Sentenza N. 102 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
19/06/1981
Data deposito/pubblicazione
19/06/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
29/04/1981
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN –
Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO
ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
e 11 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (testo unico delle
disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali), promossi con le ordinanze emesse
dal giudice del lavoro del tribunale di Rovigo il 4 aprile 1975, dal
tribunale di Genova il 30 dicembre 1975, dal tribunale di Rovigo il
20 agosto 1976, dalla Corte di cassazione il 30 giugno 1976, dal
tribunale di Arezzo il 14 ottobre 1976, dal pretore di Savona il 21
giugno 1977, dal pretore di Genova il 17 giugno 1977, dal pretore di
Avellino l’11 luglio 1977, dal pretore di Pisa il 1 luglio 1977, dal
tribunale di Potenza il 2 febbraio 1978, dalla Corte di cassazione il 5
aprile 1978, dal pretore di Savona il 16 giugno 1978, dal pretore di
Genova il 26 marzo 1979, dal pretore di Venezia il 16 settembre 1977,
dal pretore di Cagliari il 17 maggio 1979, dal pretore di Savona il 19
giugno 1979 e dal pretore di Roma il 22 gennaio 1979, rispettivamente
iscritte al n. 235 del registro ordinanze 1975, ai nn. 206, 658 e 667
del registro ordinanze 1976, ai nn. 7, 357, 368, 446 e 580 del
registro ordinanze 1977, ai nn. 210, 450 e 513 del registro ordinanze
1978 ed ai nn. 423, 497, 566, 644 e 662 del registro ordinanze 1979 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 188 del 1975,
nn. 112, 333 e 340 del 1976, nn. 51, 272 e 320 del 1977, nn. 53, 186 e
347 del 1978 e nn. 17, 196, 237, 265, 304 e 325 del 1979.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale per
l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, della S.p.a ICOMAR e
della S.p.a. Aziende agricole Piave Isonzo;
udito nell’udienza pubblica del 18 febbraio 1981 il Giudice
relatore Brunetto Bucciarelli Ducci;
uditi gli avvocati Mario Lamanna per l’INAIL ed Ermanno
Belardinelli per la Soc. ICOMAR.
1. – Con dieci ordinanze emesse rispettivamente dal giudice del
lavoro del tribunale di Rovigo (r.o. 235/75), dai tribunali di Genova
e Rovigo (r.o. 206 e 658/76) e dai pretori di Savona (r.o. 357/77,
513/78 e 644/79), Avellino (r.o. 446/77), Pisa (r.o. 580/77),
Cagliari (r.o. 566/79) e Roma (r.o. 662/79) è sollevata, in
riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, della Costituzione,
la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto
degli artt. 11 e 10 del t.u. sugli infortuni sul lavoro (d.P.R. 30
giugno 1965, n. 1124), nella parte in cui esclude l’esercizio del
diritto di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro
dell’infortunato, ove la responsabilità penale dell’imprenditore o di
un suo dipendente sia stata esclusa (in tutto o in parte) in un
giudizio penale cui l’INAIL sia rimasto estraneo, perché non posto in
condizione di intervenirvi. In tutte le predette ordinanze viene
prospettato il dubbio che gli effetti preclusivi del giudicato penale
ledano il diritto di azione e di difesa dell’Istituto che è rimasto
estraneo a quel processo.
I giudici a quibus premettono che nel vigente sistema, l’esonero
dalla responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni
sul lavoro non opera a carico di coloro che abbiano riportato condanna
penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato, come pure
quando la sentenza penale stabilisca che l’infortunio sia imputabile
ai dipendenti del datore di lavoro. Nei casi menzionati l’INAIL, anche
se deve comunque erogare le indennità previste dalla legge, ha però
diritto di regresso per le somme così pagate verso le persone
civilmente responsabili. Di conseguenza tale diritto viene ad essere
condizionato alla sorte di un procedimento penale cui l’Istituto sia
rimasto estraneo.
Nelle ordinanze di rimessione si rileva, a questo punto, che a
seguito delle dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale
degli artt. 25,27,28 c.p.p. – per effetto delle quali l’autorità del
giudicato penale nel giudizio di danno o in altri giudizi civili non
può operare nei confronti di coloro che rimasero estranei al processo
penale (sentenze della Corte nn. 165/1975,99/1973 e 55/1971) – sorge
un forte dubbio sulla legittimità costituzionale delle impugnate
disposizioni del t.u. 1124 del 1965, giacché le medesime
contraddicono, in subiecta materia, quei principi di tutela del
diritto di azione e di difesa e di contraddittorio che hanno
determinato l’accoglimento, da parte della Corte costituzionale, delle
censure mosse ai predetti articoli del codice di procedura penale.
Ad avviso dei giudici a quibus, pur non potendo dette sentenze
operare direttamente nei rapporti che subordinano il diritto di
regresso dell’INAIL all’esito del processo penale, tuttavia le ragioni
che hanno indotto la Corte a limitare gli effetti del giudicato penale
salvaguardando, a tutela del diritto costituzionale di difesa, gli
estranei al processo stesso, valgono egualmente a dimostrare la
denunciata illegittimità delle norme oggi impugnate.
Alcune delle ordinanze predette prospettano profili particolari di
illegittimità, come le ordinanze nn. 235/75 e 658/76, le quali
censurano che ove in sede penale sia stata accertata una lesione
personale grave (art. 583, n. 1, c.p.) ma non produttiva di inabilità
permanente (art. 583, n. 2, c.p.), quest’ultima deve essere parimenti
esclusa in sede civile, anche quando le prove acquisite dovrebbero
indurre a dichiararne l’esistenza; o come le ordinanze nn. 206/76 e
357/77 e, rispettivamente, 513 del 1978, le quali denunciano che ove vi
sia stata archiviazione, o sentenza istruttoria di proscioglimento,
l’azione civile di regresso sarebbe preclusa, mancando la sentenza
penale di condanna richiesta dall’impugnato art. 10 t.u. citato, pur
non avendo avuto l’Istituto alcuna possibilità di far valere in sede
penale i propri interessi; o, infine, come l’ordinanza n. 580/77, la
quale censura l’impossibilità del giudice civile di accertare
liberamente l’infortunio sul lavoro, ostandovi il quinto comma
dell’art. 10 citato, qualora all’imputato sia stato concesso il
perdono giudiziale in sede istruttoria considerato non parificabile a
quello concesso in sede dibattimentale.
2. – Con cinque ordinanze di rimessione, emesse rispettivamente
dalla Corte di cassazione (r.o. 667/76 e 450/78), dai tribunali di
Arezzo e di Potenza (r.o. 7/77 e 210/78) e dal pretore di Venezia
(r.o. 497 del 1979) è stata, invece, sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dello
stesso combinato disposto dei citati artt. 11 e 10 t.u. n. 1124 del
1965, secondo cui il datore di lavoro, civilmente responsabile di un
infortunio sul lavoro, rimane soggetto imprescindibilmente agli
effetti della sentenza penale di condanna di un suo dipendente nel cui
procedimento non abbia potuto intervenire in veste di responsabile
civile, e perciò pronunciata tra terzi, con la preclusione per il
giudice civile, chiamato a pronunciarsi sull’azione di regresso
dell’INAIL, di una valutazione dei fatti eventualmente diversa da
quella effettuata in sede penale.
I giudici a quibus osservano che le norme impugnate contrastano con
il principio di eguaglianza e di difesa, in quanto determinano effetti
pregiudizievoli per un soggetto che, non avendo, in ipotesi, potuto
partecipare al processo penale nel quale è stato accertato un fatto
che costituisce il fondamento per la sua responsabilità civile, non
è stato posto in grado di difendersi facendo valere in
contraddittorio le sue istanze. Soggiungono che le medesime ragioni
che hanno indotto la Corte costituzionale a dichiarare la parziale
illegittimità degli artt. 27 e 28 c.p.p. – nella parte in cui
producevano autorità di cosa giudicata anche nei confronti del
responsabile civile che fosse rimasto estraneo al giudizio penale
perché non posto in condizione di parteciparvi – dovrebbero valere a
dimostrare l’illegittimità, per contrasto con l’art. 24 Cost., nelle
norme denunciate, che determinano, in subiecla materia, i medesimi
effetti. La violazione del principio d’eguaglianza deriverebbe dalla
ingiustificata diversità di disciplina, escludendosi l’applicazione
dei principi generali nella materia particolare dell’azione di
regresso dell’INAIL.
Alcune delle ordinanze hanno risolto negativamente il quesito se
non potesse prevalere sul tenore delle norme impugnate il principio
affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza che ha dichiarato
la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 27 c.p.p.,
osservando che vi osta l’autonomia forza giuridica delle disposizioni
censurate, facenti parte del t.u. degli infortuni sul lavoro.
L’ordinanza n. 450/78 della Cassazione prospetta l’esigenza di una
reductio ad legitimitatem anche del comma quinto dell’art. 10 t.u.
1965, argomentando che – una volta eliminata l’efficacia vincolante
della decisione penale nei sensi predetti – occorrerebbe pur sempre
poi superare la tassatività delle ipotesi previste dalla disposizione
sopracitata, per consentire, da parte del giudice civile, un autonomo
accertamento del dato reato, come presupposto dell’azione di regresso.
3. – Con due ordinanze del pretore di Genova (r.o. 368/77 e
423/79) è denunciato, infine, lo stesso combinato disposto degli
artt. 10 e 11 del citato t.u. n. 1124/1965, nella parte in cui
subordina l’azione di regresso dell’INAIL all’esito di un processo
penale cui esso non può partecipare, perché sarebbe esclusa in
diritto la possibilità dell’Istituto di costituirsi parte civile.
Si osserva da parte del giudice a quo che tale efficacia del
giudicato penale, e l’impossibilità dell’INAIL di far sentire le sue
istanze in quella sede, contrasterebbero, oltreché con il diritto di
azione e di difesa, tutelati dall’art. 24 Cost. con gli artt. 3, primo
e secondo comma, e 27 Cost., per l’ingiustificata posizione di
vantaggio in cui verrebbe a trovarsi l’imputato di siffatti reati
rispetto ai soggetti sottoposti a procedimento penale per gli altri
tipi di reato. Si assume, invero, che è proprio, in generale, della
parte civile la funzione di concorrere all’accertamento della verità,
non partecipando essa al processo per esclusivi fini civilistici.
Invero dalla partecipazione della parte civile consegue un certo
equilibrio nello svolgimento del processo penale; equilibrio che
invece verrebbe a mancare in questi tipi di procedimenti originati da
infortuni sul lavoro. Secondo le ordinanze di rimessione, l’unico
soggetto titolare di una posizione sostanzialmente corrispondente a
quella della parte civile sarebbe l’INAIL che però non può assumere
tale veste, mentre tale diritto è attribuito all’infortunato o ai
suoi eredi il cui diritto risarcitorio sarebbe comunque garantito
dalla disciplina dell’assicurazione obbligatoria. Di qui la lesione
degli invocati artt. 27, 3, primo e secondo comma, Cost., per
l’ingiustificata posizione di vantaggio che ne deriverebbe a favore di
siffatti imputati e per la maggiore difficoltà di vincere la
presunzione di non colpevolezza.
4. – Si è costituito nei giudizi introdotti con le ordinanze
illustrate sub 1) il presidente dell’INAIL, rappresentato e difeso
dagli avvocati Vincenzo Cataldi, Massimo Paolo Ungaro e Mario Lamanna,
con atti depositati il 4 agosto 1975, 18 maggio 1976, 4 gennaio 1977,
24 ottobre 1977, 13 dicembre 1977, 14 marzo 1978, 6 febbraio 1979, 16
ottobre 1979, 26 novembre 1979, 17 dicembre 1979, dichiarando di voler
assumere un atteggiamento di imparzialità sulla questione di fondo,
per la quale l’Istituto attende in definitiva un chiarimento
risolutivo da parte della Corte.
Autonome argomentazioni, in linea con l’ipotesi di illegittimità
della normativa denunciata, svolge invece l’INAIL in riferimento alla
ordinanza n. 357 del 1977.
Sostiene infatti in quel caso che ove fosse esatta la tesi del
giudice a quo – prospettata come accolta dalla Corte costituzionale
nella sentenza 165/1975 – secondo cui l’Istituto non può costituirsi
parte civile nel processo penale contro il datore di lavoro (processo
che nella specie non c’è nemmeno stato), in tal caso le note censure
mosse agli impugnati artt. 10 e 11 citato t.u., sarebbero fondate e
rilevanti (atto di costituzione del 24 ottobre 1977).
Quanto alla questione particolare posta dalla ordinanza n.580/77
(concessione del perdono giudiziale in istruttoria), sembra all’INAIL
che “i dubbi di legittimità costituzionale possano essere seriamente
avanzati” nei confronti della norma impugnata, che preclude
all’Istituto di partecipare al processo penale, per la prospettata
violazione degli artt. 24 e 3 Cost. Tale dubbio diventa certezza di
illegittimità costituzionale delle norme denunciate, nelle deduzioni
relative al procedimento originato dall’ordinanza 523/78, pronunciata
dal pretore di Savona investito dall’azione di regresso per
l’infortunio causato da un dipendente del datore di lavoro prosciolto
con sentenza istruttoria perché il fatto non costituisce reato.
Osserva infatti questa volta la difesa dell’Ente che, non essendo
l’INAIL “legittimato a costituirsi parte civile nel processo contro il
datore di lavoro o i suoi dipendenti” accade, “in patente contrasto
con l’art. 24 Cost.”, che l’azione di regresso sia “subordinata
all’esito di un altro giudizio cui l’Istituto stesso non può
partecipare”.
Nel caso, del tutto particolare, di cui all’ordinanza n. 566 del
1979, l’Istituto eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della
questione sollevata per difetto assoluto di rilevanza. Nella specie
taluni dipendenti di un datore di lavoro erano stati condannati in
primo grado per omicidio colposo in danno di altro dipendente defunto
per infortunio sul lavoro, assolti dubitativamente in appello, e
prosciolti definitivamente in Cassazione per prescrizione del reato.
Pertanto, ad avviso dell’INAIL, il pretore di Cagliari, in chiara
applicazione del quinto comma dell’art. 10 cit. t.u., avrebbe potuto
liberamente valutare ex novo il fatto ai fini dell’azione di regresso
avanzata contro i suddetti e contro il datore di lavoro. Nel merito
l’Istituto si rimette alla “decisione chiarificatrice” della Corte in
ordine alla prospettata questione, già sopra enunciata in termini
generali.
5. – Anche nei giudizi originati dalle ordinanze illustrate sub 2)
si è costituito il presidente dell’INAIL, rappresentato e difeso
dagli avvocati Vincenzo Cataldi, Massimo Paolo Ungaro, Lucio Mancini e
Mario Lamanna, con atti di deduzioni depositati il 7 febbraio e 15
marzo 1977, il 20 luglio 1978, il 2 gennaio e il 18 settembre 1979,
concludendo per l’infondatezza delle questioni sollevate e
rimettendosi, peraltro, alla decisione della Corte in “posizione di
imparziale remissività” negli atti relativi ai procedimenti
conseguiti alle ordinanze 667/1976 e 450/1978.
La difesa dell’Istituto osserva, relativamente alle questioni
sollevate dalla Corte di cassazione (con le ordinanze da ultimo
indicate) che occorre verificarne in primo luogo la rilevanza, posto
che il giudice a quo non avrebbe dovuto applicare direttamente le
norme impugnate ma annullare la sentenza della Corte d’appello, unico
giudice chiamato, nella specie, ad avviso dell’INAIL, ad applicare le
norme denunciate.
Nel merito viene affermato che l’art. 10 è stato già esaminato
dalla Corte costituzionale con la sentenza 22 del 1967, con la quale
ne è stata estesa la efficacia, disponendosi che il datore di lavoro
dovesse rispondere civilmente anche per i casi di condanna
irrevocabile di dipendenti non incaricati della direzione o
sorveglianza del lavoro. Onde la possibilità di affermare la piena
legittimità della disciplina di diritto sostanziale della
responsabilità civile del datore di lavoro in subiecta materia, e del
diritto di regresso dell’INAIL. Per quanto attiene alle note citate
sentenze della Corte dichiarative della parziale illegittimità
costituzionale degli artt. 25, 27, 28 c.p.p., la difesa dell’Ente
svolge le medesime argomentazioni già riportate sub 4).
6. – L’INAIL si è ugualmente costituito in entrambi i giudizi
introdotti dalle ordinanze illustrate sub 3), rappresentato e difeso
dagli avvocati Vincenzo Cataldi, Massimo Paolo Ungaro e Mario Lamanna,
con atti di deduzioni depositati, rispettivamente, il 24 ottobre 1977
ed il 1 agosto 1979, rimettendosi alla decisione chiarificatrice di
questa Corte, per quanto attiene alla denunciata violazione degli
artt. 3 e 27 Cost., e prospettando l’eventualità della fondatezza
della questione in riferimento all’art. 24 Cost.
Osserva invero la difesa dell’Istituto che le norme impugnate
potrebbero ledere il principio di azione di cui all’art. 24 Cost. in
quanto prevedono, come presupposto per l’esercizio di un’azione civile
di regresso da parte dell’INAIL, l’avvenuta qualificazione di un fatto
come reato in un processo nel quale l’Istituto non si sia trovato ad
essere parte.
In ordine alla prospettata violazione degli artt. 3 e 27 Cost., la
difesa dell’Ente rileva che le ordinanze di rimessione hanno supposto
come dimostrata l’impossibilità dell’INAIL di costituirsi parte
civile in tali processi richiamandosi alla sentenza n. 165/1975 della
Corte costituzionale, mentre non sembrerebbe che ciò risulti da tale
decisione, né da una giurisprudenza costante o da dottrina uniforme.
7. – In alcuni procedimenti si sono costituite anche le parti
private. In quello introdotto con l’ordinanza n. 357/77 (ved. sopra
sub 1) si è costituita la S.p.A. ICOMAR, rappresentata e difesa dagli
avvocati Gastone Morelli ed Ermanno Belardinelli, con atto di
deduzioni depositato il 22 ottobre 1977, chiedendo dichiararsi
l’infondatezza della questione sollevata dal pretore di Savona su
eccezione proposta dall’Istituto ricorrente in quella sede,
nell’esercizio del diritto di regresso.
La difesa della parte privata osserva che la censura formulata va
inquadrata in una ampia visione della disciplina sostanziale della
assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e del noto
rapporto trilatero cui essa dà luogo. Ad avviso della ICOMAR
l’assicurazione antinfortunistica esonera l’imprenditore per le
responsabilità da infortunio, salvi i casi eccezionali nei quali essa
perdura per effetto dell’accertata colpa penale del datore di lavoro o
dei suoi dipendenti, onde la netta distinzione tra diritto generale di
surroga, ricollegantesi all’art. 1916 cod. civ., e diritto di
regresso, che suppone la prova della colpevolezza, la cui ratio va
individuata nell’art. 2087 c.c.
Così inquadrato l’istituto, ne deriverebbe che le limitazioni
poste dal legislatore al diritto di regresso rappresentano una
particolare disciplina di diritto sostanziale, che prescinde
totalmente dai rapporti tra giudicato penale ed azione risarcitoria –
e dagli insegnamenti in proposito della Corte costituzionale – come
sarebbe confermato dal quarto comma del citato art. 10 che deroga ai
principi vigenti quando “per la punibilità del fatto dal quale
l’infortunio è derivato, sia necessaria la querela della persona
offesa”. Pertanto la difesa della ICOMAR aderisce alla tesi secondo
cui l’azione di risarcimento e di regresso è stata subordinata dal
legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità politica, ad una
“condizione obbiettiva di proponibilità”, individuata in una sentenza
penale di condanna nei confronti del datore di lavoro e dei suoi
dipendenti. Dalla formulazione letterale del secondo comma dell’art.
11 citato t.u. – secondo cui “la sentenza che accerta la
responsabilità civile a norma del precedente articolo è sufficente a
costituire l’Istituto assicuratore in credito verso la persona
civilmente responsabile per le somme indicate nel comma precedente” –
si ritiene di poter dedurre che il diritto di regresso
dell’assicuratore sorge propriamente con la sentenza penale di
condanna.
Da ciò deriverebbe l’infondatezza della questione proposta
perché l’accertamento della colpa penale, producendo la perdita di un
beneficio altrimenti spettante all’imprenditore e costituendo
presupposto “di fatto” del diritto di regresso, costituisce un
elemento oggettivo la cui formazione non deve necessariamente attuarsi
attraverso il contraddittorio delle parti. Onde l’estraneità alla
normativa denunciata dei principi consacrati nell’art. 24, primo e
secondo comma, della Costituzione.
Anche nel procedimento originato dall’ordinanza 497/79 (ved.
sopra sub 2), si è costituita in giudizio la ditta “Aziende agricole
Piave Isonzo” S.p.a., rappresentata e difesa dagli avvocati Guido
Levis e Giorgio Franco, con atto di deduzioni depositato il 6 ottobre
1977, chiedendo dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art.
11, citato t.u. 1124 del 1965, nella parte in cui dichiara il datore
di lavoro vincolato nei confronti dell’INAIL in base ad una sentenza
penale pronunciata in un giudizio in cui non sia stato citato a
partecipare quale responsabile civile.
Osserva la difesa della ditta che le medesime ragioni enunciate
dalla Corte costituzionale nelle sentenze 55 del 1971 e 99 del 1973,
dichiarative della parziale illegittimità costituzionale degli artt.
27 e 28 c.p.p., appaiono decisive per dimostrare il contrasto delle
norme impugnate con l’art. 24, primo e secondo comma, Cost.
Invero l’art. 11 citato avrebbe eguale contenuto normativo
dell’art. 27 c.p.p., tanto da poterne apparire una ripetizione,
costituendone in ogni caso quanto meno una applicazione al particolare
settore dei rapporti tra infortunato, INAIL e datore di lavoro. Di qui
attesa l’autonomia formale delle norme denunciate, la necessità di
un’apposita pronuncia della Corte, di tenore conseguente ai principi
già precedentemente enunciati.
Infine nel procedimento introdotto con l’ordinanza 368 del 1977,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 5 ottobre 1977, si è costituita
in giudizio la impresa GELFI S.p.a., rappresentata e difesa dagli
avvocati Gianguido Scalfi ed Enrico Degli Uberti, con atto di
deduzioni depositato fuori termine il 4 novembre 1977.
1. – Le diciassette ordinanze in epigrafe indicate propongono
questioni analoghe o comunque connesse tra loro, pertanto i relativi
giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
2. – La Corte è chiamata a decidere – per effetto di un primo
gruppo di ordinanze analiticamente descritte in narrativa – se
contrasti o meno con l’art. 24, primo e secondo comma, della
Costituzione, il combinato disposto degli artt. 11 e 10 del d.P.R. 30
giugno 1965, n. 1124, che preclude l’esercizio del diritto di regresso
dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro quando la responsabilità
penale dell’imprenditore o di un suo dipendente non sia stata
affermata nel giudizio penale cui l’INAIL sia rimasto estraneo in
quanto non posto in condizioni di intervenirvi. Si dubita che, in tal
caso, risulti violato il diritto di azione e di difesa,
costituzionalmente garantiti.
Analogo effetto lesivo è prospettato da talune ordinanze di
rimessione come conseguenza di una sentenza penale che accerti una
lesione personale grave ma non produttiva di inabilità permanente
(ord. 235/1975 e 658/1976) o a seguito di un provvedimento di
archiviazione (ord. 206/1976 e 357/ 1977) o di sentenza di
proscioglimento istruttorio (ord. 513/ 1978) o di quella che, sempre in
sede istruttoria, conceda il perdono giudiziale (ord. 580/1977).
3. – La Corte ritiene di prendere innanzitutto in esame il primo
gruppo di tali casi, in cui il difetto del presupposto per l’esercizio
del regresso dipende in particolare dall’accertamento negativo del
reato nella competente sede, in fase di giudizio: i casi, cioè, in
cui una sentenza penale esiste, ma non di condanna e l’INAIL è
rimasto estraneo al relativo giudizio, in quanto non posto in grado
di intervenire.
Le norme impugnate stabiliscono che allorquando non opera
l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli
infortuni sul lavoro – quando cioè il datore di lavoro o i suoi
dipendenti abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale
l’infortunio è derivato – l’Istituto assicuratore deve ugualmente
pagare le previste indennità, salvo il diritto di regresso contro le
persone civilmente responsabili per le somme a tal titolo pagate e per
le spese accessorie (art. 10, secondo e terzo comma, del citato t.u.
n. 1124 del 1965). Trattasi di disposizioni operanti in un sistema
improntato al criterio della cosiddetta unicità della giurisdizione,
di cui erano espressione i principi stabiliti dagli artt. 27 e 28
c.p.p. nel testo antecedente alle pronunzie della Corte che ne ha
dichiarato la parziale illegittimità costituzionale.
Con le sentenze n. 55 del 1971 e 99 del 1973, ma particolarmente
con la prima di esse, si è affermato invece che il principio secondo
cui la sentenza penale irrevocabile (di condanna o di assoluzione) ha
autorità di cosa giudicata nel giudizio civile o amministrativo,
quando in esso si controverta di un diritto il cui riconoscimento
dipenda dai fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale,
contrasta con il diritto di difesa allorché rende vincolante
l’accertamento dei fatti emersi in sede penale anche nei confronti dei
terzi che si siano trovati nella impossibilità giuridica o di fatto di
partecipare al giudizio penale svoltosi nei confronti di altri
soggetti.
Invero la Corte dopo aver considerato il diritto di difesa nel suo
nucleo “sostanziale e irriducibile”, nel suo contenuto “pieno ed
effettivo”, nella sua qualità “inviolabile”, ha concluso che la
subordinazione, anche per i terzi rimasti estranei, dell’esercizio di
diritti civilistici all’accertamento che ne sia risultato in sede
penale, viene a violare non soltanto il diritto di difesa ma anche il
diritto di azione, inibendo la possibilità di dare la prova dei fatti
posti a fondamento del proprio diritto.
In una situazione del tutto analoga a quella ora descritta viene a
trovarsi l’INAIL quando intenda esercitare il diritto di regresso nei
confronti del datore di lavoro. Infatti l’Ente assicuratore rimasto
estraneo – secondo il vigente sistema giuridico – al processo penale
perché non direttamente danneggiato dal reato infortunistico e quindi
ritenuto privo del diritto di costituirsi parte civile subisce
inevitabilmente le conseguenze della decisione assolutoria emessa dal
giudice penale nella fase del giudizio.
Appare pertanto evidente che la normativa impugnata contrasta con
l’art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione, con conseguente
illegittimità costituzionale della stessa nella parte in cui non
consente al giudice civile di valutare liberamente i fatti nei
riguardi dell’INAIL quando questi fatti hanno costituito oggetto di
giudizio penale nel quale l’INAIL non sia stato posto in grado di
partecipare al giudizio e questo si sia concluso senza condanna penale
del datore di lavoro.
Tale conclusione non risulta scalfita dal contrario rilievo,
svolto da taluna delle parti costituite, secondo cui sarebbe fuor di
luogo invocare nella specie l’art. 24 Cost., cioè la tutela del
diritto di azione, giacché, nella previsione della normativa
impugnata, la sentenza penale di condanna del datore di lavoro o di un
suo dipendente sarebbe una condizione di diritto sostanziale del
regresso, costitutiva del diritto dell’INAIL.
Tale tesi non appare ancorata ad alcun preciso supporto di diritto
positivo, sicché appare più corretto interpretare gli impugnati
artt. 10 e 11 del citato testo unico n. 1124 del 1965 alla stregua del
principio generale espresso dall’art. 185 c.p. nel senso che il titolo
giuridico della responsabilità del datore di lavoro, e il conseguente
diritto di regresso dell’INAIL, va individuato nella sentenza di
condanna come atto di accertamento che i fatti da cui deriva
l’infortunio costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento
soggettivo e oggettivo.
Così intesa la normativa impugnata e tenuto conto delle
preclusioni che nascono dal procedimento penale cui l’Ente rimane
estraneo, appare evidente la violazione del diritto di azione e di
difesa dell’INAIL.
Le stesse considerazioni sin qui svolte per pervenire alla
conclusione di fondatezza della questione sollevata in fattispecie di
esistenza di giudicato penale non di condanna, valgono a fondare
analoga conclusione con riguardo all’ipotesi (cui fanno riferimento le
ordinanze 235/75 e 658/76 cit.) di esistenza di sentenza penale
affermativa della responsabilità del datore di lavoro (o suo
dipendente), ma con limitazioni pregiudizievoli per il contenuto
dell’azione di regresso.
4. – Nel secondo gruppo di ordinanze indicate in apertura la
questione di legittimità del combinato disposto degli artt. 10 e 11
d.P.R. 1965 n. 1124 è sollevata in fattispecie in cui la preclusione
all’esercizio dell’azione di regresso è fatta dipendere non da una
precedente sentenza penale di assoluzione del datore di lavoro, ma
dall’esistenza di un provvedimento di proscioglimento istruttorio, di
concessione del perdono giudiziale in istruttoria o di archiviazione
(rispettivamente ordinanze 513/78; 580/77; 206/76; 357/77). Va in
proposito rilevato che, pur non essendovi qui da rimuovere alcun
vincolo di giudicato penale (formatosi senza partecipazione dell’INAIL
al relativo giudizio), la normativa denunziata osta, comunque,
all’esercizio dell’azione di regresso per la parte in cui (comma
quinto, art. 10) circoscrive alle sole ipotesi di estinzione del reato
la possibilità di ottenere dal giudice civile un autonomo
accertamento del fatto reato, dal quale dipenda l’infortunio subito dal
lavoratore.
Ora, se per il principio della normale prevalenza della
giurisdizione penale – rispetto all’accertamento di un fatto (come
nella specie è quello imputabile all’imprenditore o ad un suo
dipendente) che costituisca nell’un tempo reato e presupposto per il
sorgere di una responsabilità civile – si giustifica che l’azione
civile non sia proponibile in pendenza del processo penale, non trova
invece alcuna razionale giustificazione che sia anche – come sopra
detto – limitata ad ipotesi tassative la possibilità di chiedere al
giudice civile, ai fini dell’azione di sua competenza, l’accertamento
dell’illecito; precludendolo in altri casi, come quelli che vengono
qui in esame, di precedente proscioglimento istruttorio o perdono
giudiziale in istruttoria (dell’imprenditore o del suo dipendente)
ovvero di archiviazione della notitia criminis.
E se è pur vero che in detti casi (salvo però per quello di
concessione del perdono giudiziale) il procedimento penale può essere
riaperto per fatti sopravvenuti, ciò rappresenta comunque una mera
eventualità verificabile anche a notevole distanza di tempo entro il
limite prescrizionale del reato.
Per cui contrasta appunto con le esigenze di tutela del diritto di
azione e di difesa garantite dall’art. 24 Cost. che, in dipendenza di
tale eventualità, resti preclusa l’azione sulle conseguenze civili
dell’eventuale reato.
Una volta consentita invece tale azione è comunque sufficiente, a
salvaguardare il principio di prevalenza della giustizia penale, il
meccanismo processuale della sospensione del processo civile in caso
di sopravvenuta riapertura del processo penale sui fatti costituenti
il presupposto dell’azione di regresso.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma
quinto dell’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non
consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso
dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal
giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei
confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso
con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di
archiviazione.
5. – Resta ancora da rilevare, relativamente alla questione
sollevata dal pretore di Cagliari (ordinanza n. 566 del 1979) che essa
appare inammissibile per irrilevanza. Invero, poiché il giudice a quo
era stato investito dell’azione di regresso dopo che in sede penale
era stata applicata la prescrizione, lo stesso giudice a quo avrebbe
potuto liberamente valutare ex novo il fatto, ai fini della azione di
regresso, in base al quinto comma dell’art. 10 del già citato t.u. n.
1124 del 1965 (nel testo risultante a seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 22 del 1967). Di qui l’assenza di ogni
preclusione per l’INAIL e la irrilevanza della questione sollevata.
6. – La Corte deve altresì decidere se contrasti o meno con gli
articoli 3 e 24 della Costituzione, il coordinato disposto degli artt.
10 e 11 del t.u. 1124 del 1965, secondo cui l’imprenditore, civilmente
responsabile di un infortunio sul lavoro, rimane imprescindibilmente
soggetto agli effetti della sentenza penale di condanna di un suo
dipendente – quando nel relativo procedimento esso datore di lavoro
non sia potuto intervenire quale responsabile civile e la sentenza
risulti quindi pronunciata tra terzi – senza che il giudice civile,
investito dell’azione di regresso avanzata dall’INAIL, possa valutare
diversamente i fatti da come sono risultati in sede penale.
Anche in questa ipotesi viene sollevato il dubbio da parte del
giudice a quo, e questa volta facendo riferimento alla posizione del
datore di lavoro, che ciò leda il diritto di difesa e realizzi nella
materia in esame una ingiustificata disparità di trattamento rispetto
al sistema generale dei rapporti tra giudicato penale e procedimento
civile quale ora risulta delineato per effetto degli articoli 27 e 28
c.p.p. (come debbono leggersi a seguito delle sentenze della Corte
costituzionale nn. 55 del 1971 e 99 del 1973).
Talune delle cinque ordinanze che propongono tale questione,
prospettano l’eventualità che debba essere dichiarata
“l’illegittimità derivata” del quinto comma dell’art. 10 del t.u. n.
1124 del 1965 che consente il riesame in sede civile dell’infortunio
soltanto quando il reato sia estinto.
Intanto va preliminarmente disattesa la eccezione di
inammissibilità per difetto di rilevanza sollevata dall’INAIL
relativamente alle questioni prospettate dalla Corte di cassazione
(ord. 667/76 e 450/78) deducendo che le norme denunciate avrebbero
dovuto essere applicate dalla Corte di appello in sede di rinvio,
anziché dalla Cassazione stessa. Osserva al riguardo questa Corte
che il giudice a quo nell’annullare la sentenza di secondo grado doveva
enunciare il principio di diritto cui il giudice di appello avrebbe
dovuto uniformarsi per decidere il merito della controversia; e se,
come nella specie, la Corte di cassazione aveva seri dubbi sulla
legittimità costituzionale delle norme da porre a fondamento del
principio di diritto da formulare, doveva necessariamente sollevare –
come ha fatto – la relativa questione, non potendo – evidentemente –
enucleare da esse un principio di dubbia costituzionalità.
Nel merito la questione è fondata.
Va innanzitutto osservato che per il combinato disposto delle
norme impugnate, il datore di lavoro che non sia stato posto in
condizione di essere parte di un procedimento penale a carico di un
proprio dipendente per un infortunio sul lavoro deve ugualmente
risponderne civilmente.
Il combinato disposto degli articoli 10 e 11 del più volte citato
t.u. n. 1124 del 1965 produce necessariamente siffatte conseguenze,
attesa la autonomia di tali disposizioni rispetto agli artt. 27 e 28
c.p.p., nonostante la dichiarazione di illegittimità parziale di
questi ultimi articoli.
In tal senso è la comune opinione della dottrina e la
interpretazione giurisprudenziale.
Ciò premesso, le ragioni già esposte nel paragrafo 2 conducono,
logicamente, a ravvisare il vizio denunciato anche sotto questo
diverso profilo, per la illegittimità degli effetti pregiudizievoli
che ne derivano (questa volta) a carico del datore di lavoro.
Infatti quando l’imprenditore – come nei casi esaminati dai
giudici che hanno sollevato la relativa questione – non è stato posto
in grado, per le ragioni già indicate nella sentenza n. 99/1973, di
essere parte nel processo penale a carico di un proprio dipendente,
rimane pregiudicato dagli accertamenti effettuati in quella sede.
Proprio tale effetto, conseguente alla applicazione delle norme
impugnate, contrasta con il diritto di difesa giacché impedisce al
datore di lavoro di instaurare un contraddittorio con le altre parti
volto a far valere la fondatezza delle proprie ragioni e necessario
all’accertamento dei fatti ad opera del giudice.
Pertanto le norme impugnate vanno dichiarate illegittime nella
parte in cui precludono al giudice civile di valutare i fatti dinanzi
a lui dedotti in maniera diversa da quella ritenuta in sede penale,
anche nei confronti del datore di lavoro che non sia stato posto in
condizioni di partecipare al relativo procedimento.
Quanto al profilo particolare di illegittimità derivata del comma
quinto dell’art. 10, prospettato nelle ordinanze n. 667/ 76 e n.
450/78 della Corte di cassazione, questo trova già risposta nella
pronuncia adottata sul punto al paragrafo che precede, la quale va
logicamente estesa al caso in esame e cioè alle predette ipotesi, in
cui, in dipendenza della dichiarazione di incostituzionalità che
precede, la sentenza di condanna penale non faccia stato nel giudizio
civile instaurato dall’INAIL.
7. – Alla Corte è stata infine prospettata dal pretore di Genova,
con le ordinanze 368/77 e 423/79, di identico contenuto, la questione
se il combinato disposto degli artt. 10 e 11 citato t.u. n. 1124 del
1965 contrasti o meno con il diritto di difesa dell’INAIL laddove non
consente che nel processo penale, al cui esito è subordinata
l’azione di regresso, l’Istituto possa partecipare pur essendo secondo
il giudice a quo il solo soggetto che, quale titolare di un interesse
“sostanziale” all’esito di quel processo, dovrebbe potersi costituire
parte civile.
Le norme sono altresì censurate sotto un altro profilo e cioè se
l’assenza dell’INAIL dal processo penale venga a creare (tenendo
presente che nel relativo processo il lavoratore infortunato che viene
integralmente o quasi risarcito dall’INAIL al momento dell’infortunio
non vedrebbe alcun particolare interesse a intervenire) un
ingiustificato vantaggio rispetto ad altri imputati in processi diversi
che invece avrebbero di fronte una parte civile interessata alla
punizione del colpevole. Il che concreterebbe violazione quindi
dell’art. 3 Cost. e altresì dell’art. 27 Cost. perché
l’impossibilità per l’INAIL di costituirsi parte civile nel processo
penale renderebbe più difficile il superamento della presunzione di
non colpevolezza dell’imputato datore di lavoro.
Le censure sopra enunciate appaiono inammissibili per difetto di
rilevanza, in quanto prospettate nel corso di giudizi civili mentre
sarebbero attinenti, invece, ad eventuali profili di illegittimità da
cui potrebbero essere affetti procedimenti penali.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto
degli artt. 10 e 11 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui
preclude in sede civile l’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL
nei confronti del datore di lavoro qualora il processo penale promosso
contro di lui o di un suo dipendente per il fatto dal quale
l’infortunio è derivato si sia concluso con sentenza di assoluzione,
malgrado che l’Istituto non sia stato posto in grado di partecipare al
detto procedimento penale;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale del comma quinto
dell’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non consente
che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL,
l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice
civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del
datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con
proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di
archiviazione;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto
degli artt. 11 e 10 d.P.R. 1124 del 1965, nella parte in cui dispone
che, nel giudizio civile di danno a carico del datore di lavoro per un
infortunio di cui sia civilmente responsabile per fatto di un proprio
dipendente, l’accertamento dei fatti materiali che furono oggetto di un
giudizio penale sia vincolante anche nei confronti del datore di
lavoro rimasto ad esso estraneo perché non posto in condizione di
intervenire;
4) dichiara ex art. 27 legge n. 87/1953 la illegittimità
costituzionale del comma quinto dell’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965,
nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del
diritto di regresso dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato possa
essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui la sentenza
di condanna penale non faccia stato nel giudizio civile instaurato
dall’INAIL;
5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale sopra indicate sollevate dal pretore di Cagliari in
riferimento all’art. 24, primo e terzo comma, Cost. e dal pretore di
Genova in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. con le ordinanze in
epigrafe indicate.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 29 aprile 1981.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
MICHELE ROSSANO – GUGLIELMO ROEHRSSEN
– ORONZO REALE – BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere