal Tribunale di sorveglianza di
Venezia, rispettivamente iscritte ai nn. 361 e 362 del registro
ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1998;
Visto l’atto di costituzione di Brunello Giovanni Pietro;
Udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 1999 il giudice relatore
Giuliano Vassalli;
Udito l’avv. Piero Longo per Brunello Giovanni Pietro;
delibare l’istanza di liberazione condizionale proposta da
altrettanti condannati per il delitto di omicidio volontario ed
altro, commessi “con modalità ed in circostanze estranee a contesti
di criminalità organizzata” ed in epoca successiva all’entrata in
vigore del decreto-legge n. 152 del 1991, il Tribunale di
sorveglianza di Venezia, dopo aver dato atto che i fatti per i quali
è intervenuta condanna “sono stati integralmente accertati”, con due
ordinanze di analoga motivazione, emesse il 10 ed il 17 ottobre 1997
e pervenute alla Corte l’11 maggio 1998, ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale degli artt. 2, commi 2 e 3, del d.l. 13 maggio 1991,
n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n.
203, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui
non prevedono che ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis
della legge n. 354 del 1975 la liberazione condizionale possa essere
concessa dopo l’espiazione di almeno metà (anziché di almeno due
terzi) della pena, fermi restando gli ulteriori requisiti e gli altri
limiti di pena previsti dall’art. 176 cod. pen., nel caso in cui
l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato
con sentenza irrevocabile renda impossibile un’utile collaborazione
con la giustizia.
Ricostruita la portata delle novelle introdotte ad opera del
decreto-legge n. 152 del 1991 e del decreto-legge n. 306 del 1992, il
giudice a quo ha rilevato che, dopo le modifiche apportate da
quest’ultimo decreto, il requisito della collaborazione descritto
dall’art. 58-ter dell’ordinamento penitenziario opera su due distinti
piani: per una prima “fascia” dei delitti indicati dall’art. 4-bis
dello stesso ordinamento, la collaborazione funge infatti da
presupposto di ammissione ai benefici; per tutti i reati previsti
dalla medesima norma – e dunque anche per quelli della seconda
“fascia” – la medesima collaborazione opera, invece, solo come
“condizione per l’applicazione dei limiti temporali ordinari” (in
luogo dei nuovi e più severi tetti di pena per l’ammissione ai
benefici introdotti dallo stesso d.-l. n. 152 del 1991).
Rileva al riguardo il giudice a quo come questa Corte abbia in più
interventi incisivamente circoscritto la portata dell’art. 4-bis,
prima parte, dell’ordinamento penitenziario, sottolineando, peraltro,
che tali interventi hanno riguardato la collaborazione solo come
presupposto di ammissione ai benefici per i condannati dei delitti
della prima “fascia”, prescindendo del tutto dal profilo relativo ai
limiti temporali. Ritiene dunque il rimettente che l’equiparazione
operata dalla Corte tra collaborazione prestata e collaborazione
impossibile debba produrre effetti anche sul piano dei limiti di
pena, giacché sarebbe illogico che l’efficacia della collaborazione
possa essere diversa a seconda che si tratti di collaborazione
effettiva o di collaborazione impossibile, considerato che la stessa
non riveste più nel sistema valenza trattamentale ma di semplice
incentivo offerto dal legislatore. Ravvisa pertanto il giudice a quo
una situazione di irragionevole disparità tra il condannato per un
qualsiasi reato previsto dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975
che abbia collaborato con la giustizia perché nelle condizione di
farlo e che può quindi fruire dei benefici penitenziari nei termini
ordinari, e il condannato per lo stesso reato che, per l’integrale
accertamento dei fatti e delle responsabilità, sia impossibilitato a
fornire un’utile collaborazione e debba quindi attendere i maggiori
termini introdotti dal decreto-legge n. 152 del 1991.
Relativamente, infine, alla violazione dell’art. 27 della
Costituzione, osserva il rimettente che il ritardare l’ammissione ad
importanti benefici penitenziari, quale la liberazione condizionale,
comporta un ingiustificato rallentamento del percorso di
risocializzazione, e quindi una frustrazione delle finalità
rieducative della pena, senza alcun vantaggio sotto il profilo delle
esigenze di prevenzione generale.
Sottolinea da ultimo il giudice a quo che l’eventuale accoglimento
della questione refluirebbe, ex art. 27 della legge n. 87 del 1953,
su tutti gli altri benefici ai quali fa riferimento l’art. 58-ter
dell’ordinamento penitenziario.
2. – In uno dei due giudizi si è costituita la parte privata, la
quale, nell’atto di costituzione e alla pubblica udienza, ha ribadito
e fatto proprii gli argomenti sviluppati nella ordinanza di
rimessione.
di sorveglianza di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3
e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 2, commi 2 e 3, del d.-l. 13 maggio 1991, n. 152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata
e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa),
convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e
58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà), nella parte in cui non prevedono che ai condannati
per i reati di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 la
liberazione condizionale possa essere concessa dopo l’espiazione di
almeno metà (anziché di almeno due terzi) della pena, fermi
restando gli ulteriori requisiti e gli altri limiti di pena previsti
dall’art. 176 cod. pen., nel caso in cui l’integrale accertamento dei
fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda
impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.
Nello scandagliare l’evoluzione subita dal complesso quadro
normativo di riferimento, il giudice a quo ha posto in evidenza come
la disciplina dettata in tema di liberazione condizionale dall’art. 2
del decreto-legge n. 152 del 1991, fosse in linea con altre
previsioni, introdotte dal medesimo decreto per i condannati di cui
all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, le quali avevano appunto
introdotto o innalzato i livelli minimi di pena espiata per l’accesso
a vari benefici penitenziari. La funzione di tale eccezionale
normativa – osserva il rimettente – era dunque chiara, e rispondeva
alla scelta di assoggettare ad una verifica più lunga, attraverso
l’innalzamento dei tetti di pena per l’accesso ai benefici
penitenziari ed alla liberazione condizionale, il percorso di
rieducazione di quanti avessero subito condanna per delitti
riconducibili all’area della criminalità organizzata o eversiva. In
tale prospettiva – rileva il giudice a quo – si comprendeva, quindi,
la ratio della previsione dettata dall’art. 58-ter della legge n.
354 del 1975 – operante anche per la liberazione condizionale, in
virtù del richiamo enunciato dall’art. 2, comma 3, del decreto-legge
n. 152 del 1991 – in base alla quale i nuovi e più severi limiti di
pena stabiliti per l’accesso ai benefici penitenziari non si
applicano nei confronti di coloro che collaborano con la giustizia,
giacché la scelta collaborativa poteva ritenersi in sé dimostrativa
della intervenuta rescissione di qualsiasi collegamento con gli
ambienti criminali. Il quadro è però mutato a seguito delle
modifiche apportate all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 ad
opera del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni,
dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. A seguito di tale novella, osserva
infatti il giudice rimettente, il requisito della collaborazione
previsto dall’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975, viene ora ad
operare su due piani ben distinti: per un primo gruppo di reati esso
funge da presupposto di ammissione ai benefici; per quegli stessi
reati e per i delitti della “seconda fascia” previsti dallo stesso
art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il medesimo requisito
opererebbe invece “solo come condizione per l’applicazione dei limiti
temporali ordinari” per l’accesso ai benefici penitenziari ed alla
liberazione condizionale.
A fronte di tale nuovo assetto normativo, puntualizza il giudice a
quo, si è peraltro venuta a collocare una nutrita serie di sentenze
con le quali questa Corte ha significativamente circoscritto la
portata dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, giungendo a
sancire, ai fini della ammissione ai benefici penitenziari ed alla
liberazione condizionale, la sostanziale equiparazione tra
collaborazione prestata e collaborazione impossibile. Ritiene dunque
il rimettente che tale equiparazione debba produrre effetti anche sul
piano dei limiti di pena, giacché, avuto riguardo alla ratio
originaria dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario,
risulterebbe illogico imporre un periodo di osservazione più lungo
nei confronti di soggetti che, essendo impossibilitati a collaborare,
non possono per definizione essere utili nella lotta contro la
criminalità organizzata. Da ciò scaturirebbe, a parere del giudice
a quo un contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto si
determina una irragionevole disparità tra il condannato per un
qualsiasi reato previsto dall’art. 4-bis dell’ordinamento
penitenziario che abbia collaborato con la giustizia perché nelle
condizioni di farlo e che può quindi fruire dei benefici
penitenziari nei termini ordinari, e il condannato per lo stesso
reato che, per l’integrale accertamento dei fatti e delle
responsabilità, sia impossibilitato a fornire un’utile
collaborazione e debba quindi attendere i maggiori termini introdotti
dal decreto-legge n. 152 del 1991.
