Sentenza N. 44986 del 2016
Corte di Cassazione - Sezione Penale V
Data deposito/pubblicazione
26/10/2016
Data dell'udienza in cui è stato assunto
21/09/2016
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
Sentenza 21 settembre – 26 ottobre 2016, n. 44986
(Pres. Palla – Ric. Mullé)
OMISSIS
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Assise d’appello di Roma ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa – all’esito di giudizio abbreviato – dal Giudice dell’udienza preliminare del locale Tribunale, che aveva condannato M.S. per omicidio colposo, aggravato dalla previsione dell’evento, in danno di C.P., e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo M. per lesioni personali colpose in danno di F.F. per mancanza di querela, rideterminando, di conseguenza, la pena inflitta all’imputato.
Secondo quanto accertato in sentenza, e non contestato, la notte del (omissis), dopo aver consumato in vari locali alcol ed hashish, l’imputato e due giovani amiche (C. e F., appunto, di anni 23), si ritrovarono nel garage dell’(omissis), ove, di comune accordo, si dettero alla pratica di giochi erotici a base sadomaso. In particolare, l’accordo prevedeva l’adozione di tecniche di bondage, ossia di costrizione fisica, anche mediante legatura. In effetti, F. fu legata, da M., col braccio destro leggermente proteso verso l’alto e col sinistro ritratto verso il corpo, parallelamente al terreno. La ragazza aveva un piede per terra e l’altro sollevato – con una legatura – a circa venti centimetri dal pavimento, nonché una corda intorno al collo, con nodo bloccato, collegata ad altre corde ancorate dietro di lei. La C., invece, fu legata con le braccia dietro la schiena, in posizione eretta, con entrambi i piedi per terra. Anche a C. fu applicata una corda intorno al collo, con nodo bloccato, ed anche questa corda fu legata ad altre corde tese alle sue spalle. Pochi secondi dopo l’avvio della pratica C.P. accusò un malore, perse i sensi e si accasciò al suolo, mettendo in tensione, col peso del suo corpo (circa 100 kg), la corda che girava intorno al suo collo e quelle a cui la corda suddetta era collegata, nonché quelle che immobilizzavano F.F. In conseguenza di ciò entrambe le ragazze entrarono in difficoltà respiratoria e, sebbene soccorse da M., riportarono entrambe gravi lesioni, in conseguenza delle quali C. decedette e F. rischiò la vita.
2. L’accusa mossa dal Pubblico Ministero a carico di M. è stata, fin dall’inizio, quella di omicidio preterintenzionale, per C., e di lesioni volontarie gravi per F. Il Giudice dell’udienza preliminare e la Corte d’Assise d’appello hanno ricondotto la fattispecie in esame a quella dell’omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, quanto alla C., e a quella delle lesioni colpose gravi, quanto alla F., ritenendo che M. non avesse accettato il rischio di procurare la morte o le lesioni alle due ragazze.
OMISSIS
Considerato in diritto
I ricorsi sono tutti infondati e vanno, pertanto, rigettati.
1. Il ricorso del Pubblico Ministero e della parte civile pongono la medesima questione di diritto e vanno, pertanto, affrontati unitariamente. A giudizio dei suddetti ricorrenti, il fatto è da qualificare in termini di omicidio preterintenzionale perché – fondamentalmente – l’imputato pose in essere atti diretti a percuotere o ferire, per cui l’evento morte (per C.) e l’evento lesioni (per F.) gli vanno imputati: non è ben chiaro se perché accettò il rischio del loro verificarsi, perché li previde in concreto, perché si trattava di eventi prevedibili o perché vanno loro imputati oggettivamente (le sole alternative che hanno giuridica rilevanza).
La tesi non può, comunque, essere condivisa.
1.1. Vale la pena fare, preliminarmente, chiarezza sui principi. Ai fini del delitto di omicidio preterintenzionale, l’elemento psicologico consiste nell’aver voluto (anche solo a livello di tentativo) l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che costituisce solo la conseguenza diretta della condotta dell’agente. Questa Corte ha anche precisato – innovando rispetto a precedente giurisprudenza – che l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p., assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato. Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto “de quo” è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa (Cass., n. 791 del 18/10/2012).
Elementi essenziali dell’omicidio preterintenzionale sono, pertanto, secondo l’espresso dettato normativo, “atti diretti” a percuotere e/o ferire; vale a dire, atti diretti ad esercitare una coazione fisica sulla persona – riconducibili alla previsione dell’art. 581 cod. pen., ovvero a quella dell’art. 582 – che abbiano, come fine ultimo, l’inflizione di una sofferenza (sia essa – nelle percosse – una sensazione di dolore o di fastidio; ovvero – nelle lesioni – una menomazione, anche temporanea, dell’integrità fisica). In ogni caso è richiesta, quindi, una violenta manomissione della fisicità del soggetto passivo, attuata contro la volontà di quest’ultimo. Di conseguenza, l’elemento psicologico del reato di percosse o lesioni è dato dalla coscienza e volontà di serbare una condotta violenta, tale da cagionare alla vittima una sensazione di dolore (nelle percosse) o una malattia (nelle lesioni).
Un siffatto elemento psicologico è stato ragionevolmente escluso dal giudice della sentenza impugnata, il quale ha rilevato che la condotta – posta in essere da M. col consenso di C. e F. – non era diretta a procurare alcuna sofferenza alle giovani malcapitate, ma, in ipotesi, un “piacere”, sia pure umanamente discutibile. E tanto basta ad escludere che sia stato realizzato – da M. – il presupposto dell’omicidio preterintenzionale, giacché un’attività ontologicamente rivolta (con tutte le riserve del caso) a procurare un piacere non può essere posta sullo stesso piano di un’attività rivolta a procurare una sofferenza, per l’ontologica diversità tra esse esistente. L’ontologicità della condotta – comprensiva di elemento oggettivo e soggettivo – non muta per il fatto che, nel caso esaminato, la condotta di M. era caratterizzata (anche) da pratiche costrittive, ovvero per il fatto che l’attività da lui spiegata avrebbe potuto, prevedibilmente, provocare delle abrasioni o delle ecchimosi sul corpo delle ragazze, giacché l’elemento soggettivo dei reati in questione non può essere individuato prescindendo dall’oggetto giuridico del reato, che è dato dalla tutela della incolumità individuale (ovvero, secondo certa dottrina, anche dalla “signoria dell’uomo sulla propria sfera senso-percettiva”), sicché solo le condotte coscientemente rivolte ad offendere il bene suddetto realizzano la tipicità del reato. Prova ne sia che, se si dovesse avere riguardo solo all’aspetto naturalistico della condotta e alle sue conseguenze, rientrerebbero nel fatto tipico anche condotte rivolte (non all’offesa, ma) alla tutela dell’integrità fisica (come la condotta del medico che incida sui tessuti del paziente per estirpare un male; la condotta del rianimatore che schiaffeggi la persona per farla rinvenire; ecc. ecc.). Vi rientrerebbero, assurdamente, anche le pratiche sessuali “normali”, le quali determinano, comunque, microlesioni – generalmente impercettibili – sul corpo dei praticanti (o effetti più appariscenti – quali ecchimosi, tumefazioni o graffi – a seconda delle modalità di consumazione del rapporto o della foga in esso profusa).
1.2. Tale impostazione non contrasta con l’orientamento di legittimità, richiamato da entrambi i ricorrenti (anzi, è da esso confermata), secondo cui il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale. Tale giurisprudenza è stata elaborata, infatti, proprio con riferimento a casi in cui la morte della vittima era conseguita a condotte rivolte a percuotere o ferire, poste in essere dall’agente o da un complice, ed era stata la conseguenza prevedibile della condotta tenuta (nel caso esaminato dalla sentenza n. 4237 del 11/12/2008 l’imputato aveva volontariamente sospinto, con la motrice di un camion, la vittima; nel caso esaminato dalla sentenza n. 44751 del 12/11/2008 l’imputato aveva concordato con altri l’esecuzione di una rapina, a cui era conseguita la morte del rapinato per effetto della condotta violenta del complice; nel caso esaminato dalla sentenza n. 40202 del 13/10/2010 l’imputato aveva sparato alcuni colpi di pistola contro un soggetto in fuga); vale a dire, di una condotta rivolta – comunque – a offendere il bene tutelato dagli artt. 581 e 582 c.p.. Conseguentemente, pertanto, e in coerenza coi principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha ritenuto, nei casi suddetti, che l’evento dovesse essere addebitato all’autore delle percosse o delle lesioni, siccome a queste collegato causalmente. Ma è evidente che i casi passati in rassegna non sono – per le ragioni sopra esposte – assimilabili a quello di cui si discute, per l’assenza della volontà di percuotere o ferire. Inconferenti sono, pertanto, tutte le disquisizioni sulla qualificazione della pratica di cui si discute (“bondage” o “breath playing”), giacché ciò che esclude la riconduzione delle pratiche suddette al concetto di “attività violenta” – inquadrabile nelle fattispecie di percosse o lesioni – è l’assenza della volontà di provocare sensazioni dolorose ai soggetti che ad esse si sottopongono. Né la natura di dette pratiche muta per il fatto che contengono elementi di costrizione, in sé neutri, o sono suscettibili di provocare sensazioni dolorose: queste sono richieste, infatti, e accettate, per imperscrutabili ragioni dell’animo umano, da coloro che si sottopongono alle pratiche in questione, per cui non sono idonee a mutare la qualificazione giuridica delle condotte da cui hanno origine.
1.3. Sotto altro profilo non può farsi a meno di considerare, poi, che i reati di lesioni e percosse presuppongono il dissenso della persona offesa rispetto alle attività violente su di lei esercitate. Dissenso insussistente nella specie, essendo certamente presente il consenso di C. e F. rispetto alle attività costrittive su di loro esercitate. Anche per questo motivo è da escludere che sia venuta ad esistenza la condizione principale per la configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale.
Le riserve sollevate da entrambi i ricorrenti sulla validità del consenso prestato dalle ragazze attengono, evidentemente, a questione di fatto, su cui il sindacato Corte della Corte di Cassazione può esercitarsi (esclusivamente) per la verifica della congruenza e logicità della motivazione. E la Corte territoriale, sottolineando che tutti i partecipanti al “gioco” avevano assunto “modiche quantità” di alcol e sostanza stupefacente e che le ragazze e M. avevano già esperienza del “gioco” (circostanze, queste, nemmeno messe in discussione dai ricorrenti), ha spiegato sufficientemente perché il consenso prestato da C. e F. non fosse da ritenere invalido. Certamente non è da ritenere invalido, poi, perché (circostanza sottolineata dal Pubblico Ministero ricorrente) “erano assolutamente imprevedibili le conseguenze della condotta del M.”, trattandosi di profilo attinente alla colpa, per come si dirà, e non certo alla efficacia scriminante del consenso; ovvero per contrasto con l’art. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, giacché, nella specie, il consenso prestato dalle ragazze non riguardò un atto del primo tipo, né atti del secondo tipo. È pacifico, invero, che non vi fu alcuna “disposizione” del proprio corpo da parte delle ragazze, mentre il luogo prescelto per il fatto non ha alcuna incidenza sulla validità del consenso, potendo, semmai, dar luogo ad autonoma responsabilità per violazione di altre norme amministrative o penali. Tanto, a prescindere dal fatto che – data la ratio dell’art. 527 c.p. – “luogo pubblico” non è quello di proprietà di un ente pubblico, ma quello a cui può accedere il pubblico, cosicché possa risultare violato il bene sotteso alla disposizione citata. Nella specie, nessun argomento è stato speso per spiegare perché al garage dell’Agenzia delle Entrate potessero accedere, all’ora e all’epoca del fatto, terze persone.
1.4. Di assoluta irrilevanza, infine, sulla ricostruzione dell’elemento psicologico del reato sono le dichiarazioni rese da M. nel corso della trasmissione televisiva del (omissis) (allorché riconobbe – secondo la parte civile ricorrente che “mettere le corde intorno al collo è pericoloso e non si deve fare”). A parte il fatto che si tratta di dichiarazioni rese, secondo la stessa ricorrente, dopo l’evento per cui è processo (e, quindi, allorché anche M. aveva capito, dopo l’esperienza vissuta, che “è pericoloso e non si deve fare”), resta il fatto che la pericolosità della condotta rimanda alle precauzioni adoperate per fronteggiarla, e quindi, eventualmente, alla colpa; non certo al dolo.
2. Il ricorso di M. è ugualmente infondato. La colpa cosciente è data, per unanime opinione, dalla previsione dell’evento, che l’agente ritiene di poter evitare, confidando nella sua abilità. Nella specie, il fatto che M. avesse previsto l’evento mortale – ma confidasse nella sua capacità di evitarlo – è stato dimostrato, oltre che con argomenti effettivamente poco conferenti, col sottolineare che aveva frequentato corsi di sado-masochismo, col fatto che aveva “bloccato” il nodo della corda posta intorno al collo delle ragazze e con l’evidente pericolosità della situazione da lui creta, che rendevano evidente, anche a persona poco accorta, il rischio di passare dal “gioco” alla tragedia. Dovendosi accertare uno stato psicologico, gli argomenti sopra esposti appaiono effettivamente dotati della carica di persuasività necessaria alla dimostrazione richiesta, perché conducenti rispetto al dato che si è inteso dimostrare, mentre le censure difensive non evidenziano nessuna incongruenza o illogicità argomentativa idonea a scardinare il ragionamento del giudicante. Le pretese “contraddizioni” nel ragionamento giudiziale – riportate in parte narrativa – non sono infatti tali (il “nodo bloccato” non rappresentava affatto una garanzia assoluta rispetto all’eventualità dello strangolamento; il fatto che le donne poggiassero con un piede per terra non diminuiva, sotto alcun profilo, il rischio connesso alla perdita dell’equilibrio), mentre i “presupposti erronei” – da cui, secondo il ricorrente, si sarebbero mossi i giudici di merito – sono assertivi, o riguardano dati soggettivamente e liberamente interpretati (il coltello per recidere le corde non era affatto a portata di mano, se si trovava, come riconosciuto dal ricorrente, nella sua auto, ovunque questa fosse parcheggiata).
Assertiva è anche la “patologia clinica” che colpì C.P., posto che il ragionamento difensivo non poggia su alcun atto processuale (che, infatti, non viene richiamato). Del resto, la sentenza impugnata si è espressa, sul punto, con parole inequivocabili (pagg. 9-10), che il ricorrente non si è nemmeno preoccupato di confutare, sicché non può che rilevarsi la genericità – sul punto della doglianza.
OMISSIS
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente M.S. e la ricorrente parte civile P.C. al pagamento, ciascuno, delle spese processuali.