Sentenza N. 470 del 1991
Corte Costituzionale
Data generale
19/12/1991
Data deposito/pubblicazione
19/12/1991
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1991
Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo
CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI;
secondo comma, delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e
transitorie del codice di procedura penale, in relazione agli artt.
442 e 443 dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 23
aprile 1991 dalla Corte di appello di Firenze nel procedimento penale
a carico di Clarke Joseph iscritta al n. 419 del registro ordinanze
1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24,
prima serie speciale, dell’anno 1991;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 20 novembre 1991 il Giudice
relatore Enzo Cheli;
Joseph, la Corte di appello di Firenze, con ordinanza del 23 aprile
1991 (R.O. n. 419 del 1991), ha sollevato, in riferimento agli artt.
101, cpv., e 111, primo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 247, primo e secondo comma,
delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale (D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271), in
relazione agli artt. 442 e 443 del codice medesimo.
Il giudice remittente – muovendo dal presupposto che i limiti
propri del giudizio abbreviato, quali delineati nell’art. 247 delle
disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice
di procedura penale, in relazione agli artt. 442 e 443 dello stesso
codice, impedirebbero l’assunzione di nuovi mezzi di prova nella fase
di appello di tale giudizio – dubita della legittimità
costituzionale della disposizione impugnata, sostenendo che la stessa
violerebbe i principi costituzionali che impongono la soggezione dei
giudici soltanto alla legge (art. 101, cpv., della Costituzione) e
l’obbligo della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali
(art. 111, primo comma, della Costituzione).
Secondo l’ordinanza di rimessione, infatti, il divieto di
procedere, nel giudizio abbreviato di appello, alla rinnovazione o
all’assunzione di nuove prove menomerebbe il “potere-dovere” del
giudice di appello di conoscere e valutare tutti gli elementi
necessari ai fini del decidere in conformità alla legge e verrebbe
altresì ad incidere negativamente sull’obbligo di dare corretta
motivazione delle ragioni del decidere. Queste limitazioni sarebbero
tali da giustificare – secondo il giudice a quo – la proposta
questione di legittimità costituzionale.
2. – Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
Generale dello Stato, per chiedere che la questione sia dichiarata
infondata.
Secondo l’Avvocatura sarebbe palese la inapplicabilità nel
giudizio abbreviato di appello della disposizione relativa alla
“rinnovazione dell’istruzione dibattimentale” di cui all’art. 599 del
codice di procedura penale, richiamato dall’art. 443, quarto comma,
dello stesso codice: e ciò in quanto la natura di giudizio “allo
stato degli atti” del rito in questione precluderebbe, come ritenuto
anche dal giudice a quo, tale rinnovazione, non essendosi celebrato
alcun dibattimento nel giudizio di primo grado.
Né l’assetto normativo di tale rito contrasterebbe con i
parametri costituzionali invocati poiché l’ambito di cognizione del
giudice è, nel caso in esame, delimitato dalla legge e il dovere di
motivazione di cui all’art. 111, primo comma, della Costituzione, non
deve considerarsi in astratto, “ma in relazione al contenuto e alla
natura del provvedimento giurisdizionale cui la motivazione
inerisce”.
Pertanto, secondo l’Avvocatura, dalla lacuna probatoria rilevata
dal giudice a quo conseguirebbero soltanto gli effetti che
normalmente si verificano quando le norme processuali vietano
l’introduzione di un mezzo di prova o quando questo si rilevi
insufficiente. Nel caso di specie, con l’adesione al rito abbreviato,
le parti avrebbero “proprio voluto questa cristallizzazione del
materiale probatorio” e accettato gli effetti che ne conseguono.
costituzionale dell’art. 247, primo e secondo comma, delle norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del nuovo codice di
procedura penale (decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), dal
momento che tali disposizioni, in relazione a quelle enunciate negli
artt. 442 e 443 dello stesso codice, impedirebbero, nella fase di
appello del giudizio abbreviato, la rinnovazione anche parziale del
dibattimento mediante la riassunzione di prove già acquisite o
l’assunzione di nuove prove.
Tale limitazione – secondo l’ordinanza di rimessione –
risulterebbe connaturata al giudizio abbreviato, ma, precludendo al
giudice di appello di tale giudizio di conoscere e valutare tutti gli
elementi necessari per la decisione, sarebbe tale da violare i
principi costituzionali posti negli artt. 101, cpv., e 111, primo
comma, della Costituzione, secondo i quali i giudici sono soggetti
soltanto alla legge ed i provvedimenti giurisdizionali devono essere
motivati.
2. – La questione non è fondata, nei termini che verranno di
seguito precisati.
L’art. 247, primo e secondo comma, del decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271, nel regolare la fase transitoria del nuovo
codice di procedura penale in tema di giudizio abbreviato, fa
riferimento alla disciplina ordinaria relativa a tale giudizio e, in
particolare, per quanto concerne la fase dell’appello, all’art. 443
dello stesso codice.
Il quarto comma dell’art. 443 richiama, a sua volta, per tale
fase, “le forme previste dall’art. 599”, dove si regolano i casi e le
modalità delle decisioni di appello che vengono adottate in camera
di consiglio. In tale articolo, al terzo comma, si prevede anche che
“nel caso di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, il giudice
assume le prove in camera di consiglio, a norma dell’art. 603, con la
necessaria partecipazione del pubblico ministero e dei difensori”.
L’art. 603 dispone, infine, la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale, nelle forme della “riassunzione di prove già
acquisite nel dibattimento di primo grado” o dell'”assunzione di
nuove prove”, quando una delle parti lo richieda ed il giudice
ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti
(primo comma), ovvero quando si tratti di prove sopravvenute o
scoperte dopo il giudizio di primo grado (secondo comma), ovvero
quando la rinnovazione sia disposta di ufficio dal giudice nel caso
in cui la ritenga “assolutamente necessaria” (terzo comma).
Attraverso questa serie di rinvii – e, in particolare, in
conseguenza del richiamo operato dal terzo comma dell’art. 599 – la
disciplina posta dall’art. 603 del codice di procedura penale è
destinata, dunque, a valere anche nell’ambito del giudizio
abbreviato, ma pur sempre entro i limiti in cui la stessa possa
risultare compatibile ed adattabile alle caratteristiche proprie di
tale giudizio.
Ora, la connotazione più rilevante di questa forma di giudizio è
data dal fatto che la decisione, su richiesta dell’imputato e con il
consenso del pubblico ministero, viene assunta “allo stato degli
atti” e che non si dà luogo, conseguentemente, all’istruttoria
dibattimentale propria del rito ordinario, regolata dagli artt. 496 e
ss. del codice di procedura penale: di talché non si presenta
neppure possibile, nell’ambito del rito abbreviato, procedere al
rinnovo di una fase che, in tale rito, non sussiste.
Da questo non discende, peraltro, che la disciplina posta
nell’art. 603 non possa, almeno in parte, operare anche nell’ambito
del rito abbreviato, ove il giudice dell’appello ritenga
assolutamente necessario, ai fini della decisione, assumere di
ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti del
giudizio di primo grado (v., in questo senso, sent. Cass., II Sezione
penale, 31 maggio 1991, n. 10022).
Mancano, pertanto, i presupposti interpretativi relativi all’art.
247 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale nonché agli artt. 442 e 443 dello stesso
codice che hanno indotto la Corte di appello di Firenze a sollevare
la questione di cui è causa. Dal che l’infondatezza della stessa
questione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 247, primo e secondo comma,
delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice
di procedura penale, in relazione agli artt. 442 e 443 dello stesso
codice, sollevata dalla Corte di appello di Firenze, in riferimento
agli artt. 101, capoverso, e 111, primo comma, della Costituzione,
con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1991.
Il Presidente: CORASANITI
Il redattore: CHELI
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 19 dicembre 1991.
Il direttore della cancelleria: MINELLI