Vulnerato risulterebbe, infine, l’art. 27 della Costituzione, in
quanto ritardare l’ammissione alla liberazione condizionale
comporterebbe, ad avviso del rimettente, un ingiustificato
rallentamento del percorso di risocializzazione, con correlativa
vanificazione della funzione rieducativa della pena, senza alcun
vantaggio per le esigenze di tutela della collettività.
2. – Le ordinanze sollevano l’identica questione, sicché i
relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica
sentenza.
3. – Agli effetti della odierna decisione, e sul piano
squisitamente ermeneutico, occorre subito osservare che nessun valido
contributo può essere dedotto da una isolata pronuncia della Corte
di cassazione – di poco successiva alle ordinanze di rimessione e
casualmente riferita alla posizione di un coimputato di una delle
parti private coinvolte in uno dei procedimenti a quibus – la quale,
soffermandosi sulla stessa problematica oggetto del presente
scrutinio, è giunta apoditticamente ad affermare che, anche nei
confronti dei condannati per i reati di cui all’art. 4-bis
dell’ordinamento penitenziario, il limite di metà della pena,
fissato in via generale dal primo comma dell’art. 176 cod. pen. per
essere ammessi al beneficio della liberazione condizionale, deve
ritenersi operante, “in applicazione dei principi fissati dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 68 del 1995 … anche nel caso in
cui la collaborazione sia divenuta impossibile o irrilevante” (Cass.,
Sez. I, 19 novembre 1997, n. 6492).
L’assunto, per quel che qui interessa, è però efficacemente
contrastato dal giudice rimettente, il quale, motivatamente adottando
l’opposta soluzione interpretativa all’esito di una puntuale disamina
della giurisprudenza costituzionale, ha correttamente osservato che
“dalla lettura delle motivazioni e dei dispositivi delle suddette
sentenze, emerge chiaramente che tali importanti interventi
riguardano solo la collaborazione come presupposto di ammissione ai
benefici per i condannati per i delitti della prima “fascia” ,
prescindendo del tutto dal profilo relativo ai limiti temporali”.
Tanto basta, dunque, per imporre l’esame nel merito della sollevata
questione, non potendosi la stessa ritenere frutto di una erronea
premessa ermeneutica.
4. – Nel ricostruire la genesi e l’evoluzione dell’articolato
contesto normativo in cui le disposizioni attinte da censura si
trovano inserite, il tribunale rimettente ha esattamente posto in
risalto la totale diversità dei “piani” che caratterizzano gli
effetti della condotta collaborativa, a seconda che vengano
riguardati con riferimento alle condizioni generali ovvero ai
requisiti specifici stabiliti per l’ammissione ai benefici
penitenziari ed alla liberazione condizionale, nei confronti dei
condannati per i delitti indicati nelle due “fasce” in cui risulta
strutturata la disciplina prevista dall’art. 4-bis dell’ordinamento
penitenziario. Mentre, infatti, per i reati di cui al primo periodo
del comma 1 di tale norma la collaborazione con la giustizia ai sensi
dell’art. 58-ter della stessa legge funge da generale presupposto di
ammissibilità, per i delitti della seconda “fascia” (quale è quello
relativo ai procedimenti a quibus) il medesimo requisito della
collaborazione opera soltanto quale specifica “condizione risolutiva”
dei più severi limiti di pena minima espiata, introdotti dal
decreto-legge n. 152 del 1991 per l’accesso ai benefici di cui
trattasi.
A parere del giudice a quo pertanto, la pur riconosciuta diversità
dei “piani” su cui l’identico fattore collaborativo viene a
proiettare i suoi effetti, non sarebbe in sé elemento sufficiente a
giustificare una perdurante divergenza di regime, quale è quella
scaturita dalle sentenze di questa Corte che hanno via via
affievolito il rigore della collaborazione come condizione necessaria
per l’ammissione ai benefici, ma non hanno esteso l’identica
disciplina alla collaborazione intesa quale requisito per rendere
operanti gli ordinari e più blandi limiti di pena per fruire dei
benefici in questione.
L’assunto è però fallace, giacché è proprio l’assoluta
autonomia dei riflessi di cui innanzi si è detto a rendere evidente
l’impossibilità di ritenere fra loro omologabili situazioni
normative strutturalmente e funzionalmente eterogenee. Nella sentenza
n. 68 del 1995, infatti, questa Corte non mancò di rilevare come a
seguito delle modifiche apportate all’art. 4-bis della legge n. 354
del 1975 ad opera dell’art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992, si
fosse determinato un profondo mutamento di prospettiva rispetto al
sistema delineato dal decreto-legge n. 152 del 1991. Si passava,
infatti, “da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata
per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza di
collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che
introduce(va) una preclusione per certi condannati, rimuovibile
soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)”.
Ciò sta quindi a significare, anzitutto, che il requisito della
collaborazione, ancorché identico rispetto ai due fenomeni presi in
considerazione (presupposto dei benefici per i condannati della prima
“fascia” e condizione per l’applicazione dei limiti di pena
“ordinari” per i condannati della seconda “fascia”), è chiamato a
svolgere rispetto ad essi funzioni nettamente distinte, al punto che
le relative peculiarità non possono non indurre ad apprezzamenti
altrettanto differenziati sul piano delle rispettive conformità ai
valori costituzionali che vengono ad essere coinvolti.
È di tutta evidenza, infatti, che ancorare alla collaborazione la
stessa astratta possibilità di fruire di fondamentali strumenti
rieducativi, ha un senso solo ove, come questa Corte ha affermato, si
versi in ipotesi di “collaborazione oggettivamente esigibile”,
giacché un comportamento che il legislatore presupponga come
condizionante l’applicazione di istituti costituzionalmente
rilevanti, non può che essere frutto di una libera scelta
dell’interessato e, quindi, essere in sé naturalisticamente e
giuridicamente “possibile”.
Del tutto diverso si presenta, invece, il quadro costituzionale di
riferimento ove la collaborazione venga riguardata sul versante dei
limiti di pena: in tal caso, infatti, non è la possibilità in sé
dei benefici a venire in discorso, e, quindi, la possibilità
astratta di avvalersi delle relative opportunità trattamentali, ma
unicamente la previsione di uno specifico “aggravamento” del periodo
di espiazione richiesto per accedere a quei benefici. Ci si imbatte,
dunque, in una precisa scelta di inasprimento del regime
penitenziario, frutto di un non arbitrario impiego della
discrezionalità legislativa che neppure il giudice a quo attento,
anzi, a rimarcare la coerente ratio sottesa alle importanti novità
introdotte dal decreto-legge n. 152 del 1991, fa mostra di censurare.
Il maggior limite di pena che taluni condannati incontrano per essere
ammessi alla liberazione condizionale, si struttura, pertanto, come
un aggravamento della condizione penitenziaria, al quale corrisponde,
come fenomeno inverso di attenuazione sterilizzatrice, la condotta
collaborativa richiamata dall’art. 2, comma 3, del medesimo
decreto-legge n. 152 del 1991. Ne deriva, quindi, che la
collaborazione assume a quei fini rilievo solo se ed in quanto sia
stata effettivamente prestata, giacché, ove così non fosse, si
determinerebbe un trattamento “sanzionatorio” più blando non in
funzione di un comportamento positivo, ma in ragione della semplice
impossibilità di prestare un simile comportamento, con evidente
compromissione di quello stesso parametro di ragionevolezza che il
rimettente deduce a conforto della opposta soluzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 2, commi 2 e 3, del d.-l. 13
maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla
criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento
dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203, e 58-ter della legge 26 luglio 1975,
n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà) sollevata, in
riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di
sorveglianza di Venezia con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 marzo 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 23 marzo 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola