Sentenza N. 142 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
16/07/1970
Data deposito/pubblicazione
16/07/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/07/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
– Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE
MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare),
promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa l’8 novembre 1968 dal tribunale di Udine nel
procedimento fallimentare di Pilutti Bruno, iscritta al n. 259 del
registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969;
2) ordinanza emessa il 12 giugno 1969 dal tribunale di Livorno nel
procedimento civile vertente tra Spadoni Aldo, la società Fincase e il
fallimento della ditta Lamplastic, iscritta al n. 392 del registro
ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 280 del 5 novembre 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 giugno 1970 il Giudice relatore
Michele Fragali;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Il tribunale di Udine e quello di Livorno con le ordinanze
rispettivamente dell’8 novembre 1968 e del 12 giugno 1969 hanno
denunciato a questa Corte l’art. 147 secondo comma del R.D. 16 marzo
1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare) per violazione dell’art. 24,
primo e secondo comma, della Costituzione; il tribunale di Udine ha
posto anche in dubbio che la norma predetta fosse in aderenza all’art.
3, primo comma, della Costituzione stessa e al successivo art. 25.
La norma sospettata di illegittimità costituzionale dispone che,
se, dopo la dichiarazione di fallimento di una società con soci a
responsabilità illimitata, risulta l’esistenza di altri soci
illimitatamente responsabili, il tribunale, su domanda del curatore o
d’ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in
camera di consiglio.
Essa, per il tribunale di Udine non concede adeguate garanzie di
difesa, perché il procedimento descrittovi è improntato ad estrema
sommarietà, le possibilità difensive dell’interessato si riducono
esclusivamente alla sua audizione in camera di consiglio, audizione che
non è intesa in senso uniforme dalla prassi, per cui talora si risolve
in un semplice interrogatorio a carattere inquisitorio, senza che
l’interessato abbia il diritto di farsi assistere dal difensore, di
prendere visione delle prove fornite dal curatore e di discuterle, dato
che generalmente consistono in qualche indizio, in presunzioni varie o
elementi ricavati dalla contabilità della società fallita e dal
fascicolo fallimentare. Il tribunale predetto ha rilevato inoltre che
l’accertamento di una società fatto dal giudice del fallimento ha,
come conseguenza la sottrazione del terzo al giudice naturale, e che il
processo dovrebbe svolgersi nelle forme di quello di cognizione
ordinario, secondo le norme ordinarie sulla competenza.
Il tribunale di Livorno ha rilevato, per sua parte, che la norma
impugnata preclude ad ogni creditore la possibilità di chiedere, sia
nell’ambito del processo fallimentare sia nelle forme del giudizio
ordinario, la dichiarazione di società relativamente ad una impresa
dichiarata fallita come impresa individuale; ha osservato, inoltre,
come il tribunale di Udine, che l’accertamento del rapporto sociale non
può sottrarsi all’ordinario processo di cognizione, perché
l’audizione dell’interessato in camera di consiglio non garantisce il
diritto di difesa.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri è comparso soltanto
nella causa promossa dal tribunale di Udine.
Ha obiettato che le diverse prassi notate sul modo dell’udienza di
camera di consiglio sono espressione o di diverso autonomo atteggiarsi
di difese o di non coincidenti iniziative dei tribunali, non di una
disuguaglianza normativa; ha opposto che lo stesso tribunale di Udine
riconosce che le difese degli interessati si esplicano davanti a certi
giudici anche con l’assistenza di persone tecnicamente qualificate, cui
è consentito di parlare e scrivere nei modi da esse ritenuti più
opportuni; ha rilevato che la norma in esame attribuisce a coloro ai
quali il fallimento viene esteso le stesse facoltà di difesa che
vengono attribuite al fallito, e cioè l’opposizione, l’appello e il
ricorso per cassazione; fa presente che il processo fallimentare esige
uno strumento di immediata efficacia, che non può consentire lo
svolgimento di una fase istruttoria prolungata e complessa, e consiglia
lo spostamento di tale fase nel momento successivo a quello della
dichiarazione di fallimento; che l’attribuzione al tribunale
fallimentare della cognizione del rapporto di società è una delle
tante applicazioni della vis attractiva del fallimento, ed è un
criterio di competenza risultante da una predeterminazione legale, di
rango eguale a quello più generale del foro del convenuto; che la
sottrazione della res iudicanda al giudice naturale si ha quando la
competenza nasce successivamente all’avverarsi del fatto sul quale il
giudice è chiamato a decidere.
3. – All’udienza del 3 giugno 1970 l’Avvocatura generale dello
Stato ha confermato le proprie tesi e conclusioni.
1. – Le due cause debbono essere decise con unica sentenza perché
concernono questioni identiche e connesse.
2. – È preliminare l’esame della questione concernente l’asserta
illegittimità costituzionale della norma che attrae nella sfera del
tribunale competente per il fallimento di una società a
responsabilità illimitata la controversia sulla dichiarazione del
fallimento di un nuovo socio.
Il dubbio all’uopo prospettato, che viene riconnesso al divieto di
distogliere dal giudice naturale, è rimosso dalla giurisprudenza di
questa Corte, per la quale giudice naturale precostituito è quello la
cui competenza è determinata dalla legge con riferimento a fattispecie
astratte, realizzabili in futuro, e non a posteriori; in relazione
cioè ad un fatto già verificatosi o ad una regiudicanda già insorta
(sentenze 3 luglio 1962 n. 88 e 4 luglio 1963 n. 130). Nella specie, la
competenza per le controversie di cui si è detto, per ragione di
connessione, è stabilita a priori dalla norma denunciata, e non lascia
adito a deroghe discrezionali; si pone sullo stesso piano dei criteri
che informano il sistema degli artt. 7 e seguenti del codice di
procedura civile, il quale, giova ricordarlo, poggia su una pluralità
di regole di collegamento, a seconda della materia controversa, e
contiene inoltre il principio generale della vis attractiva di una
determinata competenza a motivo della connessione. Questa Corte ha
ritenuto che la connessione è uno dei criteri fondamentali di
ripartizione del potere giurisdizionale, e provvede all’esigenza di
evitare incoerenze o incompletezze nell’esercizio del potere stesso
(sentenza 1 aprile 1958 n. 29 e sentenza citata 4 luglio 1963 n. 130).
Mai, come nella materia fallimentare, la regola del simultaneus
processus presenta presupposti di razionalità, avuto riguardo al
carattere generale dell’esecuzione fallimentare; che può attuare la
par condicio creditorum soltanto attraverso la concentrazione presso
unico giudice dei processi inerenti all’accertamento delle pretese
creditorie e alla formazione della massa attiva.
3. – La sommarietà alla quale è ispirato il procedimento previsto
nella norma denunciata non pregiudica il diritto di difesa, come invece
si sostiene nelle ordinanze di rimessione.
Nel processo di dichiarazione di fallimento preme la esigenza di
accertamenti rapidi e di pronta attuazione, che altra volta questa
Corte ha riconosciuto causa ragionevole di abbreviazione dei termini di
impugnativa dei provvedimenti degli organi fallimentari (sentenze 13
novembre 1962 n. 93 e 28 giugno 1963 n. 118; sentenza di pari data n.
141) e, nella specie, la sommarietà suddetta soddisfa alla necessità
di immediate misure conservative del patrimonio dell’insolvente o del
suo socio, che fa ritenere nociva all’interesse generale ogni remora
istruttoria.
Ma sommarietà del processo non deve significare eliminazione del
diritto di difesa: la predetta sentenza di pari data, nel ritenere che
il tribunale ex art. 15 legge fallimentare deve disporre la
comparizione dell’imprenditore prima di dichiararne il fallimento, ha
giudicato che, nell’occasione di tale audizione, deve essere dato alla
difesa il più ampio spazio compatibile con il carattere sommario ed
urgente della pronuncia che il giudice è chiamato ad emettere (una
più penetrante difesa potrà esperirsi nella fase di impugnazione di
tale pronuncia). Entro questi limiti, ma solo in essi, anche l’articolo
147, secondo comma, è illegittimo. Così della difesa risulta
pienamente assicurato lo scopo e la funzione.
Non si può obiettare che, nell’ipotesi del citato art. 147,
secondo comma, legge fallimentare, dovendosi accertare la più ampia
base soggettiva del rapporto sociale, la cognizione diviene complessa e
non si presta ad una delibazione. In pratica ciò non è esatto in
tutti i casi; ma se, in qualche ipotesi, l’indagine non risultasse
semplice, sorgerà soltanto l’esigenza di caute decisioni, date le
gravi conseguenze cui un’inconsulta pronunzia può dar causa, non
l’impossibilità di emettere un giudizio fondato sulla valutazione
degli elementi probatori acquisiti. Anche l’indagine sommaria richiede
un certo grado di approfondimento, e il giudizio conclusivo non può
essere basato su supposizioni o su congetture, che non potrebbero poi
resistere all’impugnazione: nel caso dell’art. 147, secondo comma, non
potrebbe sorgere necessità di indagini più complicate di quelle che
talora si richiedono per il riscontro dell’esistenza dei presupposti
del fallimento individuale. L’ordinamento non può precludere
provvedimenti di urgenza solo perché essi si collegano a fattispecie
di sostanza complessa; soddisfa ugualmente il diritto di difesa il
procedimento di controllo della pronuncia urgente, nel quale il
contraddittorio si svolgerà come nel giudizio di normale cognizione.
È un problema di politica processuale quello delle scelte concrete, il
cui esame sfugge alla competenza della Corte; e gli inconvenienti che
si sono esposti a proposito dell’applicazione della norma denunciata,
non sono rilevabili agli effetti del giudizio di legittimità
costituzionale.
L’art. 147, secondo comma, della legge fallimentare deve perciò
essere dichiarato illegittimo nella parte in cui non consente ai soci
illimitatamente responsabili di una società fallita di esercitare il
diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del procedimento
di camera di consiglio previsto per la dichiarazione di fallimento.
4. – Fondata è anche la questione di legittimità costituzionale
della norma predetta nella parte in cui nega al creditore la
legittimazione a domandare il fallimento del socio del fallito.
La disposizione si suole ricondurre al criterio che domina il
processo fallimentare, per cui, messo questo in movimento, non v’è
azione del creditore che non vi si debba inserire; ma l’applicazione di
tale principio non deve togliere al creditore la legittimazione a
proporre istanze al giudice fallimentare a tutela del proprio
interesse, compatibilmente con la struttura del processo fallimentare.
Il creditore ha poteri di iniziativa per la dichiarazione di fallimento
e questo potere non deve mancargli quando trattasi di implicare i soci
del fallito nel concorso generale: l’istanza del creditore, in tal
caso, non sbocca in una di quelle azioni esecutive individuali che, per
il carattere generale del concorso fallimentare, sono vietate dall’art.
51 della legge speciale, ma intende dare al procedimento concorsuale la
sua giusta dimensione. Deve necessariamente esercitarsi mediante
ricorso al tribunale, così come è prescritto nell’art. 6 della legge
stessa; e non viene perciò a turbare le linee del procedimento o a
modificarne i principi, così come non turba queste linee e non ne
modifica i principi la domanda del curatore ammessa nella stessa norma
denunciata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, secondo
comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare), nelle
parti in cui:
a) non consente ai soci illimitatamente responsabili l’esercizio
del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del
procedimento di camera di consiglio prescritto per la dichiarazione di
fallimento;
b) nega al creditore interessato la legittimazione a proporre
istanza di dichiarazione di fallimento di altri soci illimitatamente
responsabili nelle forme dell’art. 6 del regio decreto predetto.
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
della norma già citata, proposta con le ordinanze su indicate in
riferimento agli artt. 3 e 25, primo comma, della Costituzione, nella
parte in cui attrae nella competenza del tribunale fallimentare la
causa di dichiarazione di fallimento degli altri soci illimitatamente
responsabili di una società fallita, e assoggetta i necessari
accertamenti ad indagini di carattere sommario.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI.