Sentenza N. 95 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
03/04/1996
Data deposito/pubblicazione
03/04/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
25/03/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE;
di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 20 aprile 1995
dal Tribunale di Alba nel procedimento penale a carico di Sandri
Carlo, iscritta al n. 464 del registro ordinanze 1995 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie
speciale, dell’anno 1995;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 6 marzo 1996 il Giudice
relatore Mauro Ferri.
manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art.
430 del codice di procedura penale, “nella parte in cui non prevede
che le dichiarazioni rese da testimoni avanti al pubblico ministero
nella fase dell’attività integrativa di indagine compiuta dopo
l’udienza preliminare possano essere utilizzate per le contestazioni
ai sensi dell’art. 500 del codice di procedura penale”.
2. – Premette il giudice a quo che nel corso dell’udienza
dibattimentale il pubblico ministero si è avvalso, ai fini delle
contestazioni ex art. 500 del codice di procedura penale, delle
dichiarazioni rese da alcuni testi in fase di attività integrativa
di indagine, ai sensi dell’art. 430 del codice di procedura penale;
attività svolta nelle more tra il rinvio a giudizio e l’udienza
dibattimentale, e della quale è stato dato avviso ai difensori delle
parti, ai sensi dell’art. 18 del regolamento per l’esecuzione del
codice di procedura penale.
La difesa dell’imputato ha eccepito l’inutilizzabilità di dette
dichiarazioni ai fini previsti dall’art. 500 del codice di procedura
penale, in quanto la norma impugnata consente l’utilizzo
dell’attività di indagine solo ai fini delle richieste di ammissione
delle prove in dibattimento.
Diversamente ragionando si consentirebbe al pubblico ministero di
avvalersi di prove non conosciute dall’imputato al momento
dell’udienza preliminare, con conseguente impossibilità di tenerne
conto ai fini dell’accesso ai riti alternativi, con particolare
riferimento al giudizio abbreviato.
3. – L’art. 500 del codice di procedura penale – rileva il
tribunale – così come modificato dalla legge n. 356 del 1992,
consente alle parti di avvalersi, ai fini delle contestazioni, delle
dichiarazioni rese dal teste durante le indagini preliminari, le
quali, ai sensi del quarto e del quinto comma della norma, possono
assumere anche efficacia probatoria. Tale previsione si fonda sul
rilievo che è preminente, nel giudizio, l’interesse all’accertamento
della verità “nel rispetto del diritto dello Stato all’effettivo
esercizio dell’azione penale sancito dall’art. 24, primo comma, della
Costituzione” e del diritto di difesa (quando le contestazioni siano
mosse dalle parti private) sancito dall’art. 24, secondo comma, della
Costituzione. Ai fini del perseguimento di tali interessi, il caso
delle contestazioni mosse ad un teste sulla base di dichiarazioni da
questi rese nel corso delle indagini preliminari, non è differente,
a giudizio del Tribunale rimettente, dal caso in cui dette
dichiarazioni siano state rese nel corso dell’attività integrativa
di indagine.
Escludere la possibilità di utilizzare dette dichiarazioni ai fini
delle contestazioni, significherebbe, quindi, privare il giudice di
possibili fondamentali elementi di conoscenza della verità ed
impedire più approfondite valutazioni in ordine all’attendibilità
del teste.
In contrario avviso, inoltre, non può essere addotto che ammettere
le contestazioni fondate sull’attività integrativa di indagine
significherebbe consentire al pubblico ministero un’indebita
estensione dei suoi poteri d’indagine, con violazione dei limiti
temporali previsti per tale attività; né che in tal modo il
pubblico ministero potrebbe sottrarsi alla discovery svolgendo
artatamente attività di indagine dopo l’udienza preliminare.
Tali argomenti non tengono conto che è la stessa legge a
consentire al pubblico ministero di indagare anche dopo l’udienza
preliminare, e che esso è organo di giustizia tenuto a rispettare la
legge e quindi a svolgere ogni attività istruttoria nei tempi e nei
modi che consentano il sostanziale e integrale rispetto delle
garanzie di difesa.
4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.
Rileva, detta difesa, che l’attività integrativa di indagine è
del tutto eccezionale, tanto che è consentita al pubblico ministero
ove non debbano compiersi atti per i quali è prevista la
partecipazione dell’imputato o del suo difensore.
Ciò in quanto detta attività interrompe il normale nesso di
continuità tra l’udienza preliminare e il dibattimento, ed introduce
nel processo fatti nuovi che, se tempestivamente conosciuti,
avrebbero potuto orientare diversamente l’attività di difesa ed
indurre l’imputato a chiedere l’accesso ai riti alternativi.
Pertanto, ad avviso dell’Avvocatura, detto eccezionale strumento,
per risultare legittimo, deve essere contenuto entro limiti ristretti
e non può equivalere, in tutto e per tutto, all’ attività svolta
prima dell’udienza preliminare.
Le situazioni raffrontate sono assai dissimili, sicché le
dichiarazioni rese durante l’attività integrativa di indagine sono
utilizzabili limitatamente ai fini della formulazione delle richieste
del pubblico ministero al giudice del dibattimento, non evincendosi,
quindi, alcun contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
In conclusione, l’Avvocatura ritiene che l’ultrattività del potere
di indagine, eccezionalmente prevista a favore del pubblico ministero
nell’interesse dello Stato alla repressione dei reati, sia stata
opportunamente bilanciata limitando l’utilizzazione degli atti
compiuti, in modo da assicurare il rispetto del contrapposto diritto
di difesa dell’imputato, sì da ritenersi pienamente rispettato
l’art. 24 della Costituzione.
della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 430
del codice di procedura penale, “nella parte in cui non prevede che
le dichiarazioni rese da testimoni avanti al pubblico ministero nella
fase dell’attività integrativa di indagine compiuta dopo l’udienza
preliminare possano essere utilizzate per le contestazioni ai sensi
dell’art. 500 del codice di procedura penale”.
2. – In sintesi, il giudice remittente ritiene che la norma
impugnata – in quanto non prevede l’utilizzabilità delle
dichiarazioni rese al pubblico ministero, in sede di attività
integrativa di indagine, ai fini delle contestazioni ex art. 500, ma
solo ai fini delle richieste di prova al giudice del dibattimento –
contrasti con l’art. 3 della Costituzione per il difforme
trattamento, in ordine all’utilizzabilità ai fini delle
contestazioni, dell’attività d’indagine compiuta dal pubblico
ministero prima e dopo l’udienza preliminare, nonché con l’art. 24
della Costituzione per quanto “impinge al diritto di difesa dello
Stato” e al diritto di difesa delle parti private.
3. – La questione non è fondata.
Le argomentazioni del giudice a quo hanno origine da un’errata
lettura dell’art. 430 del codice di procedura penale, in combinato
disposto con gli articoli 433, terzo comma, e 500 dello stesso
codice.
Va, innanzitutto, chiarito che l’art. 430, nel prevedere che l’
attività integrativa di indagine sia finalizzata alla formulazione
delle richieste di prova al giudice del dibattimento, impone al
pubblico ministero di rendere disponibile la documentazione così
raccolta ai difensori delle parti, i quali possono anch’essi, sulla
medesima base, formulare proprie richieste.
Requisito essenziale, affinché i verbali di tale attività siano
poi utilizzabili ai fini delle contestazioni è, secondo la
disposizione letterale del primo comma dell’art. 500, che essi siano
contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, e quindi che le altre
parti siano state messe in condizione di prenderne visione e di
estrarne copia, in modo da poter formulare anch’esse, al pari del
pubblico ministero, contestazioni fondate sugli stessi atti.
Una volta, quindi, che ai sensi dell’art. 433, terzo comma, in quel
fascicolo sia stata introdotta la documentazione relativa agli atti
integrativi d’indagine, nessuna norma autorizza a distinguere il
regime di utilizzabilità di detti atti da quello previsto in via
generale, dal cit. art. 500, per tutti gli atti contenuti nel
fascicolo del pubblico ministero.
La soluzione, così come prospettata dal remittente, è, quindi,
già positivamente prevista e disciplinata nelle disposizioni citate,
la cui lettura in questo senso è, del resto, confermata
dall’orientamento della Corte di cassazione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 430 del codice di procedura penale, sollevata in
riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di
Alba con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Ferri
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 3 aprile 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola