Sentenza N. 98 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
06/04/1998
Data deposito/pubblicazione
06/04/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/03/1998
Presidente: Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio
1997 dal pretore di Modena, iscritta al n. 302 del registro ordinanze
1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24,
prima serie speciale, dell’anno 1997;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1998 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
questione di legittimità costituzionale dell’art. 188, secondo
comma, del codice penale, nella parte in cui, disponendo che non si
trasmette agli eredi del condannato l’obbligazione al rimborso delle
spese di mantenimento di quest’ultimo negli istituti penitenziari,
omette di prevedere l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligazione
al rimborso delle spese del processo penale, in ritenuta violazione
degli artt. 3, primo comma, 27, primo comma e 31, primo comma, della
Costituzione;
Quanto alla rilevanza della questione, il pretore osserva che il
ricorrente nel giudizio a quo è padre ed erede di una persona che ha
subito più condanne comportanti il pagamento delle spese processuali
e che è deceduta senza adempiere a tali obbligazioni e senza che sia
stato possibile riscuotere coattivamente il credito dell’erario.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice remittente
individua un primo profilo di illegittimità costituzionale, per
violazione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto la disposizione
impugnata discriminerebbe la posizione degli eredi di chi abbia
riportato condanne penali a pene non detentive, o a pena detentiva
sostituita con pena pecuniaria o con altra sanzione sostitutiva, o a
pena detentiva per altre ragioni non eseguita, rispetto a quella
degli eredi di coloro che, condannati a pena detentiva, abbiano
scontato la pena prima del decesso: soloquesti ultimi potrebbero
essere esonerati dall’obbligo del pagamento delle spese derivanti
dalla condanna, mentre i primi riceverebbero un trattamento
deteriore, non essendo loro concesso di ottenere nemmeno la
remissione del debito qualora versino in disagiate condizioni
economiche. Poiché, infatti, la legge (art. 56 della legge 26 luglio
1975, n. 354, “Ordinamento penitenziario”) accomuna, ai fini della
remissione del debito, le spese processuali e quelle di mantenimento
in carcere, l’art. 188, secondo comma, cod. pen., escludendo la
trasmissibilità agli eredi del debito per le sole spese di
mantenimento in carcere, introdurrebbe per detti debiti una
disciplina particolare, discriminando irragionevolmente gli eredi dei
debitori delle spese processuali.
In sostanza, secondo il giudice a quo all’uniforme disciplina
dell’obbligo di rimborso delle spese processuali e di quelle di
mantenimento in carcere, entrambe remittibili nei confronti del
condannato in vita, dovrebbe corrispondere una regolazione uniforme
dell’obbligo anche per l’eventualità del decesso del condannato
prima dell’estinzione delle due obbligazioni.
Sotto un diverso profilo, il pretore rileva che il diverso
trattamento sarebbe lesivo anche dell’art. 27, primo comma, della
Costituzione, laddove afferma essere la responsabilità penale
personale; da tale principio discenderebbe la natura personalissima
non solo della sanzione penale, ma anche della condanna penale e
delle sue dirette conseguenze, tra le quali dovrebbe rientrare
l’obbligo di rimborsare le spese del processo.
Il giudice remittente ravvisa infine un ultimo profilo di
illegittimità costituzionale nella violazione dell’art. 31, primo
comma, della Costituzione, in considerazione del fatto che gravati
delle spese di processi che in nulla li riguardano sarebbero, per lo
più, familiari del condannato deceduto, nella loro qualità di
eredi; si ridurrebbero così le risorse economiche del nucleo
familiare per ragioni alle quali esso è del tutto estraneo.
2. – È intervenuto nel presente giudizio il Presidente del
Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.
La disparità di trattamento denunciata dal giudice remittente si
fonderebbe, ad avviso dell’Avvocatura, su una comparazione di termini
eterogenei: l’accostamento tra spese del processo e spese di
mantenimento in carcere operato dall’art. 56 della legge n. 354 del
1975, ai fini della remissione del debito, non significherebbe,
infatti, che ci si trovi di fronte a obblighi di natura omogenea;
anzi, il legislatore avrebbe differenziato il regime delle spese di
mantenimento in carcere nella consapevolezza dell’incidenza, nel
caso, delle finalità rieducative connesse all’esecuzione della pena.
L’art. 56 introdurrebbe, invece, un meccanismo di remissione,
operante ex post e in relazione al caso concreto, che avrebbe
finalità premiale e di risarcimento del condannato in disagiate
condizioni economiche. Si tratterebbe, quindi, di scelte
discrezionali del legislatore, giustificate dalle diverse finalità
dell’attività che lo Stato esplica relativamente all’accertamento
della verità processuale e all’esecuzione della pena irrogata.
L’Avvocatura, infine, ritiene infondata la questione in riferimento
agli altri parametri, rilevando, quanto alla prospettata violazione
dell’art. 27 della Costituzione, che l’obbligo di rimborso delle
spese processuali costituirebbe non già esercizio della potestà
punitiva, ma effetto risarcitorio civile del reato, e, quanto alla
ipotizzata violazione dell’art. 31 della Costituzione, che la censura
si baserebbe su considerazioni di mero fatto, sulle quali non
potrebbe fondarsi il sindacato di costituzionalità.
3, primo comma, 27, primo comma, e 31, primo comma, della
Costituzione, l’art. 188, secondo comma, del codice penale, nella
parte in cui, disponendo che non si trasmette agli eredi del
condannato l’obbligo di rimborsare all’erario le spese per il suo
mantenimento negli stabilimenti di pena, omette di prevedere la non
trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del
processo penale.
2. – La questione è fondata in riferimento agli artt. 3 e 27 della
Costituzione.
Prima della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975)
vi erano ben pochi dubbi circa la natura dell’obbligazione di
rimborso delle spese del processo penale: si trattava di
un’obbligazione civile verso lo Stato posta a carico dell’autore del
reato con la sentenza definitiva di condanna. Era del tutto
conseguente alla configurazione giuridica impressale dal legislatore
non solo che dell’adempimento di tale obbligazione il condannato
rispondesse con tutti i suoi beni, presenti e futuri, secondo i
principi civilistici della responsabilità patrimoniale, ma che, in
caso di morte del debitore, chiamati a rispondere fossero gli eredi.
In verità, una qualche peculiarità, rispetto alle comuni
obbligazioni civili, era presente fin dalle origini, poiché l’art.
273 della tariffa penale approvata con regio decreto 23 dicembre
1865, n. 2701, tuttora vigente, prevede l’annullamento degli articoli
di credito iscritti nel registro del campione penale, oltre che nel
caso in cui sia decorsa la prescrizione, in quello in cui il
condannato sia deceduto in stato di insolvibilità. Al di fuori di
queste ipotesi, l’obbligazione si trasmette agli eredi, secondo le
disposizioni del codice civile, sicché la tradizionale
qualificazione del debito per spese processuali come obbligazione
civile era da considerare appropriata e, al di là della puntuale
deroga, coerente con i tratti fondamentali della disciplina positiva.
3. – I presupposti giuridici di tale configurazione, alla quale
anche la giurisprudenza costituzionale aveva in passato acceduto
(sentenze nn. 30/1964 e 167/1963), sono però venuti meno con l’art.
56 della legge sull’ordinamento penitenziario, a mente del quale il
debito per le spese di procedimento e di mantenimento è rimesso nei
confronti dei condannati e degli internati che si trovino in
disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta.
La considerazione dell’istituto della remissione e, soprattutto,
dei suoi presupposti oggettivi e soggettivi induce a ritenere che lo
stesso debito di rimborso delle spese processuali abbia mutato
natura: non più obbligazione civile retta dai comuni principi della
responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla
pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle
finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese
processuali il condannato che versi in disagiate condizioni
economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare
denota il penetrare nel rapporto obbligatorio tra condannato debitore
ed erario creditore di una funzione estranea alla generalità dei
rapporti di diritto civile; dimostra il sopravanzare di un fine che
trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il
prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato
sull’adempimento dell’obbligo economico. Il rapporto obbligatorio,
insomma, viene investito dalla disciplina dell’ordinamento
penitenziario in entrambi i lati: nel lato passivo la figura del
debitore cede di fronte a quella del condannato e nel lato attivo
l’erario lascia il campo alla giustizia.
Non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese
processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per
le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era
già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del
codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra
le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a
seguito della entrata in vigore dell’art. 56 dell’ordinamento
penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine
qualificatoria.
In verità, la giurisprudenza di questa Corte aveva già colto il
mutamento imposto dal citato art. 56. Nella sentenza n. 342/1991 è
stata, infatti, ritenuta irragionevolmente discriminatoria la
preclusione della remissione delle spese del processo penale nei
confronti di quei condannati i quali, non avendo sofferto (in ragione
della non rilevante gravità del reato da loro commesso, della minore
loro pericolosità sociale o per qualsiasi altra causa) alcun periodo
di carcerazione, apparivano semmai maggiormente meritevoli di una
agevolazione economica che, seppure nella limitata portata
dell’istituto, favorisse il loro reinserimento sociale. Pur
pronunciando in quella occasione sul parametro del solo art. 3,
questa Corte non aveva mancato di evidenziare le nuove potenzialità
dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità
premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di
ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità
di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la
rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui
altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue
già disagiate condizioni; ed aveva con ciò stesso, nella sostanza,
riconosciuto che il tema dell’adempimento dell’obbligo di pagamento
delle spese del processo, dal terreno squisitamente civilistico della
responsabilità patrimoniale, dove era stato tradizionalmente
collocato, si era spostato, per scelta del legislatore, in quello
della pena e delle finalità alle quali essa deve tendere.
4. – Tutto ciò, va precisato, non era costituzionalmente dovuto.
Nessuna norma della Costituzione impone, infatti, che lo Stato esiga
dal condannato il rimborso delle spese del processo penale e nessuna
postula che tali spese gravino sulla collettività. Come già questa
Corte ha più volte riconosciuto (da ultimo nella sentenza n.
45/1997), quella delle spese processuali è materia nella quale il
legislatore, salvo il limite della ragionevolezza, è dotato della
più ampia discrezionalità.
Ma una volta che la scelta legislativa sia stata quella di
introdurre l’istituto della remissione del debito e una volta che in
questo si sia dato rilievo all’esistenza di indici di ravvedimento
del condannato e all’esigenza di agevolame il reinserimento sociale,
non può non risentirne l’intera configurazione dell’obbligazione di
rimborso delle spese processuali. La pretesa che tale obbligazione
mantenga intatta la sua originaria natura e che essa non venga
attratta nell’orbita dell’art. 27 della Costituzione contraddice al
canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative. Si è
infatti in presenza di una obbligazione che non può non partecipare
del carattere della personalità che è proprio di tutte le pene,
nessuna delle quali è trasmissibile agli eredi poiché questi non
sono autori del reato, né hanno dato in alcun modo causa al processo
penale.
Deve pertanto essere dichiarata la illegittimità costituzionale,
per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art.
188, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui omette di
prevedere la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di
rimborsare le spese del processo penale.
Resta assorbito ogni altro profilo.
5. – In applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.
87, deve essere conseguenzialmente dichiarata la illegittimità
costituzionale parziale dell’art. 273 del r.d. 23 dicembre 1865, n.
2701 (che ha natura di decreto legislativo, come risulta anche dalla
espressa qualificazione contenuta nell’art. 1 della legge 29 giugno
1882, n. 835, di riforma delle tariffe giudiziarie), secondo il quale
l’iscrizione degli articoli di credito nel registro del campione
penale è annullato se il condannato è deceduto in stato di
insolvibilità, da accertarsi con dichiarazione della giunta
municipale. Tale disposizione, consentendo la trasmissione
dell’obbligazione per spese processuali agli eredi del condannato
solvibile, contrasta, al pari del richiamato art. 188 cod. pen., con
il canone di ragionevolezza delle classificazioni legislative (art. 3
della Costituzione) e con il principio, risultante dall’art. 27 della
Costituzione, secondo il quale anche le sanzioni economiche
accessorie alla pena hanno carattere personale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo
comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede la non
trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di rimborsare le spese del
processo penale;
Dichiara ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
l’illegittimità costituzionale dell’art. 273, primo periodo, del r.
d. 23 dicembre 1865, n. 2701, che approva la Tariffa in materia
penale, limitatamente alle parole “in istato di insolvibilità” e
dell’art. 273, secondo periodo, dello stesso decreto, limitatamente
alle parole “l’insolvibilità con dichiarazione della giunta
municipale”.
Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 26 maggio 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 6 aprile 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola