Sentenza N. 13334 del 2019
Corte di Cassazione - Sezione Penale III
Data deposito/pubblicazione
27/03/2019
CORTE DI CASSAZIONE
Sentenza 27 marzo 2019, n. 13334
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 27 luglio 2015, il Tribunale di Latina condannava R. A. alla pena di
anni 1 e mesi 2 di reclusione, in ordine al reato di cui all’art. 5 del d. Igs. 74/2000,
perché, agendo quale titolare della ditta “Logistica e servizi di A. R.”, con sede in ….
omissis, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presentava,
essendovi obbligato, la dichiarazione annuale ai fini iva per gli anni 2006 e 2008, così
evadendo l’imposta per un importo pari, per il 2006, a euro 159.948.97 e, per il 2008, a
euro 251.508,80, fatti commessi in Latina negli anni 2007 e 2009. Con sentenza del 6
dicembre 2016, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo
grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al reato
ascrittogli, limitatamente alla condotta relativa all’anno 2006, perché estinto per
prescrizione, rideterminando la pena, per i fatti riguardanti il 2009, in anni 1 di
reclusione, confermando nel resto.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello romana, A., tramite il difensore, ha
proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con cui lamenta la
carenza e contraddittorietà della motivazione, evidenziando che la Corte territoriale si
era limitata a richiamare la sentenza di primo grado, senza fornire risposta alle
doglianze difensive, con cui era stato rilevato che l’imposta evasa era stata determinata
sulla base di indici presuntivi di tipo astratto e non sulla scorta di indici specifici e
concreti, a nulla rilevando l’assenza di contabilità.
Peraltro, in ordine all’esistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato, la difesa
osserva che la sentenza impugnata era stata contraddistinta dall’indebita inversione
dell’onere della prova, essendo stata cioè applicata in sede penale la presunzione di cui
all’art. 32 del d.P.R. 600/73, secondo la quale tutti gli accrediti registrati sul conto
corrente possono essere considerati ricavi dell’azienda, regola questa che vale solo in
ambito finanziario, mentre, ai fini della determinazione del reddito imponibile, i giudici
di merito avrebbero dovuto tener conto dei costi di esercizio fiscalmente detraibili
sostenuti dall’azienda.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
1. A differenza di quanto dedotto dal ricorrente, l’affermazione della penale
responsabilità dell’imputato (almeno rispetto alla condotta riferita all’annualità 2008,
residuata dopo la parziale declaratoria in appello di estinzione del reato per
prescrizione rispetto all’annualità 2006) deve ritenersi immune da censure.
E invero le due conformi decisioni di merito, le cui argomentazioni sono destinate a
integrarsi reciprocamente per formare un corpus motivazionale unitario, hanno operato
un’adeguata ricostruzione della vicenda storica, richiamando in primo luogo gli esiti
dell’attività investigativa compiuta dalla Guardia di Finanza di …omissis nel 2009 nei
confronti della ditta individuale “Logistica e servizi di A. R.”, con sede in …omissis,
impresa esercente attività di trasporto merci su strada, di cui era titolare l’odierno
imputato.
I risultati della verifica fiscale sono stati veicolati nel giudizio sia attraverso
l’acquisizione del relativo processo verbale, sia mediante l’escussione dell’isp. V.S., il
quale ha evidenziato come, attraverso l’incrocio dei dati contabili disponibili, sia emerso
che l’imputato aveva omesso di presentare la dichiarazione annuale iva negli anni 2006
e 2008, con un’evasione di tale imposta pari a euro 159.948.97 per il 2006 e a euro
251.508,80 per il 2008.
A tale conclusione gli operanti erano pervenuti acquisendo l’elenco dei clienti e dei
fornitori della ditta individuale di A. ed eseguendo presso gli stessi accessi domiciliari
per l’acquisizione di documentazione, stante anche la carenza documentale emersa
rispetto alla contabilità dell’impresa oggetto di verifica. Sono stati inoltre inviati alcuni
questionari a clienti e fornitori di A., dai quali sono scaturiti gli elevati importi di
imponibile sottratti alla tassazione.
L’accertamento è stato infine completato dalle verifiche eseguite su sette conti correnti
riconducibili all’imputato, venendo a tal riguardo eliminate tutte le operazioni neutre
perché giustificate, oltre gli interessi, le competenze e le spese di tenuta conto e le
somme inferiori a 250 euro, perché ritenute spese per la gestione familiare, per cui,
come ben evidenziato dalla Corte territoriale, la Guardia di Finanza, lungi dal
considerare qualsiasi somma introitata quale ricavo, ha preso in esame ogni singolo
movimento contabile, operando poi i necessari riscontri con gli esiti dei controlli svolti
presso clienti e i fornitori di A..
Orbene, a fronte di un impianto motivazionale non illogico e anzi coerente con gli
elementi probatori acquisiti, le censure difensive risultano manifestamente infondate,
dovendosi in primo luogo evidenziare che la sentenza impugnata non si è limitata a
recepire acriticamente le conclusioni del primo giudice, ma al contrario ne ha
sviluppato il ragionamento di fondo, mediante una più compiuta illustrazione delle
acquisizioni probatorie, tale da rendere non pertinenti le doglianze relative all’indebito
utilizzo nel caso di specie delle presunzioni tributarie o alla presunta inversione
dell’onere della prova, avendo la Corte di appello rimarcato la correttezza del metodo
investigativo, che, si ribadisce, non ha affatto qualificato come ricavo ogni somma
presente sui conti dell’imputato. L’esistenza delle movimentazioni economiche e la
conseguente determinazione dell’imposta evasa sono dunque scaturite da un’analisi
rigorosa e non illogica delle risultanze acquisite, dovendosi in ogni caso sottolineare
che, come più volte precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 7078
del 23/01/2013, Rv. 254853), le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur
non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumono
tuttavia il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice
penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’ esistenza della
condotta criminosa, costituendo altresì affermazione costante della giurisprudenza
civile di questa Corte quella secondo cui “la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, in forza del quale sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui
conti correnti bancari vanno imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella propria
attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile oppure
che sono estranei alla produzione del reddito, ha portata generale, nonostante l’utilizzo
dell’accezione “ricavi” e non anche di quella “‘compensi” ed è applicabile, quindi, non
solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo e professionale (cfr.
ex multis Sez. 5 civ., n. 14041 del 27/06/2011, RV. 618446).
Orbene, nella vicenda in esame, i risultati cui sono approdati gli investigatori, oltre a
essere stati desunti da una lettura razionale delle molteplici verifiche eseguite
all’esterno e all’interno della ditta, non hanno trovato alcuna smentita da parte
dell’imputato, il quale non ha fornito alcun serio elemento, anche solo documentale,
idoneo a suggerire una differente interpretazione dei dati contabili ricostruiti dalla P.G.,
per cui deve concludersi che il giudizio di colpevolezza dell’imputato, almeno con
riferimento all’omessa e residua dichiarazione iva relativa all’anno 2008, non presenta
vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
2. In definitiva, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, il ricorso
proposto nell’interesse di A. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente
onere per il ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del
procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13
giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato
presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”,
si dispone infine che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di €
2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.