Sentenza N. 288 del 1983
Corte Costituzionale
Data generale
05/10/1983
Data deposito/pubblicazione
05/10/1983
Data dell'udienza in cui è stato assunto
28/09/1983
ANTONINO DE STEFANO – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – Prof. LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO
LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO ANDRIOLI – Dott. FRANCESCO SAJA – Prof.
GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO, Giudici,
quarto, parte seconda, del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento
della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti
locali), convertito nella legge 9 gennaio 1939, n. 41, promosso con
ordinanza emessa il 23 febbraio 1976 dalla Corte dei conti – Sezione
III giurisdizionale per le pensioni civili, sul ricorso proposto da
Vendetti Angelo, iscritta al n. 757 del registro ordinanze 1976 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44 del 1977.
Udito, nella pubblica udienza dell’8 marzo 1983, il Giudice relatore
Antonino De Stefano.
Con ordinanza 23 febbraio 1976, la Corte dei conti, sezione III
giurisdizionale per le pensioni civili, ha sottoposto al giudizio di
questa Corte, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, l’art. 61,
quarto comma, seconda parte, dell’Ordinamento della Cassa di previdenza
per le pensioni agl’impiegati degli enti locali, approvato con r.d.l. 3
marzo 1938, n. 680, convertito in legge 9 gennaio 1939, n. 41: tale
norma esclude che, in caso di condanna penale dell’impiegato, il
provvedimento di cessazione dall’impiego che sia adottato
posteriormente alla data del passaggio in giudicato della sentenza,
possa avere efficacia anteriore alla data stessa.
La questione è stata sollevata, su eccezione del pubblico ministero,
nel corso di un giudizio promosso, con ricorso 24 marzo 1971, da
Vendetti Angelo, già in servizio presso il Comune di Roma come
geometra aggiunto, contro la decorrenza data, in base alla norma
impugnata, alla pensione assegnatagli per cessazione dal servizio per
condanna penale, con il decreto emesso il 3 dicembre 1970 dal Direttore
generale degli istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro.
Sospeso cautelativamente dal grado e dallo stipendio con ordinanza
del Sindaco, emessa il 20 gennaio 1965, in seguito all’apertura, nei
suoi confronti, dapprima di procedimento disciplinare e quindi di
procedimento penale, e condannato per il reato, riscontrato nei fatti
denunciati, di falso ideologico continuato, con sentenza del tribunale
di Roma, in data 29 marzo 1965, confermata, sul punto, in appello, e
passata in giudicato, in data 25 ottobre 1968, a seguito del rigetto
del ricorso per cassazione, il Vendetti, con deliberazione della Giunta
municipale, in data 3 dicembre 1969, veniva dichiarato destituito di
diritto, con decorrenza dal 21 gennaio 1965 (giorno successivo a quello
del su riferito primo provvedimento di sospensione), dal posto
ricoperto presso l’amministrazione. Assegnatagli, quindi, con il
suddetto decreto, per i riconosciuti anni 22, mesi 11 e giorni 4 di
servizio, la pensione annua lorda di lire 834.500, questa veniva fatta
decorrere dal 4 dicembre 1969 (giorno successivo alla data della
delibera di destituzione). Di ciò si doleva il ricorrente sostenendo,
in via principale, che, dato che l’art. 61, quarto comma, seconda parte
del r.d.l. n. 680 del 1938, di cui era stata fatta nel caso
applicazione, era stato abrogato dalla legge 8 giugno 1966, n. 424,
come data di decorrenza si sarebbe dovuto fissare invece quella, da cui
egli era cessato dal servizio, del 21 gennaio 1965. In via subordinata,
tuttavia, il Vendetti sosteneva che, poiché l’art. 61, quarto comma,
del r.d.l. n. 680 del 1938, stabilisce che in caso di condanna
dell’impiegato, il provvedimento di cessazione dal rapporto d’impiego,
che sia adottata posteriormente alla data del passaggio in giudicato
della sentenza, non può avere, agli effetti del godimento della
pensione, efficacia anteriore a tale data, alla pensione non si sarebbe
potuto dare comunque, nel caso, una decorrenza successiva – come invece
era avvenuto – alla data del passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, ossia al 25 ottobre 1968.
Nelle more del giudizio, con successivo decreto in data 7 gennaio
1973, la pensione, previa revoca del provvedimento impugnato, veniva
ridimensionata nell’importo di lire 855.000, e fatta decorrere dal 1
agosto 1966, in applicazione dell’art. 2 della legge n. 424 dello
stesso anno. Come si illustrava nella relazione del Direttore degli
istituti di previdenza al Consiglio di amministrazione della Cassa per
le pensioni ai dipendenti degli enti locali, fra le previgenti norme
sulla perdita del diritto a pensione per condanna penale, abrogate con
la legge n. 424 del 1966, era parso infatti razionale comprendere anche
la suddetta disposizione dell’art. 61, quarto comma, seconda parte, del
r.d.l. n. 680 del 1938.
Cessata, di conseguenza, con questo secondo provvedimento, la materia
del contendere riguardo alla tesi subordinata del ricorrente circa la
decorrenza della pensione dalla data (di quasi due anni posteriore
all’entrata in vigore della legge n. 424) del passaggio in giudicato
della sentenza di condanna, la difesa del Vendetti insisteva tuttavia
nella sua richiesta principale di concessione della pensione dalla data
di destituzione dall’impiego. A questa richiesta la difesa
dell’amministrazione previdenziale continuava ad opporsi. Il pubblico
ministero, pur riconoscendo la legittimità del provvedimento emesso
dall’amministrazione della Cassa pensioni nelle more del giudizio,
eccepiva tuttavia la illegittimità della normativa contenuta nella
seconda parte del quarto comma dell’art. 61, per contrasto con l’art.
36 della Costituzione.
Nel motivare, in ordine alla non manifesta infondatezza della
sollevata questione, il giudice a quo, premesso che a suo avviso si
può senz’altro convenire sulla correttezza di una interpretazione
estensiva della legge n. 424 del 1966 che, come quella adottata nel
provvedimento dell’amministrazione previdenziale dopo il ricorso del
Vendetti, allarga l’abrogazione dalla legge stessa disposta a casi che
“esulano, come quello di specie, dal suo oggetto proprio e normale”,
osserva che nel caso, se è vero che la più favorevole decorrenza
riconosciuta (dal 1 agosto 1966) consente di ravvisare una conformità
al diritto vigente della nuova pensione concessa nelle more del
giudizio, va però riconosciuto a favore del ricorrente il permanere di
una carenza di retribuzione pensionistica dal giorno successivo alla
data di destituzione del Vendetti (21 gennaio 1965) fino a quella di
entrata in vigore della legge n. 424. Tale carenza del trattamento di
quiescenza – prosegue l’ordinanza di rinvio – appare in contrasto con
l’art. 36 della Costituzione, secondo il quale il lavoratore ha diritto
ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del
lavoro prestato, mentre, come ha costantemente affermato la Corte
costituzionale, il conseguente trattamento pensionistico non è che la
logica prosecuzione di tale retribuzione, prostinata al tempo che segue
la cessazione del rapporto d’impiego. La normativa in questione,
invero, sancendo l’inefficacia di una cessazione dal servizio anteriore
al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, se poteva
apparire giustificata per motivi cautelari quando sussisteva ancora la
possibilità che da talune condanne penali potesse derivare la perdita
del diritto a pensione, con la conseguente difficoltà di recupero
delle rate già riscosse, non lo è più certo ora, dopo la emissione
della legge n. 424, la quale, peraltro, non può farsi operare da data
anteriore a quella del 1 agosto 1966.
Quanto alla rilevanza, il giudice a quo afferma che di essa non si
può dubitare nel caso di specie. E ciò non solo perché gl’importi
arretrati della pensione, una volta riconosciuti, in caso di
dichiarazione d’illegittimità costituzionale della contestata
normativa, spettanti a decorrere dal 21 gennaio 1965, supererebbero il
quantum della pensione concessa alla data di decorrenza fissata nel
provvedimento impugnato, ma anche perché la eliminazione di un
notevole periodo di vuoto pensionistico (quale quello che va dal 21
gennaio 1965 al 1 agosto 1966) oltre che costituire una precisa
richiesta dell’interessato, potrebbe avere positivi riflessi
pensionistici anche in occasione di futuri provvedimenti perequativi
eventualmente interessanti tale periodo.
Adempiute le formalità di rito per le notifiche, comunicazioni e
pubblicazione dell’ordinanza di rinvio, nessuna delle
parti del giudizio di provenienza si è costituita in giudizio, né è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – L’art. 61, comma quarto, dell’Ordinamento della Cassa di
previdenza per le pensioni agl’impiegati degli enti locali, approvato
con r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, convertito in legge 9 gennaio 1939, n.
41, dopo aver sancito che il godimento della pensione diretta comincia
a decorrere dal giorno successivo a quello della cessazione del
rapporto d’impiego, dispone, nella seconda parte, che, in caso di
condanna penale dell’impiegato, il provvedimento di cessazione che sia
adottato posteriormente alla data di passaggio in giudicato della
sentenza, “non può avere efficacia anteriore alla data stessa, a tutti
gli effetti del presente ordinamento”.
Come esposto in narrativa, la Corte dei conti, sezione III
giurisdizionale per le pensioni civili, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale di tale norma, nella riferita seconda
parte, per contrasto con l’art. 36 della Costituzione.
Il giudice a quo, accogliendo una interpretazione estensiva della
legge 8 giugno 1966, n. 424, abrogativa delle norme che prevedono la
perdita, la riduzione o la sospensione delle pensioni a carico dello
Stato o di altro ente pubblico, ritiene che la denunciata norma sia
stata anch’essa abrogata da tale legge. Ma poiché nel caso sottoposto
al suo giudizio la cessazione del rapporto d’impiego, per destituzione
di diritto a seguito di condanna penale per falso ideologico
continuato, si è verificata in data 21 gennaio 1965, mentre
l’abrogazione ha effetto, in ordine alla corrisponsione della pensione,
solo a decorrere dal primo giorno del mese successivo all’entrata in
vigore della legge, e cioè dal 1 agosto 1966 (art. 2 della legge n.
424 del 1966), propone la questione in ordine alla perdurante
applicabilità della denunciata norma per il periodo anteriore a tale
data.
2. – La questione è fondata.
Occorre premettere che per l’art. 247 del t.u. della legge comunale e
provinciale, approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383, come modificato
dalla legge 27 giugno 1942, n. 851, il segretario e gl’impiegati degli
enti locali incorrono senz’altro nella destituzione, esclusa qualunque
procedura disciplinare, qualora riportino condanna penale passata in
giudicato, per determinati reati ivi indicati, o che comporti la
interdizione perpetua dai pubblici uffici o la libertà vigilata.
In talune ipotesi di destituzione di diritto, il dipendente perdeva
anche il diritto alla pensione: e cioè – secondo quanto disponeva
l’art. 43 dello stesso Ordinamento approvato con il r.d.l. n. 680 del
1938 – a seguito di condanna che comportasse l’interdizione perpetua
dai pubblici uffici, o di condanna a qualunque pena per reati di
peculato, malversazione, concussione o corruzione. Negli altri casi di
destituzione di diritto il dipendente conservava, invece, il diritto
alla pensione (come nel caso di specie del giudizio a quo, in cui si
tratta di impiegato condannato per falso ideologico continuato).
Peraltro, in tutti i casi di destituzione ope legis a seguito di
condanna penale, il provvedimento di cessazione del rapporto d’impiego,
necessariamente adottato posteriormente alla data del passaggio in
giudicato della sentenza, non poteva – per il divieto posto dal
denunciato art. 61 – avere efficacia anteriore a tale data “a tutti gli
effetti del presente ordinamento” e cioè agli effetti del trattamento
di quiescenza disciplinato dall’ordinamento medesimo. Tale disposizione
appariva ispirata – come sottolineato nell’ordinanza di rimessione –
all’esigenza di evitare che, facendosi nel provvedimento coincidere la
risoluzione del rapporto d’impiego con la data di inizio della
sospensione cautelare dal servizio, l’interessato potesse, per il
periodo anteriore alla data di passaggio in giudicato della sentenza,
vantare diritto al trattamento di quiescenza.
3. – Com’è noto, la illegittimità costituzionale delle disposizioni
che collegavano a talune ipotesi di condanna penale del pubblico
dipendente la perdita, definitiva o temporanea, del diritto al
trattamento economico ad esso spettante in conseguenza della cessazione
del rapporto di lavoro, è stata riconosciuta da questa Corte, che ne
ha affermato la incompatibilità con la particolare protezione
assicurata dall’ordinamento costituzionale alla retribuzione del
lavoratore in ogni suo aspetto, compreso quello del trattamento di
quiescenza, inteso come retribuzione differita per fini previdenziali.
Con la sentenza n. 3 del 1966 è stata, infatti, dichiarata, in
riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, la illegittimità
costituzionale dell’art. 28, comma secondo, n. 5, del codice penale,
nella parte in cui prevedeva, in conseguenza della interdizione
perpetua dai pubblici uffici, la perdita per il condannato dei diritti
a stipendi, pensioni ed assegni, traenti titolo da un rapporto di
lavoro alle dipendenze dello Stato o di altro ente pubblico. Con la
medesima sentenza è stata dichiarata, facendo applicazione dell’art.
27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale
anche del comma terzo dello stesso art. 28 del codice penale, relativo
alla privazione per il condannato della capacità di acquistare,
esercitare o godere dei cennati diritti durante l’interdizione
temporanea dai pubblici uffici, nonché di altre norme che prevedevano
per i pubblici dipendenti la perdita, in conseguenza di condanna
penale, del diritto alla pensione, tra le quali appunto l’art. 43
dell’Ordinamento approvato con il r.d.l. n. 680 del 1938, innanzi
ricordato.
A tale sentenza ha fatto seguito l’abrogazione, disposta con la
richiamata legge n. 424 del 1966, di tutte le norme che prevedevano, in
conseguenza di condanna penale o di provvedimento disciplinare, la
perdita, la riduzione o la sospensione del diritto del dipendente dello
Stato o di altro ente pubblico al conseguimento e al godimento della
pensione e di ogni altro assegno o indennità da liquidarsi per effetto
della cessazione del rapporto di servizio. Varie sentenze di questa
Corte (n. 78 del 1967, n. 112 del 1968, n. 25 del 1972, n. 24 del 1975,
n. 83 del 1979) hanno poi dichiarato la illegittimità costituzionale
di talune norme, già abrogate dalla legge n. 424 del 1966, per
eliminarne gli effetti per il periodo anteriore al ripristino dei
trattamenti di quiescenza, disposto da detta legge con decorrenza, come
si è già precisato, dal 1 agosto 1966.
Per quanto concerne la denunciata norma, tanto l’amministrazione
della Cassa di previdenza quanto la stessa Corte dei conti hanno
ritenuto che anch’essa rientri tra le disposizioni abrogate dalla legge
n. 424 del 1966. Ma la sollevata questione appare egualmente rilevante,
perché, come si è già innanzi puntualizzato, vi è un periodo – tra
la data di cessazione del rapporto d’impiego (21 gennaio 1965) e la
decorrenza della concessa pensione (1 agosto 1966) – in cui il
ricorrente, per effetto della subita condanna penale, è rimasto privo
di pensione, in applicazione appunto dell’impugnata norma. Della quale
è perciò palese, alla luce della richiamata costante giurisprudenza
di questa Corte, il contrasto con l’invocato art. 36 della
Costituzione.
Va pertanto dichiarata la illegittimità costituzionale del comma
quarto dell’art. 61, nella seconda parte, che inizia con le parole “Il
provvedimento di cessazione” e termina con le parole “presente
ordinamento”.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 61, comma quarto,
dell’Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni
agl’impiegati degli enti locali, approvato con r.d.l. 3 marzo 1938, n.
680, convertito in legge 9 gennaio 1939, n. 41, nella seconda parte,
che inizia con le parole “Il provvedimento di cessazione” e termina con
le parole “presente ordinamento”.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 28 settembre 1983.
F.to: LEOPOLDO ELIA – ANTONINO DE
STEFANO – ORONZO REALE – BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – LIVIO PALADIN –
ARNALDO MACCARONE – ANTONIO LA
PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI –
FRANCESCO SAJA – GIOVANNI CONSO –
ETTORE GALLO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere