Sentenza N. 419 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
07/12/1994
Data deposito/pubblicazione
07/12/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
24/11/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare
RUPERTO;
decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo
codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7
agosto 1992, n. 356, promossi con n. 4 ordinanze emesse il 15
dicembre 1993 dalla Corte di cassazione su ricorsi proposti da Lo
Iacono Giovanni, Talia Erminio Claudio, Autelitano Antonio e Catroppa
Dante, iscritte ai nn. 89, 95, 129 e 179 del registro ordinanze 1994
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12, 13 e
15, prima serie speciale, dell’anno 1994;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 6 luglio 1994 il Giudice
relatore Mauro Ferri;
novembre 1993, la Corte di cassazione ha sollevato questione di
legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 13, primo e
secondo comma, 24, secondo comma, e 25, primo e terzo comma, della
Costituzione – dell’art. 25-quater (soggiorno cautelare) del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di
procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità
mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992,
n. 356.
Premette la Corte remittente che i ricorrenti impugnano le
ordinanze con le quali il giudice per le indagini preliminari presso
il Tribunale di Roma, in sede di riesame, ha confermato i decreti del
procuratore nazionale antimafia, con i quali era stato disposto, nei
confronti dei ricorrenti medesimi, ai sensi della norma impugnata, il
soggiorno cautelare. Tale norma attribuisce al procuratore nazionale
antimafia il potere di “disporre il soggiorno cautelare di coloro nei
cui confronti abbia motivo di ritenere che si accingano a compiere
taluno dei delitti indicati nell’articolo 275, comma 3, del codice di
procedura penale avvalendosi delle condizioni previste nell’articolo
416- bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle
associazioni indicate nel medesimo articolo 416- bis” (comma 1). Lo
stesso articolo stabilisce (comma 5) che, entro dieci giorni dalla
notificazione del provvedimento, l’interessato può proporre
richiesta di riesame al giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale di Roma, il quale provvede nei dieci giorni successivi alla
ricezione della richiesta, “sentito il procuratore nazionale
antimafia il quale trasmette senza ritardo gli elementi su cui si
fonda il decreto”. Contro la decisione del giudice è ammesso il
ricorso per cassazione. Peraltro “la richiesta di riesame e il
ricorso per cassazione non sospendono l’esecuzione del decreto”.
Ciò posto, il giudice a quo rileva che la problematica delle
misure di prevenzione è stata più volte affrontata dalla Corte
costituzionale.
Nella lunga serie di pronunce, con l’affermazione della
legittimità costituzionale di “un sistema di misure di prevenzione
dei fatti illeciti”, a difesa “dell’ordinato e pacifico svolgimento
dei rapporti fra i cittadini”, risultano consolidati alcuni
importanti principi, quali l’obbligo della garanzia giurisdizionale
per ogni provvedimento limitativo della libertà personale e il netto
rifiuto del sospetto come presupposto per l’applicazione di siffatti
provvedimenti, in tanto legittimi in quanto motivati da fatti
specifici: norme costituzionali di riferimento, gli articoli 13, 16 e
25, comma 3 (stante il riconosciuto parallelismo, per i dedotti
profili, fra misure di prevenzione e misure di sicurezza), della
Costituzione.
Vengono, in particolare, menzionate al riguardo le sentenze nn. 2
e 11 del 1956 (secondo cui “in nessun caso l’uomo potrà essere
privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa
privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla
legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non
vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le
ragioni”); n. 23 del 1964, in cui la Corte escluse che “le misure di
prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici
sospetti”, richiedendosi invece “una oggettiva valutazione di fatti
.. che siano manifestazione concreta” della proclività
delinquenziale del soggetto “e che siano stati accertati in modo da
escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte
di chi promuove o applica le misure di prevenzione”; e soprattutto la
n. 177 del 1980, nella quale si affermò che “il principio di
legalità in materia di prevenzione .. implica che l’applicazione
della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un
giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie
di pericolosità previste – descritte – dalla legge: fattispecie
destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e,
insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su
questa base può dirsi legalmente fondata”; su questa base, la Corte
dichiarò incostituzionale la norma dell’articolo 1, n. 3, della
legge 27 dicembre 1956 n. 1423, nella parte in cui elencava fra i
soggetti passibili di misure di prevenzione “coloro che, per la
manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di
ritenere che siano proclivi a delinquere”, mentre ritenne legittima
la norma dell’articolo 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975 n. 152,
che prevede la sottoposizione a misure di prevenzione di “coloro che
.. pongono in essere atti preparatori obiettivamente rilevanti,
diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di
uno dei reati” ivi elencati tassativamente, poiché “l’atto
preparatorio consiste in una manifestazione esterna” di rilevabilità
obiettiva, per cui sufficientemente determinata ne risulta la
fattispecie di pericolosità.
In coerenza con le indicate decisioni – prosegue la Corte
remittente – non può non prospettarsi la incostituzionalità del
citato articolo 25-quater sotto vari profili.
Anzitutto quello inerente al principio di legalità, incorporato
negli articoli 13, primo e secondo comma, e 25, terzo comma, della
Costituzione, in quanto la formula legale “coloro nei cui confronti
(il procuratore nazionale antimafia) abbia motivo di ritenere che si
accingano a compiere taluno dei delitti indicati” non sembra
rispondere all’inderogabile esigenza costituzionale
dell’individuazione di una fattispecie determinata, tale da escludere
valutazioni puramente soggettive e da poter formare oggetto di
concreto accertamento giudiziario. Parrebbe infatti che la formula
“abbia motivo di ritenere” offra al procuratore nazionale antimafia
uno spazio di incontrollabile discrezionalità, ancorato ad una
valutazione essenzialmente soggettiva, e ciò tanto più in rapporto
all’estrema genericità dell’indicazione (“si accinga”) della
condotta, apparentemente svincolata da qualsiasi manifestazione
esteriore, cui si riferisce la valutazione anzidetta.
Vi è poi – prosegue il giudice a quo -, non meno rilevante e
forse anche più marcato, il profilo della violazione della garanzia
giurisdizionale, quale prevista dallo stesso articolo 13, secondo
comma (“per atto motivato dell’autorità giudiziaria”), e
necessariamente integrata dal riconoscimento del diritto di difesa,
di cui all’articolo 24, secondo comma, della Costituzione. Invero, la
“garanzia giurisdizionale”, quale requisito di legittimità del
procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, implica una
decisione del giudice conseguente ad accertamento nel contraddittorio
delle parti, che dia spazio anche all’esercizio della difesa. Per
contro, secondo la norma in esame: 1) il potere di disporre il
soggiorno cautelare è attribuito al procuratore nazionale antimafia,
organo non giurisdizionale, in assenza di qualsiasi formalità o
prescrizione procedurale; 2) l’intervento del giudice è previsto
solo in sede di riesame su ricorso, perciò in via meramente
eventuale, comunque in una fase successiva all’adozione del
provvedimento, e oltretutto senza che il ricorso abbia effetti
sospensivi; 3) la decisione del g.i.p., in sede di riesame, segue la
procedura c.d. de plano, sentito il procuratore nazionale antimafia e
in base agli elementi da esso forniti, perciò senza contraddittorio
e senza possibilità di esplicazione del diritto di difesa.
Vi è infine – conclude la Corte di cassazione – un terzo profilo
per cui sembra potersi configurare una illegittimità della norma
considerata, ed è quello che attiene al principio di inderogabilità
del giudice naturale, affermato dall’articolo 25, primo comma, della
Costituzione, in quanto il giudizio di riesame è affidato in
esclusiva al g.i.p. presso il Tribunale di Roma (“tribunale del luogo
ove ha sede il procuratore nazionale antimafia”) per tutto il
territorio nazionale: ciò che, anche per la brevità dei termini
concessi, può rappresentare un’ulteriore e non secondaria
limitazione, sul piano pratico, del diritto di difesa degli
interessati.
2. – È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
dei ministri, concludendo per l’infondatezza della questione.
Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che una lettura della
norma impugnata in armonia con i principi che emergono proprio dalle
sentenze richiamate nelle ordinanze salva la norma stessa dal
sospetto di incostituzionalità.
Non v’è dubbio, anzitutto, che il soggiorno cautelare si inscriva
nel novero delle misure preventive degli illeciti penali, reputate
legittime dal giudice delle leggi.
Il giudizio prognostico demandato al procuratore nazionale
antimafia ha per oggetto non il semplice sospetto, ma alcuni elementi
presuntivi che sono identificabili obiettivamente; il giudice, dal
canto suo, può controllarne la sussistenza nei termini ritenuti
necessari dalla giurisprudenza costituzionale.
In questo senso, prosegue l’Avvocatura, l’art. 25-quater va
interpretato come se fosse una norma analoga all’art. 18 della legge
n. 152 del 1975 (reputato legittimo da questa Corte), in quanto il
pericolo preso in considerazione dal p.n.a. attiene ad un antefatto
che, pur non sfociando necessariamente in un tentativo di reato
penalmente punibile, si pone come “ultima soglia” prima della
configurazione di una fattispecie tentata o consumata di reato. In
altre parole, la fattispecie presa in esame dal p.n.a. è
sufficientemente predeterminata, per cui il controllo (tempestivo)
del giudice interviene su “casi” e non sulla manifestazione di una
discrezionalità pressoché pura. Né è da dubitarsi che il “quasi-reato” previsto dal comma 1 dell’art. 25-quater sia la manifestazione
concreta di una proclività delinquenziale.
Non sarebbe violato, poi, ad avviso dell’Avvocatura, neanche il
parametro dell’art. 13, sotto il profilo dell’intervento
dell'”autorità giudiziaria”. È pur vero che il p.n.a. non è un
organo giurisdizionale in senso stretto, ma è parte dell’ordine
giudiziario (sent. n. 190 del 1970). È del resto controverso, in
dottrina, se il pubblico ministero possa essere annoverato nel
concetto di “autorità giudiziaria” di cui all’art. 13 della
Costituzione: potrebbe avvalorare la conclusione affermativa la
constatazione che il pubblico ministero, seppure nell’ambito di un
codice di procedura penale che gli assegnava una veste ad un ruolo
ben diversi dall’attuale, esercitava in passato dei poteri che
indubbiamente rilevavano quale “atto motivato” o “convalida”
dell’autorità giudiziaria.
Parimenti infondato, inoltre, sarebbe anche il profilo inerente il
diritto di difesa, visto che, sebbene nell’ambito di una procedura de
plano, l’interessato ha la possibilità di esplicare appieno le sue
doglianze sia dinanzi al g.i.p. che in sede di successiva
impugnazione.
Da ultimo – conclude l’interveniente – la competenza radicata
presso il g.i.p. di Roma si giustifica in ragione della necessità di
ricostruire, per quanto possibile, un collegamento funzionale e
territoriale tra l’organo del pubblico ministero (nella fattispecie,
il p.n.a.) e il giudice, collegamento che assicura anche una
tendenziale uniformità d’indirizzo nel sindacato dei giudizi operati
dal medesimo p.n.a. In ogni caso, il giudice risulta pur sempre
precostituito per legge in rapporto alla generalità delle
controversie in materia: non è, del resto, pacifica la tesi secondo
la quale il giudice è “naturale” solo quando è assicurato il
collegamento con il locus commissi delicti.
sostanzialmente identico, dubita, sotto vari profili, della
legittimità costituzionale dell’art. 25-quater del decreto-legge 8
giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7
agosto 1992, n. 356, con il quale è stato introdotto
nell’ordinamento, nell’ambito di una serie di misure di contrasto
alla criminalità mafiosa, l’istituto denominato “soggiorno
cautelare”. Data l’identità delle questioni sollevate, i relativi
giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. – Le censure della Corte di cassazione si incentrano
esclusivamente sul primo e sul quinto comma dell’articolo citato, i
quali rispettivamente prevedono, per quanto qui interessa, che: il
procuratore nazionale antimafia “può disporre il soggiorno cautelare
di coloro nei cui confronti abbia motivo di ritenere che si accingano
a compiere taluno dei delitti indicati nell’articolo 275, comma 3,
del codice di procedura penale avvalendosi delle condizioni previste
nell’articolo 416- bis del codice penale od al fine di agevolare
l’attività delle associazioni indicate nel medesimo art. 416- bis”
(primo comma); entro dieci giorni dalla notificazione del decreto
motivato applicativo della misura, l’interessato “può proporre
richiesta di riesame al giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale del luogo ove ha sede il procuratore nazionale antimafia”;
“il giudice provvede entro dieci giorni dalla ricezione della
richiesta, sentito il procuratore nazionale antimafia il quale
trasmette senza ritardo gli elementi su cui si fonda il decreto”; la
richiesta di riesame e il successivo eventuale ricorso per cassazione
“non sospendono l’esecuzione del decreto” (quinto comma).
Avverso detta normativa la Corte remittente solleva tre distinte
questioni di legittimità costituzionale.
In primo luogo, è prospettata, in riferimento agli artt. 13,
primo e secondo comma, e 25, terzo comma, della Costituzione, la
violazione del principio di legalità ad opera del primo comma della
disposizione impugnata, nella parte in cui detta i presupposti per
l’applicazione della misura. La formula adoperata dal legislatore
(“abbia motivo di ritenere che si accingano a compiere ..”) non
risponderebbe ai requisiti più volte indicati dalla giurisprudenza
costituzionale, in quanto non individua una fattispecie
sufficientemente determinata tale da escludere valutazioni puramente
soggettive da parte dell’autorità competente, finendo così con
l’attribuire a questa uno spazio di incontrollabile discrezionalità.
In secondo luogo, viene denunciata la violazione della garanzia
giurisdizionale, prevista negli artt. 13, secondo comma, e 24,
secondo comma, della Costituzione – cui è subordinata la
legittimità del procedimento di applicazione delle misure di
prevenzione -, che implica l’intervento di un giudice nel rispetto
del principio del contraddittorio tra le parti. La censura in questo
caso finisce con l’investire l’intera sequenza procedimentale
delineata dal legislatore nella normativa impugnata, la quale, ad
avviso del giudice a quo, sarebbe illegittima poiché: a) il potere
di disporre il soggiorno cautelare è attribuito ad un organo non
giurisdizionale, in assenza di qualsiasi procedura; b) l’intervento
del giudice è meramente eventuale, su iniziativa dell’interessato,
la quale peraltro non produce effetti sospensivi della misura; c) la
decisione del giudice è adottata senza contraddittorio e quindi
senza possibilità di esplicazione del diritto di difesa.
Infine, è oggetto di censura anche quella parte del quinto comma
della norma in esame in cui si individua il giudice competente per il
riesame: l’aver accentrato tale giudizio esclusivamente in capo al
giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma
(luogo ove ha sede il procuratore nazionale antimafia), viola, ad
avviso della Corte remittente, il principio del giudice naturale
(art. 25, primo comma, della Costituzione) e determina, anche in
considerazione della brevità dei termini per proporre ricorso,
un’ulteriore limitazione del diritto di difesa.
3.1. – Occorre premettere che, come esattamente ritiene il giudice
a quo, l’istituto in esame (al di là dei dubbi che può suscitare il
nomen iuris adoperato: “soggiorno cautelare”) costituisce
indubbiamente una vera e propria nuova misura di prevenzione, la
quale viene ad aggiungersi, con presupposti e struttura
procedimentale del tutto peculiari, al vigente sistema delle misure
di prevenzione personali, che trova la sua regolamentazione
essenziale nella legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive
modificazioni, nonché nelle leggi 31 maggio 1965, n. 575 e 22 maggio
1975, n. 152.
Va anche aggiunto che l’istituto ha successivamente perso, a
seguito dell’abrogazione – disposta con l’art. 1 della legge 24
luglio 1993, n. 256 – del sesto comma dell’articolo che ne prevedeva
una durata triennale, l’originario carattere temporaneo ed
eccezionale, entrando così in via permanente a far parte
dell’ordinamento giuridico.
L’esame delle questioni va pertanto inquadrato nella complessa
tematica della legittimità costituzionale delle misure di
prevenzione, che ha costituito oggetto di numerose pronunce di questa
Corte, sin dal 1956.
3.2. – Deve altresì preliminarmente osservarsi che l’istituto,
così com’è concretamente disciplinato, integra senza dubbio – ad
avviso di questa Corte – una restrizione della libertà personale e
non una mera limitazione della libertà di circolazione e soggiorno,
e cade, quindi, sotto il disposto dell’art. 13 della Costituzione
(esattamente invocato dal remittente) e non già nell’ambito di
operatività dell’art. 16 della Carta.
Partendo dalla considerazione che i due precetti costituzionali
ora richiamati presentano una diversa sfera di operatività, nel
senso che la libertà di circolazione e soggiorno non costituisce un
mero aspetto della libertà personale, ben potendo quindi
configurarsi istituti che comportano un sacrificio della prima ma non
per ciò solo anche della seconda (cfr. sentt. nn. 2 del 1956, 45 del
1960, 68 del 1964, ord. 384 del 1987), questa Corte ha individuato
nella “degradazione giuridica” dell’individuo l’elemento qualificante
della restrizione della libertà personale, chiarendo che “per aversi
degradazione giuridica .. occorre che il provvedimento provochi una
menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della
persona, tale da poter essere equiparata a quell’assoggettamento
all’altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio
dell’habeas corpus” (cit. sent. n. 68 del 1964). Sulla base di detti
principi, che devono intendersi qui pienamente ribaditi, mentre si è
ritenuto (con le citate sentenze) che non presentasse tali caratteri
l’ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio (sia in quanto
non suscettibile di coercitiva esecuzione, sia poiché l’intimato,
una volta raggiunta la nuova sede, è libero di trasferirsi altrove,
tranne che nel luogo dal quale è stato allontanato), con la sentenza
n. 11 del 1956 la Corte rilevò, invece, che l’istituto
dell’ammonizione (disciplinato negli artt. da 164 a 176 del Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931) concretava una
restrizione della libertà personale, in quanto si risolveva appunto
in una sorta di degradazione giuridica in cui taluni individui
venivano a trovarsi per effetto della sorveglianza di polizia cui
erano sottoposti, attraverso tutta una serie di obblighi di fare e di
non fare, tra cui quello di non uscire prima e di non rincasare dopo
di una certa ora.
Ciò posto, non può negarsi che anche l’istituto ora in esame
presenti, nel complesso delle sue prescrizioni (obbligo di soggiorno
in una località determinata – peraltro normalmente, anche se non
necessariamente, diversa da quella di residenza o di dimora abituale
-; serie di prescrizioni che, in assenza di specifiche indicazioni,
non possono che essere quelle tipiche delle ordinarie misure di
prevenzione), un contenuto afflittivo tale da integrare senz’altro
una menomazione della dignità della persona e che, quindi, ricada
pienamente sotto la sfera precettiva dell’art. 13 della Costituzione.
4.1. – Passando all’esame delle censure nell’ordine in cui sono
prospettate dal giudice remittente, va per prima affrontata quella
relativa alla presunta violazione del principio di legalità ad opera
del primo comma della disposizione impugnata, là dove delinea i
presupposti applicativi della misura.
La questione non è fondata nei sensi di seguito esposti.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la
legittimità costituzionale delle misure di prevenzione – in quanto
limitative, a diversi gradi, della libertà personale – è
necessariamente subordinata, innanzitutto, all’osservanza del
principio di legalità, individuato nell’art. 13, secondo comma,
della Costituzione, nonché nell’art. 25, terzo comma, della Carta
medesima, nel quale, pur se riferito espressamente alle “misure di
sicurezza”, è stata solitamente rinvenuta la conferma di tale
principio anche per la categoria delle misure di prevenzione, data
l’identità del fine (prevenzione dei reati) perseguito da entrambe
(ritenute due species di un unico genus), aventi a presupposto la
pericolosità sociale dell’individuo.
Con la sentenza n. 23 del 1964, questa Corte ebbe modo di
affermare – esplicitando principi già insiti in precedenti pronunce
– che dalla natura e dalle finalità delle misure di prevenzione
discende che “nella descrizione delle fattispecie il legislatore
debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui
procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura
criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi,
corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente
identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore
nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione,
rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene”.
Nella sentenza n. 177 del 1980 si sottolineò ulteriormente
l’esigenza che “l’applicazione della misura, ancorché legata, nella
maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il
presupposto necessario in ‘fattispecie di pericolosità’, previste –
descritte – dalla legge”; per cui l’accento cade sul sufficiente o
insufficiente grado di determinatezza della descrizione legislativa
di tali fattispecie (destinate a costituire il parametro
dell’accertamento del giudice), descrizione che “permetta di
individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto
possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso
rivolto all’avvenire”. E si aggiunse che la descrizione di tali
condotte non può non involgere il riferimento, esplicito o
implicito, ai reati, o alle categorie di reati, della cui prevenzione
si tratta, per cui essa acquista tanto maggiore determinatezza quanto
più consenta di dedurre dal verificarsi delle condotte indicate la
ragionevole previsione che quei reati potrebbero venir consumati.
4.2. – Nel ribadire pienamente i principi richiamati, va osservato
che la norma impugnata, pur potendo essere formulata più
chiaramente, si presta, tuttavia, ad essere interpretata in modo
aderente ai principi medesimi.
In primo luogo, la formula adoperata soddisfa l’esigenza della
tassativa indicazione dei reati che si intendono prevenire, mediante
il rinvio a quelli, di particolare gravità, indicati nell’art. 275,
terzo comma, del codice di procedura penale. Né assume rilevanza, in
senso contrario, il fatto che trattasi di una pluralità di reati
eterogenei. Va anzi sottolineato che la norma impugnata, là dove
richiede che i soggetti interessati si accingano a compiere tali
delitti “avvalendosi delle condizioni previste nell’art. 416- bis del
codice penale od al fine di agevolare l’attività delle associazioni
indicate nel medesimo art. 416- bis”, introduce un elemento
unificante delle varie figure delittuose richiamate e nel contempo
contiene il riferimento ad ulteriori modalità o finalità della
condotta criminosa, che indubbiamente contribuiscono ad una migliore
ricostruzione della fattispecie di pericolosità.
In secondo luogo, costituisce ormai un dato da tempo acquisito
nella materia de qua, sia, come si è visto, nella giurisprudenza di
questa Corte, sia a livello normativo (cfr. l’art. 1 della legge n.
1423 del 1956, come sostituito dalla legge 3 agosto 1988, n. 327),
quello secondo cui il giudizio prognostico deve fondarsi sulla
sussistenza di elementi di fatto, in ossequio al principio del
ripudio del mero sospetto come presupposto per l’applicazione delle
misure in esame. Ne deriva che l’omesso riferimento, nella norma
censurata, a tale requisito non impedisce che esso possa – e debba –
considerarsi implicito nella stessa.
In conclusione, la formula adoperata dal legislatore consente di
interpretare la norma nel senso che la valutazione del procuratore
nazionale antimafia debba ancorarsi a fatti e comportamenti
oggettivi, che egli ragionevolmente ritenga, sulla base di adeguata
motivazione, strumentalmente collegati alla commissione di una o più
delle fattispecie criminose tassativamente indicate: ciò è
sufficiente – analogamente a quanto ritenne questa Corte nella citata
sentenza n. 177 del 1980 in relazione alla formula di cui all’art.
18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152 – a far sì che la norma
medesima sfugga ad una pronuncia di incostituzionalità.
5.1. – La seconda censura prospettata dalla Corte di cassazione
attiene, come s’è detto, alla violazione della garanzia
giurisdizionale, che trova la sua radice nel disposto, intimamente
collegato, degli artt. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, della
Costituzione; essa investe nel suo complesso la struttura
procedimentale dettata nel primo e nel quinto comma della norma
impugnata.
La questione è fondata.
Accanto all’osservanza del principio di legalità, la
giurisprudenza di questa Corte nella materia in esame – già in gran
parte più volte richiamata – ha costantemente individuato anche nel
rispetto della garanzia giurisdizionale l’altro indefettibile
requisito, del resto connesso al primo, della legittimità delle
misure di prevenzione.
Nella sentenza n. 11 del 1956 si è affermato che “in nessun caso
l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa
privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla
legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non
vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le
ragioni”; con le sentenze nn. 3 del 1974 e 113 del 1975 si è esclusa
la illegittimità costituzionale della reiterazione della misura
della sorveglianza speciale (art. 11 della legge n. 1423 del 1956),
in quanto non automatica, ma subordinata ad un provvedimento del
giudice emanato all’esito di un procedimento rispettoso dei principi
del contraddittorio e del diritto di difesa; con le sentenze nn. 53
del 1968, 76 del 1970, 168 del 1972 e 69 del 1975 si è confermata
l’esigenza che, con riguardo a tutte le misure che incidono sulla
libertà personale, sia garantito al soggetto il diritto allo
svolgimento di una integrale difesa; infine, nella sentenza n. 177
del 1980 si è ancora una volta ribadita l’indefettibilità
dell’intervento del giudice nel procedimento per l’applicazione delle
misure di prevenzione, con le necessarie garanzie difensive.
Dalle anzidette pronunce deve trarsi la conseguenza non solo che
il pubblico ministero (organo non giurisdizionale, ma pur sempre
autorità giudiziaria) possa – com’è ovvio – assumere la veste di
semplice soggetto proponente la misura (come è del resto previsto
nella rimanente normativa in materia), ma anche che deve altresì
ritenersi compatibile con i richiamati principi una disciplina che
attribuisca ad esso il potere di disporre la misura medesima, purché
però con carattere di provvisorietà, e quindi esclusivamente
nell’ambito di un procedimento che, entro brevi termini, conduca
necessariamente all’adozione del provvedimento definitivo da parte di
un giudice, con il rispetto delle garanzie della difesa.
Ciò posto, appare evidente come la normativa impugnata non
risponda assolutamente ai delineati requisiti, e si ponga, pertanto,
in insanabile contrasto con gli artt. 13 e 24 della Costituzione.
Basta osservare al riguardo che, in base ad essa (la quale
costituisce, d’altronde, un unicum nel vigente sistema di
prevenzione, che riserva all’organo giurisdizionale anche l’adozione
del provvedimento in via provvisoria: v. art. 6 della legge n. 1423
del 1956 e succ. mod.), il procuratore nazionale antimafia dispone la
misura del “soggiorno cautelare” in via definitiva, come chiaramente
discende dal fatto che il provvedimento è soggetto soltanto ad un
riesame meramente eventuale da parte del giudice, su iniziativa del
soggetto interessato; né assume, ovviamente, alcuna rilevanza in
contrario la temporaneità della misura (che non può avere durata
superiore ad un anno), essendo evidente che la durata della misura
non ha nulla a che vedere con la natura, potenzialmente definitiva,
del provvedimento che la dispone.
5.2. – L’accertato vizio di costituzionalità inficia – com’è
evidente – in radice l’iter procedimentale dell’istituto, così come
delineato, nella sua sequenza essenziale (adozione del provvedimento
– riesame su ricorso), negli impugnati commi primo e quinto
dell’articolo in esame.
Ma ciò non comporta che ne consegua inevitabilmente la pura e
semplice caducazione dell’anzidetta disciplina – che finirebbe col
travolgere integralmente l’istituto -, ove sia possibile rinvenire
nell’ordinamento una soluzione che, riconducendo la disciplina stessa
nell’alveo della legittimità, assicuri nel contempo la perdurante
operatività di uno strumento di prevenzione della criminalità
mafiosa e, quindi, di tutela di interessi di primario rilievo
costituzionale.
Ritiene al riguardo questa Corte che tale soluzione vi sia, e
consista nel ricondurre il procedimento in esame, con il necessario
correttivo di cui si dirà, nell’ambito della disciplina processuale
dettata dall’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive modificazioni. Detta disciplina è quella ordinaria del vigente
sistema di prevenzione, nel quale si inserisce l’istituto in esame,
per cui il riferimento ad essa discende anche dall’applicazione del
normale criterio ermeneutico della riespansione della norma generale
in caso di venir meno di quella speciale.
Ne consegue che alla emanazione del provvedimento motivato con cui
il procuratore nazionale antimafia dispone il “soggiorno cautelare”,
dato il suo necessario carattere di provvisorietà, debba
contestualmente associarsi la richiesta di adozione del provvedimento
definitivo al tribunale indicato nel citato art. 4 della legge n.
1423 del 1956, cui seguirà la procedura di cui ai commi quinto e
seguenti del medesimo articolo 4. Poiché, tuttavia, occorre, in
conseguenza della natura provvisoria del provvedimento, per di più
incidente sulla libertà personale, che la decisione del giudice
intervenga entro un termine perentorio, il termine di trenta giorni
indicato nella norma summenzionata deve necessariamente operare, in
questo caso, a pena di decadenza del provvedimento medesimo.
5.3. – In conclusione, ferma rimanendo la possibilità di
intervento del legislatore – beninteso nel rispetto dei richiamati
principi costituzionali -, va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 25-quater, primo comma, del d.-l. n. 306 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 356 del 1992,
nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia
può disporre, con decreto motivato, il soggiorno cautelare soltanto
in via provvisoria, con l’obbligo di chiedere contestualmente
l’adozione del provvedimento definitivo al tribunale, ai sensi
dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive
modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza, nei termini e
con le procedure previste dall’anzidetto art. 4 della legge medesima;
a ciò consegue necessariamente la dichiarazione di illegittimità
costituzionale del quinto comma del medesimo articolo 25-quater. Ogni
altra censura prospettata dal remittente resta assorbita.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi,
a) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 25-quater, primo
comma – nella parte in cui definisce i presupposti per l’applicazione
dell’istituto -, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche
urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di
contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni,
dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, in riferimento agli artt. 13,
primo e secondo comma, e 25, terzo comma, della Costituzione,
sollevata dalla Corte di cassazione con le ordinanze in epigrafe;
b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
25-quater, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,
nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia
può disporre, con decreto motivato, il soggiorno cautelare soltanto
in via provvisoria, con l’obbligo di chiedere contestualmente
l’adozione del provvedimento definitivo al tribunale, ai sensi
dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive
modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza, nei termini e
con le procedure previste dall’anzidetto art. 4 della legge medesima;
c) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
25-quater, quinto comma, del decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306,
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 novembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: FERRI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 7 dicembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA