Ordinanza N. 367 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
30/10/1996
Data deposito/pubblicazione
30/10/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/10/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA,
prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare
MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott.
Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY,
prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 30 ottobre 1995
dal Tribunale di Roma sull’istanza proposta da Sapienza Giuseppe,
iscritta al n. 25 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale,
dell’anno 1996;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 2 ottobre 1996 il giudice
relatore Giuliano Vassalli;
Ritenuto che Giuseppe Sapienza veniva condannato dalla Corte di
assise di Latina, con sentenza del 27 ottobre 1993, alla pena di anni
23 di reclusione per i reati di omicidio aggravato, di occultamento
di cadavere aggravato, di furto di un’autovettura e di una carta di
identità, reati tutti unificati dal vincolo della continuazione, e
che la detta statuizione veniva confermata, per i capi penali, dalla
Corte di assise di appello di Roma con sentenza del 10 marzo 1995;
che contro tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per
cassazione, deducendo difetto di motivazione in ordine sia al
giudizio di equivalenza tra le concesse circostanze attenuanti
generiche e la circostanza aggravante della premeditazione, sia alla
mancata concessione dell’attenuante del risarcimento del danno;
che la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere
ovvero di sostituzione di tale misura con gli arresti domiciliari
proposta dall’imputato veniva disattesa dalla Corte di assise di
appello con ordinanza dell’11 settembre 1995;
che avverso il detto provvedimento l’imputato proponeva appello
davanti al Tribunale della libertà di Roma;
che, con ordinanza del 30 ottobre 1995, il Tribunale ha
denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 27, secondo comma, della
Costituzione, l’art. 299 del codice di procedura penale, nella parte
in cui prevede “che l’imputato di delitto per cui sia preveduta pena
edittale minima non inferiore alla durata della custodia cautelare
sofferta, nei confronti del quale si sia già formato il giudicato
sulla colpevolezza possa chiedere e che il giudice adito, anche in
sede di appello proposto ai sensi dell’art. 310 c.p.p., debba
disporre, la revoca o la sostituzione della misura di custodia
cautelare per l’accertata carenza o attenuazione delle esigenze
prevedute dall’art. 274 c.p.p.”;
che, dopo un articolato argomentare circa il “principio di
giurisdizionalità” e quello della “presunzione di non colpevolezza”,
il giudice a quo individua nell’istituto della revoca delle misure
cautelari l’esito di un accertamento sulla illegittimità della
privazione della libertà personale, un accertamento che resterebbe
precluso, per la parte concernente la gravità degli indizi di
colpevolezza nel caso di pronuncia di una sentenza di condanna; un
principio che comporta la possibilità di revoca della misura dopo la
pronuncia di tale tipo di decisione solo con riferimento alle
esigenze cautelari;
che, però, nei casi in cui “la pena edittale minima statuita
secondo le regole del codice sostanziale è superiore al tempo di
custodia cautelare sofferto”, diverrebbe irrazionale, oltre che
contrastante con l’art. 27, secondo comma, della Costituzione,
consentire all’imputato “di attivare il procedimento di revoca o di
sostituzione della misura custodiale in carcere impostagli anche
quando il giudizio di colpevolezza fissato nei due gradi di
cognizione sia divenuto intangibile per essersi formato il giudicato
sulla colpa”;
che, nel caso di specie, considerato il devolutum risultante dal
ricorso per cassazione, pur ipotizzando l’esito favorevole di tale
ricorso, la pena irrogabile all’imputato non potrà essere inferiore
ad anni cinque e mesi tre di reclusione, senza computare l’aumento
per la continuazione anch’esso derivante da statuizione divenuta
definitiva;
che di conseguenza la possibilità di revocare la misura
cautelare della custodia in carcere comprometterebbe l’osservanza del
principio di eguaglianza, per l’irragionevole equiparazione, ai fini
della revoca o della sostituzione della misura cautelare della
custodia in carcere, della posizione dell’imputato per il quale non
sia stata ancora pronunciata sentenza definitiva sulla
responsabilità a quella del soggetto relativamente al quale, essendo
la decisione ormai passata in cosa giudicata in ordine alla
responsabilità, il ruolo di imputato rimane circoscritto alla sola
entità della pena: situazioni da ritenere – secondo il giudice a quo
– tra loro assolutamente differenziate perché, mentre nel primo caso
è invocabile “la garanzia processuale della presunzione di innocenza
o di non colpevolezza”, nel secondo caso la detta garanzia non è
invocabile, “per essersi raggiunta la prova contraria che giustifica
il giudizio di colpa”;
che, in punto di rilevanza, il rimettente osserva che l’appello
dovrebbe trovare accoglimento per essere il provvedimento reiettivo
della revoca fondato sulle esigenze cautelari del pericolo di fuga e
di reiterazione di delitti della stessa specie, esigenze ormai non
più esistenti;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;
che, più in particolare, secondo l’atto di intervento, la
premessa interpretativa da cui muove il giudice a quo, quella cioè
incentrata sulla formazione “progressiva” del giudicato per effetto
della mancata impugnazione della sentenza di condanna sul capo
relativo all’affermazione di responsabilità, è da ritenere un dato
fortemente contrastato tanto in giurisprudenza quanto in dottrina,
risultando, anzi, prevalente l’indirizzo ermeneutico secondo cui,
alla stregua dell’art. 624, comma 1, del codice di procedura penale,
il giudicato parziale si forma soltanto sui “capi” e non pure sui
“punti” della decisione;
che, dunque, poiché l’affermazione di responsabilità, ancora
sub iudice con riferimento all’entità della sanzione, costituisce
soltanto un “punto” all’interno di un singolo “capo” della sentenza,
non si sarebbe ancora formato il giudicato dovendo definirsi la
situazione prospettata come di mera preclusione;
che, al di là dei motivi di impugnazione, il giudice del gravame
è sempre tenuto a dichiarare – anche d’ufficio – l’esistenza delle
condizioni previste dall’art. 129 del codice di procedura penale,
così ulteriormente comprovandosi la natura “non definitiva” della
condanna;
Considerato in primo luogo che – pure a prescindere dalla
distinzione, ampiamente argomentata dall’Avvocatura generale dello
Stato tra giudicato e preclusione – con l’espressione giudicato la
legge non intende, certo, riferirsi all’intrinseca idoneità della
decisione ad essere posta in esecuzione, cosicché la premessa da cui
muove il giudice a quo circa il calcolo della pena ai fini della
verifica in ordine alla possibilità di cessazione dello status
custodiae si rivela non correttamente enunciata, perché solo nel
caso in cui la parte di sentenza non impugnata dovesse essere
eseguita prima dell’esame del ricorso da parte della Corte di
cassazione potrebbe prospettarsi – ma solo astrattamente – l’esigenza
di non compromettere l’esecuzione della sentenza;
che, peraltro, non appare rigorosamente richiamato l’istituto del
giudicato parziale di cui all’art. 624 del codice di procedura
penale, strettamente collegato all’esercizio del potere di
annullamento da parte della Corte di cassazione ed ai conseguenti
limiti del giudizio di rinvio, quale diretta ed ineludibile
conseguenza dell’irrevocabilità della pronuncia in relazione alle
parti non annullate ed a queste non necessariamente connesse;
che, d’altro canto, attesa la fase processuale considerata, la
norma cui occorre fare riferimento non è l’art. 624 del codice di
procedura penale, ma l’art. 597, comma 1, dello stesso codice, in
quanto, come è ius receptum nella giurisprudenza di legittimità,
pure trascurando il rilievo che la nozione di “punto” non corrisponde
alla nozione di “capo” inteso quale sinonimo di “parte”, quel che
rileva ai fini del giudicato parziale è che la parte di sentenza
abbia acquistato definitività a seguito dell’integrale percorso
dell’iter processuale consentito dall’ordinamento e concluso con la
definitiva pronuncia della Corte di cassazione; il che risulta dal
fatto che il codice del 1988 (non diversamente dal codice abrogato)
ha utilizzato l’espressione “autorità di cosa giudicata” rispetto ad
una vicenda ancora sub iudice (art. 624 del nuovo codice di procedura
penale; art. 545 del codice del 1930) solo in relazione alle parti
della sentenza vagliate e non annullate dalla Corte di cassazione;
che, dunque, all’infuori del giudizio di rinvio, vale il
principio, più volte espresso nella giurisprudenza di legittimità,
secondo cui “non si è in presenza di una condanna allorché è stata
accertata soltanto la responsabilità dell’imputato, ma non è ancora
stata applicata la pena relativa”;
che, pertanto, risultando non corretto il presupposto
interpretativo da cui muove il giudice a quo, la questione deve
essere dichiarata manifestamente infondata;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 299 del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, secondo comma, della
Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 30 ottobre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola