Sentenza N. 335 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
08/10/1996
Data deposito/pubblicazione
08/10/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
30/09/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la
mafia), promosso con ordinanza emessa il 6 luglio 1995 dal Tribunale
di S. Maria Capua Vetere nel procedimento di prevenzione nei
confronti di Migliore Luigi, iscritta al n. 637 del registro
ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1995;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky;
prevenzione personali e patrimoniali nei confronti di persona
pericolosa, instaurato a norma della legge 31 maggio 1965, n. 575
(Disposizioni contro la mafia), il Tribunale di S. Maria Capua
Vetere, con ordinanza del 6 luglio 1995, ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 42 e 112 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2-ter, settimo comma, della legge n. 575
del 1965 citata, nella parte in cui non prevede che, oltre che nei
casi di assenza, o di residenza o dimora all’estero, anche nel caso
di morte della persona proposta il procedimento di prevenzione possa
essere iniziato o proseguito ai soli fini dell’applicazione dei
provvedimenti patrimoniali di sequestro e confisca dei beni che si
ritengono frutto di attività illecite o che ne costituiscono il
reimpiego.
2. – Nell’ordinanza di rinvio si riferisce che nel giudizio a quo,
dopo l’avvio del procedimento, in base alla richiesta del procuratore
della Repubblica competente, il Tribunale – previo svolgimento di
indagini ex art. 2-ter citato, primo comma – aveva disposto il
sequestro di alcuni beni che risultavano nella effettiva
disponibilità del proposto, pur se formalmente intestati a terzi
(familiari). In sede di esecuzione del provvedimento di sequestro,
peraltro, si era accertato che l’interessato era nel frattempo
deceduto, per morte violenta; il Tribunale procedente aveva quindi
sospeso l’esecuzione del provvedimento cautelare patrimoniale. Di qui
la proposizione della questione di costituzionalità, rilevante
perché pregiudiziale all’ulteriore iter del procedimento: solo
nell’ipotesi di accoglimento, osserva il giudice rimettente, il
procedimento di prevenzione potrebbe proseguire, con l’esecuzione del
sequestro, e poi essere definito, con la confisca o con la
restituzione dei beni; in caso contrario, allo stato della disciplina
positiva, esso dovrebbe concludersi immediatamente.
3. – Il Tribunale rileva in primo luogo che la precedente pronuncia
resa dalla Corte costituzionale su questione analoga (ordinanza n.
721 del 1988) era intervenuta su un tessuto normativo diverso da
quello applicabile al caso (perché precedente la stessa disposizione
impugnata dell’art. 2-ter, settimo comma, introdotta solo con la
legge 19 marzo 1990, n. 55).
Il rimettente muove quindi dalla ricognizione della generale
interdipendenza tra le misure personali e quelle patrimoniali, nel
senso che queste presuppongono quelle; sia in base alla disciplina
positiva che secondo la giurisprudenza, infatti, il sequestro può
intervenire solo nell’ambito di un procedimento già avviato per
l’applicazione della misura personale, e la confisca richiede
l’applicazione di quest’ultima. Questa configurazione generale del
sistema delle misure patrimoniali del resto confermata dalla stessa
Corte costituzionale, che – nella sentenza n. 465 del 1993 – ha
sostanzialmente affermato, anche se in una fattispecie particolare,
l’esigenza che la misura personale preceda quella reale.
Ma se indubbiamente esiste questo nesso in via di principio,
esistono pure – osserva il Tribunale – significative eccezioni, in
base alle quali prevista la possibilità di applicare una misura
preventiva patrimoniale senza doversi applicare ovvero eseguire una
misura di carattere personale.
Così è, in primo luogo, proprio in base all’impugnato settimo
comma dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, introdotto
dall’art. 2 della legge n. 55 del 1990, che consente di instaurare o
proseguire il procedimento, ai soli fini dell’applicazione della
misura patrimoniale, nei confronti di chi risulti “assente, residente
o dimorante all’estero”, e dunque verso soggetti passibili di
astratta irrogazione, ma non di concreta esecuzione, della misura
preventiva. Così è, analogamente, per il successivo ottavo comma
dell’art. 2-ter, relativo al caso in cui la persona sia sottoposta ad
una misura di sicurezza detentiva o alla libertà vigilata e pertanto
non possa essere soggetta all’applicazione della misura personale.
Così avviene, ancora, in base all’art. 14 della legge n. 55 del
1990, che consente l’adozione di provvedimenti cautelari e ablativi
nei confronti degli indiziati di appartenenza alle associazioni
dedite al traffico di stupefacenti, e che sembra permettere, ad
avviso del Tribunale, di prescindere dall’esistenza di un
provvedimento preventivo personale. Analoga scissione tra misura
personale e misura patrimoniale, infine, è contenuta negli artt.
3-quater e 3-quinquies della legge n. 575 del 1965, introdotti dal
decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del
1992, che consentono indagini e provvedimenti patrimoniali in
relazione a beni che “agevolino” l’attività della persona nei cui
riguardi sia proposta o applicata una misura preventiva personale; in
questa ipotesi, le misure reali ricadono su beni di persone terze,
senza il consueto collegamento in termini di disponibilità del bene
da parte del proposto.
D’altra parte, osserva il rimettente, anche nei procedimenti c.d.
atipici, regolati dai commi settimo ed ottavo dell’art. 2-ter
impugnato, la mancata applicazione della misura personale non esclude
il rilievo del presupposto generale dell’accertamento della
pericolosità soggettiva della persona, accertamento che viene
effettuato pur sempre dal giudice, anche se incidenter tantum: ciò
che il legislatore ha voluto evitare, in definitiva, è che la
pratica impossibilità di applicare concretamente una misura di
prevenzione personale a causa di vicende estranee al relativo
procedimento, come appunto l’assenza o l’allontanamento all’estero
del proposto, possa avere effetti paralizzanti sull’iter applicativo
della misura patrimoniale, di cui permangono le condizioni
legittimanti.
Nel raffronto con l’anzidetta disciplina, pertanto, l’ordinanza di
rinvio delinea un primo profilo di censura, riferito all’art. 3
della Costituzione: come nelle ipotesi richiamate, anche nel caso di
morte della persona si verifica una identica situazione di
interruzione del nesso fra la persona stessa e la misura patrimoniale
che dovrebbe sottostare alla medesima regolamentazione, perché anche
in tale evenienza i beni suscettibili di confisca sono “connotati dal
vizio genetico della illecita provenienza e … non possono essere
lasciati circolare sulla base del solo presupposto della
impossibilità di poterne ulteriormente godere per il proposto
deceduto”.
La disciplina impugnata, viceversa, viene a creare ingiustificate
disparità di trattamento nell’ambito dei soggetti terzi, intestatari
fittizi dei beni che sono in realtà disponibili dall’interessato:
terzi, come nella specie, che si “avvantaggiano” della morte del
proposto, rispetto a quelli intestatari dei beni del soggetto assente
o all’estero, che rimangono esposti alla possibilità di ablazione.
Ulteriori disparità sono poi ipotizzabili all’interno della stessa
categoria dei terzi nell’ambito del medesimo procedimento, a seconda
del momento in cui intervengono i provvedimenti patrimoniali
preventivi rispetto al decesso del proposto; nonché tra gli eredi di
quest’ultimo, che acquistano la titolarità dei beni se la morte
interviene prima della confisca, mentre ne sono privati in caso
contrario.
Tutte le anzidette differenziazioni risultano, in sostanza,
irragionevoli, alla luce della finalità ultima delle misure
preventive patrimoniali, volte a eliminare dalla circolazione
economica i beni che siano provento diretto o indiretto di attività
illegali.
4. – Alla notazione che precede si collega una seconda censura,
riferita al parametro dell’art. 42 della Costituzione.
La funzione sociale della proprietà privata richiede, secondo la
prospettazione del Tribunale, che la relativa tutela costituzionale
venga meno quando si tratta di beni di provenienza illegale, anche
quando questi beni pervengano nella disponibilità di soggetti terzi,
non interessati al procedimento di prevenzione.
In altri termini, la garanzia della proprietà in tanto varrebbe in
quanto possa assolvere la propria funzione sociale che consiste nella
sua capacità di favorire e incrementare lo sviluppo di altri diritti
costituzionalmente protetti. Ma se ciò non avviene, e se anzi si
verifica la “mortificazione” di quella funzione, il diritto di
proprietà diviene antisociale e ne viene meno la ragione di tutela;
una valutazione, questa, rispetto alla quale risulta ininfluente la
circostanza della esistenza in vita dell’interessato, proprio perché
si tratta di una antisocialità che segue il bene. E tra i beni e gli
interessi, costituzionalmente rilevanti, da valutare nell’ambito
della tutela della proprietà, vi sono le esigenze di garanzia
dell’iniziativa privata, il cui libero ed equilibrato esercizio viene
alterato da fattori estranei che ne inquinano le condizioni di
funzionamento; vi sono, inoltre, i profili della solidarietà sociale
ed economica, che trovano concretizzazione attraverso lo svolgimento
di attività lavorative legali, mentre le acquisizioni illecite, se
non contrastate, incrementano i vincoli intimidatori e rendono
“allettante” l’attività illegale finalizzata al profitto.
5. – Infine, il Tribunale individua un profilo di contrasto anche
con l’art. 112 della Costituzione, ravvisando nella disciplina
impugnata un ingiustificato impedimento all'”azione di prevenzione”,
che, pur distinta da quella penale in senso stretto, segue le regole
di giurisdizionalizzazione proprie del processo penale; una vicenda
come la morte del proposto non dovrebbe dunque avere alcuna efficacia
interruttiva del procedimento, relativamente alle misure
patrimoniali.
6. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato.
L’Avvocatura deduce l’inammissibilità o l’infondatezza della
questione, sul rilievo dell’analogia della questione rispetto a
quella già decisa con l’ordinanza n. 721 del 1988. Come allora, il
giudice a quo mira oggi a una pronuncia additiva che estenda la
confisca di prevenzione a ipotesi attualmente non previste; un
intervento, questo, di carattere normativo in ambito sanzionatorio, o
comunque limitativo di diritti, che, per costante giurisprudenza
della Corte, travalica i limiti del sindacato di costituzionalità.
Il rilievo, conclude l’Avvocatura, è risolutivo, e non valgono a
superarlo le argomentazioni del remittente incentrate sulle limitate
novità introdotte dal legislatore con i commi settimo e ottavo
dell’art. 2-ter impugnato.
di costituzionalità l’art. 2-ter, settimo comma, della legge 31
maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in
cui non prevede che, oltre che nei casi di assenza, di residenza o
dimora all’estero, anche nel caso di morte della persona interessata,
il procedimento di prevenzione possa essere iniziato o proseguito ai
soli fini dell’applicazione dei provvedimenti patrimoniali di
sequestro e confisca dei beni che si ritengono essere frutto di
attività illecite o costituirne il reimpiego.
Tale mancata previsione, ad avviso del giudice rimettente, darebbe
luogo a un’omissione incostituzionale, per violazione degli artt. 3,
42 e 112 della Costituzione: dell’art. 3, in quanto la norma
impugnata, non consentendo l’applicazione delle misure patrimoniali
di prevenzione quando il soggetto interessato sia defunto,
introdurrebbe un’irragionevole disparità di trattamento rispetto
alle ipotesi di assenza, di residenza o dimora all’estero, nonché
rispetto ad altre ipotesi – che il rimettente individua in quelle
previste dall’art. 2-ter, ottavo comma, e dagli artt. 3-quater e
3-quinquies della stessa legge n. 575 del 1965, nonché dall’art. 14
della legge 19 marzo 1990, n. 55 – nelle quali l’irrogazione delle
misure patrimoniali prescinde dalla previa irrogazione della misura
personale di prevenzione; dell’art. 42 con riferimento in particolare
alla “funzione sociale” della proprietà in esso prevista, in quanto
l’impossibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni del
sospettato che sia defunto consentirebbe il commercio di beni che il
legislatore considera “antisociali”, avendo una provenienza che si
sospetta illecita; dell’art. 112, in quanto la denunciata omissione
legislativa violerebbe l’obbligo di esercitare l’azione penale,
obbligo sotto il quale ricadrebbe l’impulso nel procedimento di
prevenzione.
2. – La questione, analoga a quella affrontata da questa Corte
nell’ordinanza n. 721 del 1988, è inammissibile, conformemente a
quanto allora deciso.
2.1. – Nel vigente sistema della legislazione di prevenzione
anti-mafia, come è riconosciuto dal giudice rimettente, l’adozione
di misure di ordine patrimoniale – il sequestro e la confisca –
accede normalmente all’applicazione delle misure di ordine personale,
secondo una scelta del legislatore che questa Corte ha ritenuto non
priva di ragionevolezza (sentenza n. 465 del 1993).
Il sequestro è disposto con decreto motivato, anche d’ufficio, dal
tribunale e riguarda i beni nella disponibilità diretta o indiretta
della persona nei cui confronti è iniziato il procedimento per
l’applicazione delle misure previste dall’art. 3 della legge 27
dicembre 1956, n. 1432 (Misure di prevenzione nei confronti delle
persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità),
beni i quali risultino di valore sproporzionato al reddito dichiarato
o all’attività economica svolta o che, sulla base di sufficienti
indizi, si ha motivo di ritenere che siano frutto di attività
illecite o che ne costituiscano il reimpiego (art. 2-ter, secondo
comma, della legge n. 575 del 1965). La confisca riguarda i medesimi
beni così sottoposti a sequestro e, a meno che non ne sia dimostrata
la legittima provenienza, è disposta dal tribunale con
l’applicazione della misura personale di prevenzione (art. 2-ter,
terzo comma, legge n. 575 del 1965). Il sequestro segue così
all’apertura del procedimento di prevenzione; la confisca, a sua
volta, segue al sequestro e presuppone l’adozione della misura di
prevenzione personale. Entrambi i provvedimenti possono essere
disposti anche in un secondo momento, purché entro determinati
limiti (prima della cessazione della misura personale di prevenzione,
ovvero, la sola confisca, entro un anno, prorogabile di un altro
anno, dalla data del sequestro: art. 2-ter, terzo e sesto comma,
della legge n. 575 del 1965, coordinati come indicato nella sentenza
n. 465 del 1993 di questa Corte).
Dal sistema legislativo vigente risulta dunque, come principio, che
le misure di ordine patrimoniale non hanno la loro ragion d’essere
esclusivamente nei caratteri dei beni che colpiscono. Esse sono
rivolte non a beni come tali, in conseguenza della loro sospetta
provenienza illegittima, ma a beni che, oltre a ciò, sono nella
disponibilità di persone socialmente pericolose, in quanto sospette
di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad altre alle prime
equiparate (art. 2-ter, secondo e quarto comma, della legge n. 575
del 1965). La pericolosità del bene, per così dire, è considerata
dalla legge derivare dalla pericolosità della persona che ne può
disporre.
A ciò è da aggiungere, peraltro, una differenza tra il sequestro
e la confisca, quanto alle conseguenze. Indipendentemente dai
problemi di natura classificatoria, è evidente che la confisca, pur
inserendosi in un procedimento di prevenzione, presenta caratteri che
vanno al di là di quelli propri del sequestro, “misura” definita da
questa Corte (sentenza n. 465 del 1993) di “ordine cautelare”,
inerente alla pericolosità di un soggetto e destinata a venir meno
cessando, con la pericolosità, le ragioni della cautela (si veda
l’art. 2-ter, quarto comma, della legge n. 575 del 1965). La
confisca, invece, comporta conseguenze ablatorie definitive (art.
2-nonies della legge n. 575 del 1965) e si distacca perciò dalla
contingente premessa che giustifica tanto il sequestro quanto tutte
le altre misure di carattere preventivo, valide “allo stato”, cioè
subordinatamente al permanere – oltre che degli altri presupposti –
della pericolosità del soggetto. La ratio della confisca comprende
ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel
sottrarre definitivamente il bene al “circuito economico” di origine,
per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che
caratterizzano il primo.
Ed è proprio su questa differenza che si basa quella recente
giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. penali, 17 luglio 1996, n.
18) che, in relazione alla confisca ma non al sequestro, ha affermato
come “punto di diritto” la non-caducazione della misura già disposta
per effetto del decesso del soggetto prima della definitività del
relativo provvedimento, sempre che i presupposti di indimostrata
legittima provenienza dei beni oggetto di confisca, da un lato, e di
pericolosità del soggetto, dall’altro, siano già stati
definitivamente accertati. Ciò si spiega per l’appunto perché la
ratio della confisca, a differenza di quella delle misure di
prevenzione in senso proprio, va al di là dell’esigenza di
prevenzione nei confronti di soggetti pericolosi determinati e
sorregge dunque la misura anche oltre la permanenza in vita del
soggetto pericoloso.
2.2. – È vero peraltro che, eccezionalmente, l’anzidetto nesso di
presupposizione tra le misure personali e quelle patrimoniali manca o
è attenuato.
Ciò avviene, come ricordato nell’ordinanza del giudice rimettente,
in alcune ipotesi inserite successivamente nel corpo della legge n.
575 del 1965. L’impugnato art. 2-ter, settimo comma, della legge n.
575, introdotto dall’art. 2 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove
disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e
di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale),
consente di instaurare o proseguire il procedimento nei confronti di
persona assente, residente o dimorante all’estero, alla quale
“potrebbe applicarsi” la misura di prevenzione personale, “ai soli
fini dell’applicazione dei provvedimenti” patrimoniali di sequestro e
confisca. L’ottavo comma del medesimo articolo (introdotto anch’esso
dall’art. 2 della legge 19 marzo 1990, n. 55) estende la medesima
possibilità nei confronti dei beni di persona già sottoposta a
misura di sicurezza detentiva o a libertà vigilata.
Il nesso tra la misura personale e quella patrimoniale è
ulteriormente allentato negli artt. 3-quater e 3-quinquies della
legge n. 575 del 1965 (introdotti dall’art. 24 del d.-l. 8 giugno
1962, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356), i quali,
per potenziare la difesa contro i fenomeni di ingresso nell’attività
economica e di strumentalizzazione della stessa da parte della
criminalità di tipo mafioso, prevedono la possibilità di
sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni e poi
eventualmente la loro confisca anche in ipotesi in cui i beni
sottoposti alla misura non siano nella disponibilità di persone
pericolose ma vengano impiegati per agevolarne l’attività.
E, infine, nelle anzidette ipotesi di superamento del nesso tra
misura personale e misura reale il giudice rimettente include –
secondo una ricostruzione interpretativa, formulata dubitativamente –
la previsione dell’art. 14 della legge n. 55 del 1990, che prevede
l’applicazione delle “misure di prevenzione di carattere
patrimoniale” relativamente a beni riferibili a soggetti “indiziati”
di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, ad
organizzazioni equiparate a norma dell’art. 1 della legge n. 575 del
1965, o ad associazioni operanti nel traffico degli stupefacenti,
ovvero riferibili a soggetti abitualmente dediti a traffici
delittuosi o che vivono abitualmente con i proventi di attività
delittuosa (art. 1, primo comma, nuneri 1 e 2, della legge n. 1423
del 1956), quando si ritenga che i proventi derivino da un’attività
prevista dagli artt. 629, 630, 644, 648-bis, 648-ter del codice
penale, o da attività di contrabbando.
Da questo quadro risulta che, fermo restando come ipotesi normale
il collegamento tra la misura patrimoniale e quella personale, in
alcuni casi quest’ultima può mancare. Ma ciò non significa –
contrariamente all’assunto del giudice rimettente, il quale trae
spunto dalle norme richiamate per sostenere l’avvenuta rottura del
nesso tra misure patrimoniali e quelle di prevenzione personale e
quindi la novità della presente questione rispetto a quella già
decisa nel senso dell’inammissibilità con la citata ordinanza n. 721
del 1988 – che il sequestro e la confisca si siano resi indipendenti
dall’esistenza di individuate persone pericolose, a vantaggio delle
quali i beni colpiti potrebbero, direttamente o indirettamente,
essere impiegati.
Nel caso dell’assenza e della residenza o della dimora all’estero,
la pronuncia della misura patrimoniale presuppone comunque una
valutazione di pericolosità della persona, come si ricava dal
sistema, è affermato dalla giurisprudenza ed è riconosciuto dallo
stesso giudice rimettente. In altri casi, la misura di prevenzione
personale è, per così dire, resa superflua o assorbita da altre
misure già in atto, come le misure di sicurezza, che presuppongono
anch’esse una valutazione di pericolosità della persona. In altri
ancora, la pericolosità viene dalla legge desunta dall’esistenza di
indizi di situazioni personali, anche penalmente rilevanti, di
particolare gravità. E, infine, vi sono ipotesi in cui la rilevanza
della pericolosità soggettiva è non abolita ma, per così dire,
spostata da chi ha la disponibilità economica dei beni a chi dal
loro impiego viene avvantaggiato nella propria attività criminosa.
Da tutto ciò si trae conferma del fatto che, pur in presenza di un
allargamento del campo di applicazione dello strumento di prevenzione
nei confronti della criminalità economica di matrice mafiosa o
equiparata – allargamento che, in alcune limitate ipotesi, ha fatto
venir meno la necessaria concorrenza tra il procedimento o il
provvedimento di prevenzione personale e il provvedimento
patrimoniale -, il legislatore è rimasto comunque fermo nel
richiedere, per l’emanazione dei provvedimenti di sequestro e di
confisca, un collegamento tra la cautela patrimoniale e l’esistenza
di soggetti individuati, da ritenere pericolosi alla stregua della
legislazione dettata per contrastare la criminalità mafiosa e quella
a questa equiparata.
3.1. – In tale quadro, pur indubbiamente caratterizzato da una
tendenza a rendere in taluni casi autonoma l’azione giudiziaria di
prevenzione reale da quella di prevenzione personale, la pronuncia
d’incostituzionalità prospettata dal giudice rimettente, rivolta a
integrare le previsioni dell’art. 2-ter, settimo comma, della legge
n. 575 del 1965, aggiungendo il decesso della persona sospettata alle
ragioni che già oggi consentono di separare le misure patrimoniali
da quelle personali e quindi di disporre le prime in assenza delle
altre, non rappresenterebbe una semplice razionalizzazione del
sistema, rispetto alle linee che già oggi lo caratterizzano,
operazione che possa essere condotta alla stregua dell’invocato art.
3 della Costituzione e del principio di razionalità che da tale
articolo deriva. Rappresenterebbe invece una vera e propria scelta
innovativa di politica criminale – conforme a quella in effetti a suo
tempo prospettata, ma senza esito, nella sede parlamentare, durante i
lavori preparatori della legge n. 55 del 1990 (Camera dei deputati, X
legislatura, II commissione, seduta del 20 settembre 1989) – che non
solo presupporrebbe l’autonomia dei due tipi di provvedimenti ma
travolgerebbe anche il principio, finora sempre tenuto fermo dal
legislatore, che l’adottabilità di misure patrimoniali consegue
all’esistenza di un rapporto tra beni colpiti e soggetti pericolosi
in grado di disporre di essi o di essere avvantaggiati dal loro
impiego, soggetti ai quali quindi, secondo l’espressione della
disposizione impugnata, “potrebbe applicarsi” la misura di
prevenzione personale, ciò che, con ogni evidenza, alla persona
defunta “non potrebbe”.
La pronuncia richiesta a questa Corte dal giudice rimettente non si
collocherebbe dunque all’interno del sistema legislativo vigente al
fine di razionalizzarne gli elementi costitutivi alla luce dell’art.
3 della Costituzione, ma rappresenterebbe un’innovazione conseguente
a una scelta di politica criminale la quale, in quanto tale, non
rientra nei poteri del giudice di costituzionalità delle leggi.
L’estraneità al sistema legislativo vigente del risultato
normativo cui mira il giudice rimettente rende dunque tuttora attuale
la ragione di inammissibilità fatta valere nell’ordinanza n. 721 del
1988 di questa Corte. L’affermazione, in essa contenuta, che “un
intervento di produzione normativa” quale quello ipotizzato allora
come ora, in particolare in materia sanzionatoria o, quanto meno,
limitativa di diritti, compete esclusivamente al legislatore e,
pertanto, esorbita dai poteri di questa Corte sta per l’appunto a
significare che la politica criminale spetta alla legislazione,
mentre al giudizio di costituzionalità delle leggi spetta la
garanzia degli inviolabili limiti che la Costituzione predetermina e
il legislatore incontra, a salvaguardia dei diritti individuali.
3.2. – Le predette considerazioni sull’estraneità ai poteri della
Corte costituzionale della pronuncia a essa richiesta valgono anche
rispetto agli altri profili della questione di costituzionalità
proposta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2-ter, settimo comma, della legge 31 maggio
1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 42 e 112 della Costituzione, dal Tribunale
di S. Maria Capua Vetere, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 30 settembre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria l’8 ottobre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola