Sentenza N. 408 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
14/12/1998
Data deposito/pubblicazione
14/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/12/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
comma, 3, primo comma, lett. c) ed f), 4, primo comma, secondo comma
e terzo comma, lett. a), 8, 9 e 20, commi dal primo al settimo, legge
15 marzo 1997, n. 59, recante “Delega al Governo per il conferimento
di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma
della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa”, e degli artt. 1, 2, 3, 8 e 9 del d.lgs. 28 agosto
1997, n. 281, recante “Definizione e ampliamento delle attribuzioni
della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e
le Province autonome di Trento e di Bolzano ed unificazione, per le
materie ed i compiti di interesse comune delle Regioni, delle
Province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie
locali”, promossi con ricorsi della Regione Siciliana e della Regione
Puglia, notificati il 15 e 16 aprile ed il 26 e 29 settembre 1997,
depositati il 19 e 24 aprile ed il 4 e 6 ottobre 1997,
rispettivamente iscritti ai nn. 34, 35, 61 e 62 del registro ricorsi
1997.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 21 aprile 1998 il giudice relatore
Valerio Onida;
Uditi gli avvocati Giovanni Pitruzzella e Giovanni Lo Bue per la
Regione Siciliana, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione
Puglia e l’avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
aprile 1997 (Reg. ric. n. 34 del 1997), la Regione Siciliana ha
proposto questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 20, 14, 15 e 17 dello statuto speciale nonché agli artt.
3, 5, 114 e 118 della Costituzione, degli articoli 8 e 9 della legge
15 marzo 1997, n. 59, per errore indicata come n. 50 (Delega al
Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed
enti locali). La ricorrente premette che la legge censurata, che per
altri profili avrebbe compiuto una chiara opzione per la
valorizzazione delle autonomie territoriali, si sarebbe ispirata ad
un modello di organizzazione dei livelli di governo che comporta
l’equiparazione di Regioni, Province e comuni, modello non
rispondente all’attuale Costituzione, che sancisce la differente
garanzia costituzionale delle Regioni rispetto a quella degli enti
locali, tanto più se si ha riguardo alle Regioni speciali. Tale
scelta emergerebbe sin dai primi quattro articoli della legge, che
attribuirebbero sostanzialmente al Governo la ripartizione delle
funzioni tra il livello regionale e quello locale, articoli che
peraltro la Regione Siciliana dichiara di non impugnare sul
presupposto che essi non si applichino al suo ordinamento. Viene
impugnato invece l’art. 9 della legge, che, prevedendo l’unificazione
della Conferenza Stato-Regioni-Province autonome con quella
Stato-città e autonomie locali, inciderebbe direttamente sulla
posizione della Regione Siciliana, per l’effetto di svuotamento del
ruolo differenziato rispetto agli enti locali che ad essa deve essere
riconosciuto. Emergerebbero profili di contraddittorietà dell’art.
9, che “consolida” la conferenza Stato-città, con precedenti scelte
legislative che optavano invece per un sistema di necessaria
intermediazione regionale nei rapporti fra Stato ed enti locali,
così che potrebbe prospettarsi la irragionevolezza della
disposizione impugnata. Ma, soprattutto, essa contrasterebbe con il
sistema costituzionale, che comporterebbe la netta differenziazione
della posizione delle Regioni, in particolare di quelle speciali,
rispetto agli enti locali, differenziazione da cui dovrebbe
discendere che la Regione ha la padronanza del sistema amministrativo
interno e che le relazioni centro-periferia sono relazioni fra lo
Stato e le Regioni. Alla giusta preoccupazione di evitare i rischi di
un centralismo regionale altre dovrebbero essere, secondo la
ricorrente, le risposte, come l’applicazione del principio di
sussidiarietà e l’inserimento degli enti locali nei processi
decisionali regionali. La ricorrente ipotizza, come conseguenza
estrema delle sue premesse, una censura di legittimità
costituzionale nei confronti della stessa previsione di una
conferenza Stato-città: ma afferma che, anche a non voler accedere
ad una soluzione radicale, l’art. 9 in esame sarebbe in contrasto con
la Costituzione poiché, a seguito dell’unificazione della conferenza
Stato-città con quella Stato-Regioni, la prima, da semplice
organismo di informazione e di confronto, diverrebbe organo che
interviene in processi decisionali relativi a decisioni di alta
amministrazione immediatamente incidenti nell’ordinamento regionale,
come la formazione di intese e la determinazione in via diretta del
contenuto di atti di indirizzo e di programmazione. In subordine,
poi, la Regione sostiene che sarebbe quanto meno necessario
differenziare, nella conferenza unificata, la posizione delle Regioni
e degli enti locali, almeno sotto il profilo delle quote di
rappresentanza, a favore delle Regioni: mentre nulla disporrebbe in
proposito la disposizione impugnata. Sarebbe inoltre
costituzionalmente illegittima la previsione della lettera a del
comma 1 dell’art. 9, secondo cui la conferenza unificata partecipa a
tutti i processi decisionali anche di interesse “interregionale e
infraregionale”, incidendo così sull’autonomia amministrativa e
organizzativa della Regione nei suoi rapporti con gli enti locali o
in quelli da essa autonomamente determinati con altre Regioni.
2. – La Regione Siciliana impugna altresì l’art. 8 della legge n.
59, in tema di atti di indirizzo e coordinamento. In primo luogo
censura la lettera c del comma 5, ai sensi della quale è
parzialmente abrogato l’articolo 2, comma 3, lettera d, della legge
23 agosto 1988, n. 400, che includeva fra gli atti sottoposti al
Consiglio dei ministri quelli di indirizzo e coordinamento, nel
rispetto, per quanto riguarda le Regioni speciali, delle relative
disposizioni statutarie. In tal modo, da un lato sarebbe scomparso
l’obbligo di conformare l’esercizio della funzione di indirizzo agli
statuti speciali, col rischio di una “particolare pervasività” della
funzione; dall’altro verrebbe meno la riserva “in via tendenziale” al
Consiglio dei ministri della funzione di indirizzo, in contrasto
anche con gli artt. 92 e 95 della Costituzione, dai quali dovrebbe
discendere la concentrazione nell’organo collegiale di governo dei
poteri di indirizzo politico e amministrativo. In secondo luogo,
sarebbe censurabile la previsione dell’art. 8, comma 3, secondo cui
in caso di urgenza il Governo potrebbe adottare atti di indirizzo e
coordinamento prescindendo dalle procedure di intesa preventiva con
la conferenza Stato-Regioni, posto che in caso di effettiva urgenza
l’ordinamento appresta altri strumenti, come il decreto legge e i
poteri di ordinanza, mentre la previsione in questione si presterebbe
a possibili e frequenti abusi. In terzo luogo, sarebbe
incostituzionale il comma 2 dell’art. 8 nella parte in cui prevede
che, ove l’intesa non sia raggiunta entro un certo termine, gli atti
di indirizzo possono essere adottati dal Consiglio dei ministri
previo parere della commissione parlamentare per le questioni
regionali. Non si contesta la previsione di un meccanismo diretto a
superare situazioni di blocco, ma la circostanza che non si indica
che, per ricorrere legittimamente a tale meccanismo, il Governo deve
avere tenuto un comportamento leale, effettivamente diretto a
raggiungere l’intesa. Infine, l’intero art. 8 si porrebbe in
contrasto con la Costituzione in quanto non menziona il principio,
affermato nella consolidata giurisprudenza di questa Corte, per cui
l’esercizio della funzione statale di indirizzo e coordinamento deve
conformarsi al principio di legalità sostanziale, onde occorrono
sempre norme specifiche di legge che fondino l’esercizio della
funzione in un determinato ambito e delimitino il possibile contenuto
sostanziale degli atti di indirizzo.
3. – Si è costituito nel giudizio il Presidente del Consiglio,
sostenendo in primo luogo che il ricorso sarebbe inammissibile in
quanto la legge di delega n. 59 del 1997 riguarderebbe solo le
Regioni a statuto ordinario. In subordine, l’Avvocatura erariale
sostiene che, quand’anche dovesse ritenersi applicabile alla Regione
Siciliana la norma dell’art. 9 relativa all’unificazione della
conferenza Stato-Regioni con la conferenza Stato-città, resterebbero
comunque rispettate le competenze previste nello statuto speciale,
atteso il diverso rango delle due normative, mentre il concreto
mancato rispetto di tale limite potrebbe riscontrarsi solo in sede di
esame dei decreti legislativi: onde anche sotto questo profilo il
ricorso sarebbe inammissibile. Per quanto attiene all’art. 8 della
legge, la difesa del Presidente del Consiglio rileva che esso
costituisce una disposizione di tipo procedimentale sull’esercizio
della funzione di indirizzo e coordinamento, senza pregiudizio delle
corrette modalità di esercizio che dovranno, di volta in volta,
basarsi su specifiche norme di legge: onde non avrebbe pregio la
censura di violazione del principio di legalità sostanziale. Non
sarebbe poi ravvisabile nella Costituzione una riserva al Consiglio
dei ministri della funzione di indirizzo e coordinamento, né
sarebbero irragionevoli i meccanismi previsti per le situazioni di
urgenza o di mancata intesa del Governo con la conferenza
Stato-Regioni, dovendosi sempre presumere il richiamo alla leale
collaborazione.
4. – Gli articoli 1; 2, comma 2; 3, comma 1, lettere c ed f; 4,
commi 1, 2, 3, lettera a e 5; 8; 9, comma 1; 20, commi da 1 a 7,
della legge n. 59 del 1997 sono stati impugnati dalla Regione Puglia
con ricorso notificato il 16 aprile 1997 e depositato il 24 aprile
1997 (Reg. Ric. n. 35 del 1997). Premesso che la legge nel suo
insieme appare ispirata ad un complessivo disegno di riduzione delle
garanzie dell’autonomia regionale, il cui ruolo verrebbe, negli artt.
1 e 2, incostituzionalmente equiparato a quello degli enti locali, un
primo gruppo di censure riguarda la delega di cui all’art. 1 della
legge e le ulteriori specificazioni contenute negli artt. 2, 3 e 4.
Si afferma in primo luogo l’illegittimità della previsione di un
generico “conferimento” di funzioni a Regioni ed enti locali (art.
1, comma 1), che unificherebbe in tale concetto nozioni da tenere
distinte, come trasferimento e delega di funzioni, previsti dalla
Costituzione nei riguardi delle Regioni, ed attribuzione di funzioni,
prevista nei riguardi degli enti locali; nonché della equiparazione
delle potestà normative spettanti a Regioni, Province e comuni, che
si attuerebbe con l’art. 2, comma 2 (ai cui sensi “in ogni caso la
disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni
sarà disposta, secondo le rispettive competenze e nell’ambito della
rispettiva potestà normativa, dalle Regioni e dagli enti locali”).
Sempre secondo la ricorrente, l’oggetto della delega sarebbe solo
apparentemente precisato, poiché, elencandosi non le materie da
trasferire, bensì quelle che rimangono in capo allo Stato, si
avrebbe solo un’indicazione di ciò che non è oggetto di delega.
D’altra parte questa formulazione della delega sarebbe solo
apparentemente vantaggiosa per le Regioni, in quanto esse dovrebbero
comunque attendere le determinazioni statali per intervenire nelle
nuove materie; e le competenze non riservate allo Stato sono
destinate genericamente a Regioni ed enti locali, così
sostanzialmente parificandosene la collocazione costituzionale, e
“decostituzionalizzando” le garanzie a favore delle Regioni, messe
alla mercé della legge ordinaria. Nell’art. 4, comma 3, lettera a,
il criterio di sussidiarietà sarebbe utilizzato, in violazione
dell’art. 115 della Costituzione, in funzione antiregionalista, in
quanto da un lato le competenze vengono attribuite dallo Stato a
tutti gli enti, illegittimamente equiparati, dall’altro lato le
Regioni dovranno conferire agli enti locali tutte le funzioni, nelle
materie dell’art. 117 della Costituzione, che non richiedano
l’esercizio unitario a livello regionale. Sarebbe infine
incostituzionale la previsione, nell’art. 4, comma 5, di un potere
sostitutivo dello Stato, da esercitarsi con decreti legislativi, nel
caso di inadempimento della Regione, entro il termine stabilito,
all’obbligo di individuare puntualmente le funzioni trasferite o
delegate agli enti locali e quelle mantenute in capo alla Regione
medesima. Tale delega al Governo non risponderebbe ai requisiti
costituzionali, in quanto sarebbe incerta nell’an, non sapendosi se
le Regioni saranno inadempienti, e nel quomodo mancando i principi
della distribuzione delle competenze; e avrebbe un oggetto eventuale,
definibile solo ex post in ragione di un comportamento illegittimo
della Regione. Sarebbero pertanto violati gli articoli 76, 5, 115,
117, 118 e 119 della Costituzione.
5. – Un secondo gruppo di censure, per contrasto con gli artt.
della Costituzione, si appunta sull’art. 9 della legge, concernente
l’unificazione della conferenza Stato-Regioni con la conferenza
Stato-città. La Regione ricorrente, premesso che la conferenza
Stato-Regioni costituirebbe “un punto insostituibile ed
irretrattabile, a Costituzione vigente, del raccordo tra lo Stato e
le Regioni”, nonché “lo strumento essenziale”, per la leale
cooperazione, lamenta che con la unificazione si avrebbe un organo
della composizione variabile, posta nella discrezionalità del
Governo, in cui si confronterebbero soggetti, come le Regioni, le cui
funzioni e compiti sono garantiti dalla Costituzione, con soggetti le
cui funzioni sono determinate da leggi ordinarie. Proprio in base al
principio di sussidiarietà, il luogo naturale per la collaborazione
e il coordinamento tra Regione ed enti locali si collocherebbe
nell’ambito regionale; mentre spostare a livello nazionale la sede
del coordinamento finirebbe oltre tutto per favorire esclusivamente
le grandi città. Anche la Regione Puglia censura poi specificamente
la lettera a del comma 1 dell’art. 9, ove si prevede che la
conferenza Stato-Regioni partecipa anche ai processi decisionali di
interesse interregionale e infraregionale, ciò che inciderebbe
sull’autonomia amministrativa e organizzativa delle Regioni nei
rapporti con gli enti locali e in quelli autonomamente determinati
con le altre Regioni. Infine la Regione osserva che non vale ad
escludere l’illegittimità dell’art. 9 la circostanza che
l’unificazione delle due conferenze riguarda solo le materie e i
compiti di interesse comune delle Regioni e degli enti locali,
poiché l’impostazione della legge di delega farebbe sì che tutte le
materie e i compiti non statali apparirebbero, incostituzionalmente,
comuni a Regioni ed enti locali.
6. – Un terzo gruppo di censure riguarda l’art. 8 della legge in
tema di esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. La
disciplina dettata intenderebbe far venir meno la possibilità
dell’esercizio della funzione di indirizzo in via legislativa a
favore di una procedura tutta amministrativa in cui lo Stato si
riserverebbe “un forte potere di supremazia sovrana”. Perciò la
disciplina contrasterebbe con gli artt. 5 e 118 della Costituzione e
con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che richiede il
rispetto del principio di legalità sostanziale e la spettanza della
deliberazione dell’atto di indirizzo al Consiglio dei ministri.
Dubbi di legittimità, in base agli stessi parametri, susciterebbe
altresì la previsione che in caso di urgenza si possa provvedere
senza intesa preventiva con la conferenza Stato-Regioni, previsione
che si presterebbe ad un uso improprio e distorto di uno strumento di
intervento straordinario.
7. – Una ulteriore censura è mossa dalla Regione ricorrente nei
confronti del disposto di cui all’art. 3, lettera c, della legge,
secondo cui in sede di emanazione dei decreti delegati dovranno
essere individuate le forme di cooperazione strutturali e funzionali,
prevedendosi controlli sostitutivi statali e la presenza di
rappresentanti statali nelle strutture di raccordo. Esso sarebbe in
contrasto con l’art. 9, lettera b, che richiede la concentrazione
delle forme di raccordo nella conferenza Stato-Regioni, e sarebbe di
dubbia legittimità in riferimento agli artt. 5, 117, 118, 119 e 123
della Costituzione, in quanto le forme di cooperazione che operino a
livello regionale o infraregionale spetterebbero alle Regioni stesse,
e forme di cooperazione operanti a livello nazionale sarebbero bensì
possibili quando siano coinvolti interessi di rilievo nazionale, ma
sarebbe illegittima la presenza di poteri statali sostitutivi
all’infuori dei limitati casi in cui occorra salvaguardare un valore
costituzionale fondamentale.
8. – La ricorrente afferma che sarebbe di dubbia legittimità
costituzionale l’art. 3, lettera f, il quale prevede la possibilità
per l’amministrazione dello Stato di avvalersi di uffici regionali e
locali (d’intesa con gli enti interessati o con gli organismi
rappresentativi degli stessi). In ogni caso, sarebbe grave che la
disposizione in oggetto non preveda la condizione della necessaria
copertura finanziaria degli oneri aggiuntivi da parte della
amministrazione statale. Sussisterebbe dunque la violazione degli
artt. 118 e 119 della Costituzione.
9. – Da ultimo, la Regione Puglia, rilevato come sia
particolarmente oscura la portata dei primi sette commi dell’art. 20
della legge, afferma che, se da essi si volesse dedurre che
regolamenti di delegificazione statali possano intervenire in materie
di competenza regionale, operando fino alla nuova disciplina
regionale, ciò contrasterebbe con il principio, affermato nella
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i regolamenti governativi
non sono legittimati a disciplinare materie di competenza regionale,
e lo strumento della delegificazione non può operare per fonti di
diversa natura, tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di
gerarchia.
10. – Si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri,
chiedendo che il ricorso della Regione Puglia sia dichiarato
inammissibile o comunque infondato. In ordine all’art. 1 della
legge, l’Avvocatura erariale afferma che l’impiego della formula
comprensiva di “conferimento” di funzioni non comporta
un’equiparazione fra i diversi soggetti destinatari, a ciascun gruppo
dei quali la previsione normativa si applicherà nel rispetto delle
specifiche peculiarità. Quanto poi alla censura relativa al criterio
di identificazione delle funzioni da conferire, l’Avvocatura rileva
che essa presenta aspetti di paradossalità, investendo una norma
ispirata al massimo favore regionalista; che il trasferimento dovrà
avere ad oggetto, secondo quanto chiariscono i commi 2, 3 e 4
dell’art. 1, tutte le funzioni e i compiti amministrativi
localizzabili nel territorio di competenza, in atto svolti dallo
Stato o da altri soggetti pubblici, esclusi soltanto le funzioni e i
compiti espressamente elencati, senza che residui alcun potere
discrezionale al legislatore delegato. La censura sarebbe, sotto tale
profilo, inammissibile, prima ancora che infondata. Né sarebbe dato
di vedere come potrebbe il legislatore delegato privilegiare gli enti
locali a danno delle Regioni, senza violare i principi di località e
di sussidiarietà, espressamente richiamati dalla legge. Per le
stesse ragioni non sarebbero fondate le censure relative all’uso del
criterio di sussidiarietà. In ordine alla delega al Governo per la
disciplina in via sostitutiva delle funzioni degli enti locali,
prevista dall’art. 4, comma 5, della legge, la difesa del Presidente
del Consiglio sostiene anzitutto che la censura mossa dal ricorso
sarebbe inammissibile, in quanto volta a lamentare una
incostituzionalità generica della norma senza assumere che tale
vizio ridondi in lesione della sfera di competenza regionale.
Comunque, l’oggetto della delega non sarebbe indefinito, ma solo
condizionato all’inadempimento regionale; e i principi e criteri
direttivi sarebbero quelli elencati nei precedenti commi dello stesso
art. 4. Quanto all’unificazione delle conferenze Stato-Regioni e
Stato-città, prevista dall’art. 9 della legge, si osserva che la
logica che presiede al nuovo istituto è la stessa che presiede alle
conferenze dei servizi, cioè l’esame contestuale, da parte dei
rappresentanti di tutti gli interessi da ponderare, dei problemi di
interesse comune. Solo i decreti delegati, che dovranno definire
forme e modalità della partecipazione dei rappresentanti degli enti
locali, potrebbero, in ipotesi, ledere in concreto le competenze
regionali: onde la censura sarebbe allo stato inammissibile.
Sull’art. 8, in tema di indirizzo e coordinamento, l’Avvocatura
contesta le censure mosse dal ricorso con gli stessi argomenti, sopra
esposti al punto 3, usati per replicare alle analoghe censure mosse
allo stesso articolo dal ricorso della Regione Siciliana, osservando
inoltre che la scelta dei meccanismi previsti per le situazioni di
urgenza o di mancata intesa appartengono alla insindacabile
discrezionalità del legislatore, in assenza di parametri
costituzionali di riferimento. Quanto all’art. 3, lettera c, osserva
che l’eventuale difetto di chiarezza e coordinamento della norma non
concreterebbe un vizio di costituzionalità, e che l’estrema
genericità delle previsioni non consente di configurare un attentato
alle prerogative regionali finché non saranno emanati i decreti
delegati: la censura sarebbe pertanto inammissibile. In ordine alla
censura concernente la utilizzazione da parte dello Stato degli
uffici regionali (art. 3, lettera f), si afferma che l’avvalimento è
tipica forma di collaborazione fra enti pubblici, e che la copertura
finanziaria attiene alle modalità e condizioni che i decreti
delegati dovranno disciplinare: l’attuale censura sarebbe dunque
inammissibile. In merito all’art. 20 della legge, infine,
l’Avvocatura afferma che si tratta di censura puramente ipotetica, e
che l’interpretazione su cui essa si fonda è errata. I sei commi
dell’articolo 20 conterrebbero sia disposizioni procedimentali sulla
delegificazione, sia criteri sostanziali di semplificazione cui i
regolamenti dovranno attenersi. Le disposizioni costituenti principi
generali dell’ordinamento giuridico e destinate ad operare
direttamente fino a più puntuale normazione regionale, ai sensi del
comma 7 dell’art. 20, non potrebbero che essere quelle sostanziali:
onde sarebbe pacifico che la delegificazione di cui ai primi commi
dell’art. 20 non si applichi alle leggi regionali.
11. – Con successivo ricorso, notificato il 26 settembre 1997 e
depositato il 4 ottobre 1997 (Reg. Ric. n. 61 del 1997), la Regione
Siciliana ha promosso questione di legittimità costituzionale, in
riferimento agli artt. 14, 15, 17 e 20 dello statuto speciale,
nonché agli artt. 3, 5, 92, 95, 115, 117, 118 e 119 della
Costituzione, degli artt. 1, 2, 8, commi 1 e 4, e 9 del d.lgs. 28
agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni
della conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e
le province autonome di Trento e di Bolzano ed unificazione, per le
materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle
province e dei comuni, con la conferenza Stato-città ed autonomie
locali). La ricorrente ricorda che le disposizioni impugnate sono
state emanate sulla base della delega conferita al Governo dall’art.
8 (recte: 9) della legge n. 59 del 1997, e afferma che esse sono
affette dagli stessi vizi che inficiano quest’ultimo, a sua volta
impugnato con il ricorso di cui si è detto sopra, al n. 1. Il
ricorso ripropone i profili e gli argomenti del precedente, e
conclude sostenendo che le censure mosse comportano l’illegittimità
costituzionale delle norme del decreto legislativo n. 281 del 1997,
ed in particolare degli articoli impugnati, “nella parte in cui
unificando la conferenza Stato-regioni e quella Stato-città, per
compiti e materie di interesse comune, non prevedano una qualche
forma di preminenza nel processo decisionale delle regioni”. Più
evidente sarebbe, in ispecie, la violazione delle norme statutarie ad
opera delle disposizioni impugnate “nella parte in cui paiono
consentire di ritenere le determinazioni assunte nella conferenza
unificata, con il dissenso della Regione Siciliana, vincolanti anche
nei confronti di quest’ultima, pure in relazione alla sfera dei
rapporti tra la regione e gli enti locali siciliani ovvero con
riguardo all’ordinamento ed all’attività di questi ultimi”.
12. – Si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri,
chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o comunque
infondato. Esso sarebbe inammissibile in quanto la legge di delega n.
59 del 1997 e il decreto legislativo delegato n. 281 del 1997
riguarderebbero esclusivamente le regioni ordinarie. L’Avvocatura
osserva poi che, anche se si ritenessero applicabili alla regione
Siciliana l’art. 9 della legge e il decreto delegato,
l’applicabilità della normativa resterebbe comunque limitata alla
parte in cui non confligge con le sovraordinate disposizioni dello
statuto speciale: e che, in ogni caso, le competenze della conferenza
unificata attengono a quegli aspetti sui quali vi sia un sovrapporsi
di competenze statali, regionali e locali, al fine di effettuarne
l’opportuno coordinamento, secondo la logica delle conferenze di
servizi.
13. – Con ricorso notificato il 29 settembre 1997 e depositato il 6
ottobre 1997 (Reg. Ric. n. 62 del 1997) la regione Puglia ha
impugnato a sua volta il decreto legislativo n. 281 del 1997, e in
particolare gli artt. 2, 3, 8 e 9, per violazione degli artt. 5, 115,
117, 118, 76 e 97 della Costituzione, nonché dell’art. 9 della legge
n. 59 del 1997 e del decreto del Presidente della Repubblica n. 616
del 1977. Con un primo motivo la ricorrente sostiene che gli artt. 8
e 9 del decreto impugnato, che disciplinano l’unificazione della
conferenza Stato-regioni con la conferenza Stato-città, nonché le
modalità di convocazione e le funzioni della conferenza unificata,
rappresenterebbero “la spia più evidente di un tentativo di
decostituzionalizzare le garanzie dell’autonomia regionale”,
equiparandola anche negli strumenti e nelle procedure a quella degli
enti locali. Richiamate le argomentazioni già svolte nel precedente
ricorso a sostegno dell’incostituzionalità dell’art. 9 della legge
di delega, la ricorrente afferma che è sintomatico di un
atteggiamento poco rispettoso del rapporto Regione-autonomie locali
l’art. 2 del decreto legislativo, che pone a fondamento delle
attribuzioni della conferenza Stato-Regioni il fine di garantire la
partecipazione delle regioni anche ai processi decisionali “di
interesse interregionale ed infraregionale”, così incidendo
sull’autonomia organizzativa e amministrativa delle regioni. Afferma
poi che affiora a livello interpretativo la tendenza a rendere
definitivamente comuni a regioni ed enti locali tutte le materie non
statali, come emergerebbe dalla tendenza a tornare ad una
interpretazione restrittiva delle materie di cui all’art. 117 della
Costituzione, per poter assegnare direttamente agli enti locali
funzioni in materie che il decreto del Presidente della Repubblica n.
616 del 1977 aveva considerato attratte nella competenza regionale.
Con un secondo motivo di ricorso la regione Puglia lamenta la
violazione dell’art. 76 della Costituzione ad opera dell’art. 8,
commi 2 e 3, e dell’art. 9, commi 5, 6 e 7, del decreto, che
disciplinano la composizione e le modalità di convocazione, e
rispettivamente le funzioni della conferenza Stato-città, oggetti
estranei alla delega contenuta nell’art. 9 della legge, che
riguardava solo la definizione e l’ampliamento delle funzioni della
conferenza Stato-Regioni e la sua unificazione con la conferenza
Stato-città. Col terzo motivo di ricorso si lamenta che l’art. 3
del decreto legislativo, contraddicendo tanto il ruolo assegnato alla
conferenza Stato-regioni che la stessa logica cui si ispira il
decreto nell’individuarne le funzioni, consente al Governo, in caso
di “motivata urgenza”, di provvedere in mancanza dell’intesa con la
conferenza stessa, sottoponendo a questa i provvedimenti in via
successiva, con semplice obbligo del medesimo Governo di esaminarne
le osservazioni ai fini di eventuali deliberazioni successive.
L’ipotesi della urgenza motivata sarebbe generica e si presterebbe ad
un uso strumentale da parte del Governo. L’art. 3 del decreto
attuerebbe in modo discutibile la delega, in base alla quale il
Governo era chiamato a specificare le materie per le quali l’intesa
è obbligatoria e a disciplinare i casi di dissenso. Invece il
decreto sembrerebbe stabilire e contemporaneamente smentire
l’obbligatorietà dell’intesa, poiché mentre da un lato stabilisce
che le disposizioni in esame si applicano in tutti i casi nei quali
l’intesa è prevista dalla legislazione vigente, sembrerebbe poi
derogare a tale obbligatorietà consentendo al Governo di provvedere
senza intesa in caso di urgenza. Inoltre mancherebbe qualsiasi
disposizione che miri a circoscrivere la possibilità per il Governo
di aggirare l’obbligo dell’intesa; mentre si sarebbe potuto, per i
casi di urgenza, ridurre drasticamente il termine per conseguire
l’intesa, ovvero qualificare e sostanziare l’urgenza che legittima il
Governo a provvedere senza intesa. Ad analoghe censure si
presterebbe l’art. 2 del decreto, che consente al Governo, in caso
d’urgenza, discrezionalmente valutata, di effettuare in via
successiva la consultazione sugli atti per i quali essa è
obbligatoria.
14. – Anche in quest’ultimo giudizio si è costituito il Presidente
del Consiglio dei Ministri, chiedendo che il ricorso sia dichiarato
inammissibile o comunque infondato. Ad avviso dell’Avvocatura
erariale, la prima censura, relativa alla affermata equiparazione
delle regioni agli enti locali, sarebbe viziata dalla arbitrarietà
della equazione che ne è alla base, e che pretende di desumere dalla
partecipazione ad una conferenza unificata una equiordinazione di
ordinamenti: mentre la conferenza svolgerebbe le proprie funzioni in
relazione ai compiti sui quali vi sia un sovrapporsi di competenze
statali, regionali e locali, ai fini di un opportuno coordinamento.
La seconda censura, di eccesso di delega, sarebbe inammissibile in
quanto il vizio non ridonderebbe in lesione delle prerogative
regionali; in subordine, essa sarebbe infondata, in quanto le norme
del decreto legislativo sulla conferenza Stato-città, riproducendo
quasi letteralmente quelle contenute nel decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 2 luglio 1996, istitutivo della conferenza
medesima, costituirebbero, in dettaglio, quella “legificazione” della
conferenza che la legge di delega avrebbe operato in via di
principio, ponendosi in rapporto di necessaria e funzionale
attuazione con quest’ultima. Quanto alle censure mosse col terzo
motivo del ricorso, l’Avvocatura osserva che la legge di delega
prevedeva che venisse definita l’area della obbligatorietà
dell’intesa, e dunque anche possibili ipotesi di esclusione della
stessa, una delle quali potrebbe ben essere l’urgenza. La norma si
porrebbe d’altronde in linea con la ratio ispiratrice dell’art. 8
della legge, che a proposito degli atti di indirizzo e coordinamento,
prevede l’esclusione dell’intesa, e la consultazione successiva, nel
caso di urgenza; mentre ipotizzare un uso distorto di tale facoltà
del Governo costituirebbe un inammissibile processo alle intenzioni,
tanto più che il procedimento in esame è per definizione ispirato
al principio di leale collaborazione fra Stato e regioni.
regione Puglia, investono da un lato gli articoli 1, 2, 3, 4, 8, 9 e
20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per
la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa), proponendo in parte questioni fra loro identiche o
analoghe; dall’altro, gli artt. 1, 2, 3, 8 e 9 del d.lgs. 28 agosto
1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della
conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano ed unificazione, per le
materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle
province e dei comuni, con la conferenza Stato-città ed autonomie
locali), emanato sulla base della delega contenuta nell’art. 9 della
predetta legge, muovendo in parte censure identiche o analoghe a
quelle proposte nei confronti della norma di delega. Pertanto i
giudizi, fra loro connessi, possono essere riuniti per essere decisi
con unica pronunzia.
2. – Le questioni proposte possono essere distinte in quattro
gruppi. Il primo concerne censure mosse, dalla sola regione Puglia
nel primo ricorso, ai primi quattro articoli della legge n. 59 del
1997, concernenti la delega per il conferimento di funzioni a regioni
ed enti locali ed i relativi criteri direttivi; il secondo gruppo di
questioni, sollevate da entrambe le regioni nei ricorsi contro la
legge n. 59, investe l’art. 8, in tema di indirizzo e coordinamento;
il terzo gruppo di censure, anch’esse in gran parte comuni alle due
regioni, e sviluppate in tutti i quattro ricorsi, riguarda la
disciplina della conferenza Stato-regioni e la sua unificazione con
la conferenza Stato-città, come stabilite sia nell’art. 9 della
legge di delega, sia nel decreto legislativo delegato; a parte,
infine, va considerata la questione sollevata dalla regione Puglia
nei confronti dell’art. 20 della legge n. 59, in tema di regolamenti
di delegificazione. Il primo gruppo di censure investe
principalmente i criteri con i quali il legislatore delegante ha
previsto l’allocazione di nuove funzioni e compiti ai livelli di
governo e di amministrazione delle regioni e degli enti locali. La
delega, come configurata nell’art. 1 della legge, concerne il
“conferimento”, sia alle regioni che agli enti locali, ai sensi degli
artt. 5, 118 e 128 della Costituzione, di funzioni e compiti
amministrativi, intendendosi per “conferimento” il trasferimento, la
delega o l’attribuzione di funzioni e compiti (comma 1). In linea di
principio, sono conferiti a regioni ed enti locali, nell’osservanza
del principio di sussidiarietà, “tutte le funzioni e i compiti
amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione
dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni
e compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in
atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato,
centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici”
(comma 2). Sono esclusi dal conferimento solo le funzioni e i compiti
riconducibili a materie espressamente elencate (comma 3), nonché
altri compiti di rilievo nazionale da individuare d’intesa con la
conferenza Stato-Regioni, e quelli svolti localmente da camere di
commercio e università (comma 4). La disciplina legislativa delle
funzioni conferite spetta alle regioni nelle materie di cui all’art.
117 della Costituzione; nelle restanti materie le regioni avranno
potestà legislativa delegata ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
della Costituzione; in ogni caso, la disciplina della organizzazione
e dello svolgimento delle funzioni sarà disposta, “secondo le
rispettive competenze e nell’ambito della rispettiva potestà
normativa, dalle regioni e dagli enti locali” (art. 2). Con i
decreti legislativi delegati debbono, fra l’altro, essere individuati
tassativamente i compiti residui delle amministrazioni statali;
essere indicate le funzioni da conferire alle regioni anche ai fini
dell’art. 3 della legge n. 142 del 1990 (che affida alle Regioni il
compito di organizzare l’esercizio delle funzioni di comuni e
Province), e quelle da conferire agli enti locali ai sensi degli
artt. 128 e 118, primo comma, della Costituzione; essere individuate
le procedure e gli strumenti di raccordo (art. 3). È stabilito
inoltre che nelle materie di cui all’art. 117 le regioni conferiranno
agli enti locali “tutte le funzioni che non richiedono l’unitario
esercizio a livello regionale”, mentre nelle altre materie saranno i
decreti delegati a conferire le funzioni a regioni ed enti locali
nell’osservanza di vari principi, fra cui quello di sussidiarietà
(art. 4). Ai fini dell’applicazione dell’art. 3 della legge n. 142
del 1990 e del principio di sussidiarietà ciascuna regione dovrà
adottare, entro sei mesi dall’approvazione di ciascun decreto
delegato, una legge per la puntuale individuazione delle funzioni
trasferite o delegate agli enti locali e di quelle mantenute in capo
alla regione medesima. Qualora non provveda entro il termine, il
Governo è fin d’ora delegato ad emanare, entro novanta giorni dalla
scadenza, uno o più decreti legislativi delegati “di ripartizione di
funzioni tra regione ed enti locali, le cui disposizioni si applicano
fino alla data di entrata in vigore della legge regionale”, dunque
con efficacia suppletiva e cedevole (art. 4, comma 5). Con riguardo
a questo complesso sistema normativo che caratterizza la delega
conferita al Governo, la regione Puglia lamenta in primo luogo la
equiparazione del ruolo delle regioni e di quello degli enti locali,
che si ispirerebbe ad un disegno di riduzione delle garanzie
dell’autonomia regionale. Essa risulterebbe anzitutto dalla
previsione, nell’art. 1, comma 1, di un generico “conferimento” di
funzioni, che unifica sia il trasferimento e la delega, previsti
dagli artt. 117 e 118 della Costituzione per le regioni, sia
l’attribuzione di funzioni agli enti locali prevista dagli artt. 118,
primo comma, e 128 della Costituzione; e si manifesterebbe altresì
nella equiparazione delle potestà normative spettanti a regioni ed
enti locali per la disciplina della organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni (art. 2, comma 2). Ancora, secondo la
regione ricorrente, la previsione di una destinazione generica alle
regioni e agli enti locali delle funzioni non riservate allo Stato
realizzerebbe una sostanziale parificazione della collocazione
costituzionale delle regioni e degli enti locali, e una
“decostituzionalizzazione” delle garanzie a favore delle regioni, che
resterebbero alla mercé della legge ordinaria, la quale potrebbe
domani riprendere a favore dello Stato o conferire agli enti locali
ciò che oggi viene conferito alle regioni stesse. La ricorrente
censura altresì il modo in cui il legislatore delegante ha fatto
riferimento al principio di sussidiarietà, che sarebbe utilizzato
“in funzione antiregionalista”, dato che, da un lato, in base ad
esso, il legislatore delegato attribuirà le funzioni anche agli enti
locali; dall’altro lato, le regioni saranno tenute a conferire agli
enti locali, nelle materie di cui all’art. 117 della Costituzione,
tutte le funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello
regionale (art. 4, comma 1).
3. – Le questioni non sono fondate. La Costituzione conferisce al
legislatore statale, ai fini della realizzazione del disegno
complessivo di autonomia ispirato ai principi di cui all’art. 5, sia
il potere-dovere di regolare per ogni ramo della pubblica
amministrazione “il passaggio delle funzioni statali attribuite alle
regioni” ai sensi dell’art. 118, primo comma (VIII disp. trans. e
fin., secondo comma); sia il potere di “delegare alla regione
l’esercizio di altre funzioni amministrative” (art. 118, secondo
comma); sia, infine, quello di attribuire direttamente alle Province,
ai comuni e agli altri enti locali le funzioni amministrative “di
interesse esclusivamente locale” nelle materie di spettanza regionale
(art. 118, primo comma), e più in generale di determinare le
funzioni di province e comuni con le “leggi generali della
Repubblica” che fissano i principi della loro autonomia (art. 128).
Nell’esercizio di questi poteri il legislatore statale gode di spazi
di discrezionalità: così nello scegliere le materie in cui
delegare alle regioni ulteriori funzioni; nell’individuare
direttamente le funzioni di interesse esclusivamente locale
attribuite agli enti locali o nel demandare invece alla regione,
nell’esercizio della sua potestà legislativa e anche in attuazione
del principio del “normale” esercizio decentrato delle funzioni
amministrative della medesima (art. 118, terzo comma), il compito di
identificare specificamente la dimensione dei relativi interessi “in
rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio”,
come ad esempio si esprime l’art. 3, comma 2, della legge n. 142 del
1990 sull’ordinamento delle autonomie locali; o ancora
nell’individuare le esigenze e gli strumenti di raccordo fra diversi
livelli di governo per un esercizio coordinato delle funzioni o per
attuare la cooperazione nelle materie in cui coesistano competenze
diverse. Ciò che rileva dal punto di vista costituzionale è che
non siano violate le sfere di attribuzioni garantite alle regioni,
nonché, a livello di principio, a comuni e province, dalle norme
costituzionali, e più in generale che la disciplina del riparto di
competenze e dei rapporti fra Stato, regioni ed enti locali sia in
armonia con le regole e i principi derivanti dalle stesse norme
costituzionali. La scelta, entro questi limiti, di modelli di
riparto di funzioni e di disciplina di rapporti più nettamente
ispirati al potenziamento del ruolo della regione anche per quanto
attiene all’assetto delle funzioni degli enti locali, ovvero invece
alla determinazione diretta, con legge statale, di sfere di
attribuzioni amministrative degli enti locali, garantite a priori
anche nei confronti del legislatore regionale, rientra nell’ambito
delle legittime scelte di politica istituzionale, che possono volta a
volta avvalersi di questo o quello strumento apprestato in questo
campo dalle norme costituzionali, e che non hanno ragione di essere
discusse in questa sede, se non quando si tratti di verificare in
concreto l’osservanza dei limiti costituzionalmente imposti. La
legge n. 59 del 1997 contiene una assai ampia delega al Governo per
l’attuazione, fra l’altro, di un organico disegno di ulteriore
decentramento di funzioni (dopo quello realizzato, per quanto
riguarda le regioni, e sempre per via di legislazione delegata, in
base all’art. 17 della legge n. 281 del 1970 e successivamente, con
criteri meno restrittivi, in base all’art. 1 della legge n. 382 del
1975): e comporta l’impiego, da parte del legislatore delegato, di
tutta la gamma di strumenti costituzionalmente ammessi per il
decentramento delle funzioni, dal trasferimento di nuove funzioni
amministrative alle regioni nelle materie di cui all’art. 117 della
Costituzione (utilizzando i margini di flessibilità insiti nella
definizione legislativa delle materie elencate dalla Costituzione),
alla delega alle regioni di funzioni in altre materie, alla
attribuzione di funzioni agli enti locali. La legge non solo non
confonde fra loro tali diversi strumenti (che l’art. 1, comma 1,
espressamente e distintamente evoca, sia pure poi ricomprendendoli
per comodità espressiva nel termine di “conferimento” di funzioni e
compiti amministrativi, senza perciò che venga meno la differenza
del titolo costituzionale del conferimento, con la relativa
disciplina), ma opera una netta distinzione fra le materie spettanti
alle regioni ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, nel cui
ambito è fondamentalmente rimesso alle regioni stesse il compito di
individuare le funzioni da decentrare ulteriormente agli enti locali
e quelle che invece richiedono “l’unitario esercizio a livello
regionale” (art. 4, comma 1), e le altre materie, nelle quali il
riparto di funzioni attraverso la delega alle regioni o
l’attribuzione agli enti locali è direttamente effettuato dai
decreti delegati (art. 4, comma 2). Parimenti, sono rispettati i
limiti costituzionali per quanto attiene al decentramento della
potestà normativa. Infatti l’art. 2 della legge ribadisce anzitutto
la spettanza alle regioni della potestà legislativa propria quando
si tratti di disciplina riconducibile alle materie di cui all’art.
117 della Costituzione, e attribuisce alle stesse – sul modello di
quanto già disposto dall’art. 7 del d.P.R. n. 616 del 1977 –
potestà legislativa di attuazione, ai sensi del secondo comma
dell’art. 117 della Costituzione, nelle “restanti materie”, nelle
quali cioè il conferimento di funzioni amministrative avviene per
delega ai sensi dell’art. 118, secondo comma, della Costituzione.
Quanto poi alla disciplina “dell’organizzazione e dello svolgimento”
delle funzioni, cioè degli aspetti organizzativi e procedurali, essa
è demandata alle regioni o agli enti locali “secondo le rispettive
competenze”, e dunque a seconda che alle une o agli altri le funzioni
medesime siano trasferite, delegate o attribuite, ribadendo
l’autonomia organizzativa che alle regioni è direttamente garantita
dalla Costituzione (cfr. art. 117, primo alinea, e art. 123 della
Costituzione), e a comuni e province è riconosciuta, in attuazione
dell’art. 128 della Costituzione, dagli artt. 4 e 5 della legge n.
142 del 1990; e precisando che tale autonomia trova esplicazione
“nell’ambito della rispettiva potestà normativa”, e dunque nel
rispetto delle regole e dei limiti propri di ciascuno di tali ambiti,
volta a volta secondo i caratteri propri della potestà statutaria,
legislativa o regolamentare delle Regioni o della potestà normativa
degli enti locali. Nemmeno a questo riguardo si verifica perciò
alcuna commistione o illegittima equiparazione della posizione
costituzionale dei diversi enti dotati di autonomia. Il sistema
disegnato dalla legge di delega non realizza una
“decostituzionalizzazione” delle attribuzioni regionali: non postula
infatti alcun potere del legislatore delegato di sottrarre alle
Regioni competenze loro spettanti per Costituzione, mentre
attribuzioni che dipendano da scelte del legislatore ordinario
restano per loro natura “retrattabili”, nei limiti in cui ciò non
comporti, anche indirettamente, una lesione dello status garantito
alle Regioni dalle norme costituzionali. Né, infine, si può dire
che il richiamo ripetuto al principio di sussidiarietà venga
utilizzato in modo contrastante con le regole costituzionali
sull’autonomia regionale: in particolare, mentre nelle materie
dell’art. 117 della Costituzione – cioè nell’ambito delle competenze
proprie delle Regioni, ad esse garantite dalla Costituzione –
l’attuazione del principio in relazione ai livelli di governo
sub-statali è fondamentalmente rimessa alla Regione stessa, cui
spetta disciplinare il conferimento agli enti locali delle funzioni
“che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale” (art.
4, comma 1), fuori di queste materie è al legislatore delegato che
viene rimessa la realizzazione del riparto di funzioni e di compiti
fra Regioni ed enti locali (art. 4, comma 2). In ogni caso, leggi
regionali e decreti delegati dovranno a ciò provvedere sulla base
non solo del principio di sussidiarietà, ma anche degli altri
principi e criteri previsti dalla legge di delega (art. 4, comma 3).
4. – La ricorrente Regione Puglia denuncia altresì una duplice
violazione dell’art. 76 della Costituzione. In primo luogo, la delega
per il conferimento di funzioni avrebbe un oggetto non precisato,
elencandosi nella legge di delega non già le materie da conferire,
bensì quelle escluse dal conferimento, e che dunque non sono oggetto
di delega. In secondo luogo, la delega al Governo per la disciplina
in via sostitutiva del riparto delle funzioni fra Regione ed enti
locali, per il caso in cui la Regione non vi provveda entro il
termine stabilito (art. 4, comma 5), sarebbe incerta nell’an ad
oggetto eventuale e definibile solo ex post ed incerta nel quomodo
mancando i principi sulla distribuzione delle competenze che verrebbe
operata dal legislatore delegato.
5. – Le questioni non sono fondate. Quanto alla prima, il criterio
prescelto dal legislatore delegante per la individuazione delle
funzioni da conferire è indubbiamente innovativo e tale da
comportare l’espansione del decentramento al di là di quanto
strettamente richiesto per l’attuazione delle norme costituzionali in
tema di autonomie regionali e locali: anziché individuare nominatim
gli ambiti materiali cui attengono le funzioni da conferire, si
procede – in conformità al principio di sussidiarietà, non a caso
indicato al primo posto tra i criteri direttivi della delega (art. 4,
comma 2, lettera a) – alla elencazione delle materie e dei compiti
esclusi dal decentramento (art. 1, comma 3 e comma 4, lettere a, b,
d, e); e si demanda, in una serie di altre materie, ad un
procedimento d’intesa nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni la
individuazione dei “compiti di rilievo nazionale” da mantenere in
capo alle amministrazioni statali (art. 1, comma 4, lettera c).
Stabilita questa delimitazione “in negativo”, la delega per il
conferimento concerne “tutte le funzioni e i compiti amministrativi
relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo
delle rispettive comunità”, nonché “tutte le funzioni e i compiti
amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto
esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato,
centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici”
(art. 1, comma 2). Non si può dire dunque che l’oggetto della
delega resti indeterminato: esso è delimitato sia in negativo,
attraverso la identificazione delle materie escluse e dei compiti da
eccettuare dal decentramento, sia in positivo, attraverso i criteri
del riferimento agli interessi e alla promozione dello sviluppo delle
comunità regionali e locali, e della localizzabilità nel rispettivo
territorio. La delimitazione dell’area della delega è bensì, in
parte, effettuata attraverso “clausole generali”, come quelle da
ultimo richiamate: ma non si può dire che ciò sia in ogni caso
precluso dall’art. 76 della Costituzione, posto che la definizione,
costituzionalmente necessaria, dell’oggetto della delega non può non
tener conto della natura e dei caratteri dell’oggetto medesimo. Il
ricorso a clausole generali, come quella ben nota della “organicità”
nel conferimento di funzioni (cfr. art. 1 della legge n. 382 del
1975), o quelle impiegate dal legislatore delegante nella legge n.
59, accompagnate dall’indicazione di principi come quelli di
sussidiarietà, completezza, efficienza ed economicità,
responsabilità e unicità dell’amministrazione, omogeneità,
adeguatezza, differenziazione (art. 4, comma 3, lettere a, b, c, e,
f, g, h), appare coerente con un disegno di decentramento che non
mira a modificare questo o quel riparto specifico di funzioni e di
compiti, ma a ridisegnare complessivamente ed in modo coerente
l’allocazione dei compiti amministrativi fra i diversi livelli
territoriali di governo.
6. – Quanto al secondo profilo di denunciata violazione dell’art.
76 della Costituzione, attinente al particolare meccanismo di
intervento sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni,
delineato nell’art. 4, comma 5, della legge impugnata, va osservato
anzitutto che il contenuto delle norme delegate ivi previste
corrisponde a ciò che in astratto il legislatore statale sarebbe
abilitato a compiere direttamente: vale a dire ripartire le funzioni
amministrative fra Regioni ed enti locali, attraverso lo strumento
dell’attribuzione agli enti locali delle funzioni di interesse
esclusivamente locale (art. 118, primo comma, Cost.). In tal modo
peraltro si verrebbe, se non ad esaurire, a comprimere ampiamente lo
spazio nel quale le Regioni sono chiamate, in forza dell’art. 118,
terzo comma, della Costituzione, a decentrare ulteriormente nel loro
territorio le funzioni amministrative, nella forma della delega agli
enti locali; e soprattutto si rischierebbe di irrigidire in modo
uniforme la configurazione delle funzioni e del loro esercizio sul
territorio, senza poter tenere conto della diversità dei contesti
territoriali e anche delle legittime scelte che in questo campo
possono essere compiute, sia pure nell’alveo del principio
costituzionale che favorisce la devoluzione “in basso” delle funzioni
ogni volta che sia possibile (come emerge dalla locuzione dell’art.
118, terzo comma, secondo cui “normalmente” le regioni esercitano le
funzioni loro devolute mediante delega o utilizzazione degli uffici
degli enti locali). Ben si comprende dunque come, già nel contesto
dell’ordinamento delle autonomie locali, il legislatore statale abbia
inteso, con l’art. 3 della legge n. 142 del 1990, attribuire alle
Regioni un ruolo di identificazione degli interessi comunali e
provinciali “in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del
territorio”, e di “organizzazione” dell’esercizio delle funzioni a
livello locale, cioè di disciplina del modo in cui esse si collocano
e si raccordano nel contesto regionale, sottolineando così un ruolo
della Regione come “centro propulsore e di coordinamento dell’intero
sistema delle autonomie locali” (sentenza n. 343 del 1991). La legge
n. 59 del 1997 va oltre, ma nella stessa direzione, chiamando le
Regioni, nell’ambito delle materie di cui all’art. 117 della
Costituzione, a definire il riparto delle funzioni al proprio interno
con criteri analoghi a quelli seguiti dallo stesso legislatore
statale, e cioè identificando le funzioni che “richiedono l’unitario
esercizio a livello regionale” e devolvendo tutte le altre ai comuni,
alle Province e agli altri enti locali (art. 4, comma 1), in
conformità al principio di sussidiarietà. Proprio per evitare che
l’inerzia delle Regioni comprometta l’attuazione di questo disegno
complessivo, si prevede un termine di sei mesi, decorrente
dall’entrata in vigore di ciascun decreto legislativo di conferimento
delle funzioni, entro il quale ogni Regione dovrà adottare una legge
per la “puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate
agli enti locali e di quelle mantenute in capo alla Regione stessa”.
Scaduto invano tale termine, alle Regioni inadempienti si sostituisce
il Governo con appositi decreti delegati “di ripartizione delle
funzioni tra Regione ed enti locali”, destinati peraltro a valere
solo in via suppletiva, fino a quando non intervenga la legge
regionale (art. 4, comma 5). L’oggetto della delega è dunque
definito; e altrettanto definito è il termine (novanta giorni dalla
scadenza del predetto termine di sei mesi imposto alle Regioni) entro
il quale è esercitata la potestà delegata al Governo. Eventuale è
solo il verificarsi delle circostanze che rendono necessario
l’esercizio della delega (l’inadempimento regionale): ma una delega
in tal modo “condizionata” al verificarsi di eventi estranei alla
volontà sia del Parlamento delegante, sia del Governo delegato, non
è di per sé in contrasto con il modello di cui all’art. 76 della
Costituzione. Né si può dire che manchi la determinazione dei
principi e criteri direttivi della delega: essi infatti sono quegli
stessi che l’art. 4 indica al comma 2 per i conferimenti di funzioni
operati in via normale e definitiva dalla legge regionale, o, fuori
delle materie dell’art. 117, dai decreti legislativi delegati (tra
cui il principio di sussidiarietà, espressamente richiamato ancora
nel comma 5), nonché quelli enunciati nell’art. 3 della legge n. 142
del 1990, alla cui applicazione deve essere intesa la legge regionale
di individuazione delle funzioni devolute agli enti locali e di
quelle mantenute in capo alla Regione: legge la cui mancata adozione
entro il termine stabilito abilita il Governo ad adottare il decreto
delegato che disciplina in via suppletiva la materia.
7. – La Regione Puglia ha impugnato poi due disposizioni
particolari, contenute nell’art. 3 della legge – che precisa i
contenuti dei decreti legislativi di conferimento delle nuove
funzioni – rispettivamente alla lettera c e alla lettera f. La prima
di esse riguarda la previsione della individuazione di procedure e
strumenti di raccordo e di forme di cooperazione strutturali e
funzionali che consentano la collaborazione fra livelli di governo,
anche con eventuali interventi sostitutivi nel caso di inadempienze
nell’esercizio delle funzioni conferite, e della presenza di
rappresentanti statali, regionali e locali nelle strutture necessarie
per l’esercizio di funzioni di raccordo, indirizzo, coordinamento e
controllo. Ad avviso della ricorrente, tale previsione da un lato
confligge con quella dell’art. 9, lettera b, che richiederebbe la
concentrazione nella conferenza Stato-Regioni delle funzioni di
raccordo, dall’altro lato sarebbe di dubbia legittimità
costituzionale perché le forme di collaborazione a livello
interregionale o infraregionale spetterebbero alle Regioni, mentre
nel caso di forme di collaborazione a livello nazionale, possibili
quando siano coinvolti interessi di rilievo nazionale, poteri
sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni sarebbero
ammissibili solo quando occorra salvaguardare un valore
costituzionale fondamentale.
8. – La questione è infondata. La generica previsione di forme di
cooperazione “strutturali e funzionali” e di interventi sostitutivi
non appare di per sé in contrasto con norme costituzionali, poiché
anzi il principio di leale cooperazione, più volte richiamato nella
giurisprudenza di questa Corte (tra le molte, sentenze nn. 49, 482 e
483 del 1991, nn. 19 e 242 del 1997), implica proprio la ricerca di
tali forme là dove si intersecano competenze ed interessi afferenti
a diversi livelli di governo. Né è vietato al legislatore statale
prevedere e disciplinare forme di collaborazione anche fra Regioni o
fra queste e gli enti locali, negli ambiti e con modalità che non
ledano la fondamentale autonomia organizzativa delle Regioni, e anche
forme di intervento sostitutivo per ovviare alle eventuali inerzie o
inadempienze tali da mettere in pericolo interessi unitari, sulla
base di presupposti e con l’osservanza di modalità a loro volta
rispettose dell’autonomia costituzionale degli enti. Se poi, in
concreto, specifiche previsioni o discipline dei decreti legislativi
delegati risultassero in contrasto con i principi costituzionali,
sarebbe ad esse, e non alla legge di delega, che dovrebbero
rivolgersi le censure relative. Quanto al denunciato contrasto fra
l’art. 3, lettera c e l’art. 9, lettera b – a parte il rilievo che
si tratta di un problema di coordinamento fra norme diverse, e non
della lamentata violazione di principi costituzionali – basta
osservare che il criterio, enunciato dall’art. 9, di una
concentrazione in capo alla conferenza Stato-Regioni di “tutte le
attribuzioni relative ai rapporti tra Stato e Regioni” non può che
essere inteso in senso tendenziale, tale da non escludere del tutto
la possibilità di stabilire in casi particolari altre forme di
raccordo.
9. – La lettera f, dell’art. 3 concerne la previsione della
possibilità per l’amministrazione dello Stato di avvalersi, per la
cura di interessi nazionali, di uffici regionali o locali, d’intesa
con gli enti interessati o con gli organismi rappresentativi degli
stessi. Secondo la ricorrente Regione Puglia, tale strumento, nei
riguardi degli uffici regionali, non sarebbe ammesso dalla
Costituzione, che conoscerebbe solo la delega di funzioni
amministrative alle Regioni; e comunque non sarebbe legittima la
mancata previsione della necessaria copertura finanziaria degli oneri
aggiuntivi da parte della amministrazione statale.
10. – Anche tale questione non è fondata. Come questa Corte ha
affermato (cfr. sentenze n. 35 del 1972 e n. 216 del 1987), deve
ritenersi sussistente la possibilità per lo Stato di avvalersi degli
uffici regionali, così come è espressamente prevista la
possibilità per la Regione di avvalersi di uffici di enti locali
(art. 118, terzo comma, Cost.). Il rispetto necessario dell’autonomia
delle Regioni, anche sotto il profilo della provvista dei mezzi
finanziari necessari per fronteggiare nuovi oneri, è presupposto per
la legittima configurazione in concreto delle “modalità e
condizioni” per l’attuazione di tale forma di collaborazione, ed è
tendenzialmente assicurato anche dalla previsione, nella norma
denunciata, di una intesa “con gli enti interessati o con gli
organismi rappresentativi degli stessi”.
11. – Il secondo gruppo di censure, sollevate da entrambe le
Regioni ricorrenti, riguarda, come si è detto, la disciplina,
contenuta nell’art. 8 della legge n. 59, dell’attività di indirizzo
e coordinamento. In tale articolo si stabilisce che gli atti di
indirizzo sono adottati previa intesa con la conferenza
Stato-Regioni; che, quando l’intesa non sia raggiunta entro il
termine fissato, essi sono adottati con delibera del Consiglio dei
ministri, previo parere della commissione parlamentare per le
questioni regionali; che in caso di urgenza il Consiglio dei ministri
può provvedere senza previa intesa: in tal caso i provvedimenti
adottati sono sottoposti alla conferenza a posteriori e il Governo è
tenuto a riesaminare gli atti sui quali sia stato espresso parere
negativo. È poi disposta l’abrogazione di preesistenti norme
generali sull’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento,
fra cui quella contenuta nell’art. 2, comma 3, lettera d, della legge
n. 400 del 1988, che includeva gli atti di indirizzo e coordinamento
fra quelli sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Entrambe le Regioni ricorrenti lamentano, in primo luogo, che la
previsione dell’esercizio della funzione di indirizzo solo in via
amministrativa violerebbe il principio di legalità sostanziale,
affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che impone di porre a
fondamento di ciascun atto di indirizzo norme specifiche di legge che
delimitino il potere governativo.
12. – Sotto questo profilo, la questione non è fondata. Le
disposizioni generali in tema di indirizzo e coordinamento contenute
nella legge n. 59 del 1997, come già, in passato, quelle contenute
in altre leggi, alcune delle quali sono state abrogate dal comma 5
dell’art. 8 in esame, hanno una portata meramente procedurale, e non
valgono da sole a rendere possibile da parte del Governo l’emanazione
di atti di esercizio della funzione di indirizzo: è invece
necessaria, a tale fine, la presenza di norme legislative che fondino
e delimitino sostanzialmente l’esercizio della funzione, indicando
l’oggetto degli atti di indirizzo e dettando criteri sufficienti a
indirizzarne a loro volta il contenuto (cfr. sentenze n. 150 del
1982, n. 338 del 1989, n. 359 del 1991, n. 124 del 1994 e n. 18 del
1997). Non può dunque ritenersi in alcun modo violato il principio
di legalità sostanziale.
13. – Le Regioni lamentano poi che, in forza dell’abrogazione della
disposizione contenuta nell’art. 2, comma 3, lettera d, della legge
n. 400 del 1988, sarebbe venuta meno la tendenziale riserva alla
competenza del Consiglio dei ministri dell’esercizio della funzione
di indirizzo, posto che oggi la deliberazione dell’organo collegiale
di governo è prevista solo per il caso di mancata intesa con la
conferenza Stato-Regioni o di procedura d’urgenza senza intesa
preventiva.
14. – Sotto questo profilo, la questione è fondata. Questa Corte
ha ripetutamente affermato il principio per cui l’esercizio in via
non legislativa della funzione di indirizzo e coordinamento nei
confronti delle Regioni è soggetto a precisi requisiti di procedura,
dovendo far capo all’organo collegiale di Governo (cfr. sentenze n.
338 del 1989, n. 453 del 1991, n. 124 del 1994 e n. 18 del 1997).
Essa infatti non può identificarsi con una funzione propria
dell’amministrazione statale volta a volta competente per materia
(ché, anzi, va ad incidere per definizione in ambiti di azione
amministrativa che spettano alle Regioni), ma è espressione del
potere, demandato in concreto dalla legge al Governo nazionale, di
assicurare la salvaguardia di interessi unitari non frazionabili. La
deliberazione necessaria del Consiglio dei ministri esprime appunto
l’assunzione di responsabilità a livello dell’organo chiamato a
delineare, sotto la direzione del Presidente del Consiglio, la
“politica generale del Governo” (art. 95 della Costituzione), in
ordine alla esigenza di indirizzare e coordinare l’attività delle
Regioni in vista di interessi unitari individuati dalla legge della
Repubblica. Tale competenza collegiale necessaria non può venir
meno neanche nell’ipotesi di atti di indirizzo su cui si sia
raggiunta l’intesa nella conferenza Stato-Regioni, sia perché si
tratta di una competenza radicata nelle norme costituzionali
concernenti la struttura e l’attività del Governo, e dunque non
disponibile, sia perché nemmeno l’intesa nella conferenza, tanto
più se conseguita solo a maggioranza, potrebbe consentire
l’introduzione di nuovi vincoli all’autonomia delle singole Regioni
al di fuori dei presupposti sostanziali e procedurali
costituzionalmente necessari. Le disposizioni dei primi quattro
commi dell’art. 8 della legge n. 59 – che sanciscono il principio
della previa intesa con la conferenza Stato-Regioni o con la Regione
interessata per l’adozione degli atti di indirizzo, la facoltà del
Governo di adottarli unilateralmente, previo parere della commissione
parlamentare per le questioni regionali, ove l’intesa non sia
raggiunta entro il termine di quarantacinque giorni, la facoltà del
Governo di provvedere in caso d’urgenza senza l’osservanza di tali
procedure, sottoponendo in via successiva l’atto alla conferenza e
alla commissione parlamentare, e infine la trasmissione alle
competenti commissioni parlamentari degli atti di indirizzo – non
potrebbero di per sé essere interpretate nel senso che autorizzino
l’adozione di atti di indirizzo da parte di organi diversi dal
Consiglio dei Ministri quando sia intervenuta l’intesa prevista dal
comma 1. Infatti gli adempimenti procedurali ivi espressamente
disciplinati sono tutti volti a regolare i rapporti del Governo con
le Regioni e con il Parlamento, non ad incidere sulle competenze
nell’ambito del Governo stesso. Ma è l’abrogazione espressa,
insieme ad altre norme generali sulla funzione di indirizzo,
dell’art. 2, comma 3, lettera d, della legge n. 400 del 1988, volto
proprio a stabilire in via generale la competenza del Consiglio dei
ministri per l’adozione degli atti di indirizzo, che appare in
contrasto con il principio, di derivazione costituzionale, della
necessarietà di tale competenza. Tale disposizione abrogativa deve
dunque essere dichiarata costituzionalmente illegittima, con
l’effetto di ripristinare l’efficacia della disposizione abrogata.
Risulta in tal modo assorbita l’ulteriore questione sollevata dalla
Regione Siciliana nei confronti della medesima disposizione di
abrogazione espressa, in quanto essa avrebbe fatto venir meno la
garanzia, resa esplicita nel testo della disposizione abrogata, del
rispetto delle disposizioni statutarie ai fini dell’adozione di atti
di indirizzo nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale.
15. – Entrambe le Regioni ricorrenti denunciano come contrastante
con la Costituzione la previsione della possibilità di esercizio, in
caso di urgenza, della funzione di indirizzo senza intesa preventiva
con la conferenza Stato-Regioni. Tale previsione si presterebbe ad
abusi o usi distorti da parte del Governo; secondo la Regione
Siciliana sarebbe inoltre illegittima la norma secondo cui, in caso
di mancato raggiungimento dell’intesa, il Consiglio dei ministri può
provvedere col solo parere della commissione parlamentare per le
questioni regionali, in quanto non prevede che per ricorrere
legittimamente a tale meccanismo il Governo deve aver tenuto un
comportamento leale, effettivamente diretto al raggiungimento
dell’intesa.
16. – La questione non è fondata. La previsione della previa
intesa con la conferenza o con la Regione specificamente interessata
è certamente idonea a connotare in senso meno autoritativo e più
collaborativo i modi di esercizio del potere di indirizzo e
coordinamento, secondo una linea che questa Corte ha indicato come
possibile (sentenza n. 18 del 1997): ma non risponde ad una
necessità costituzionale. D’altra parte, nel caso in cui l’intesa
non sia raggiunta, la previsione di meccanismi in certo senso
sostitutivi, o comunque di un potere del Governo di provvedere
unilateralmente, sia pure con ulteriori garanzie procedimentali,
appare necessaria al fine di non lasciare sguarnito di garanzia
l’interesse unitario per la cui salvaguardia la legge ha fondato in
concreto il potere governativo. L’ipotesi che il Governo utilizzi
questa sua facoltà per svuotare di senso la prescrizione
dell’intesa, o non rispetti l’esigenza di esplorare effettivamente le
possibilità di accordo, attiene alla sfera delle eventualità di
fatto, frutto di una patologia costituzionale, sempre suscettibili di
controllo e di rimedio ove si tenga conto che il principio di leale
cooperazione deve in ogni caso informare, ancorché non sia
esplicitamente richiamato dalla legge, i rapporti reciproci fra Stato
e Regioni.
17. – Il terzo gruppo di censure, mosse in tutti i quattro ricorsi,
e concernenti sia l’art. 9 della legge di delega, sia il decreto
legislativo delegato n. 281 del 1997, tocca il tema della
unificazione della conferenza Stato-Regioni con quella Stato-città,
nonché della disciplina delle conferenze e della loro attività. La
conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano, istituita in via
amministrativa fin dal 1983 (d.P.C.M. 12 ottobre 1983), fu poi
prevista e disciplinata dall’art. 12 della legge n. 400 del 1988 e
dal successivo d.P.R. n. 418 del 1989, con “compiti di informazione,
consultazione e raccordo, in relazione agli indirizzi di politica
generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza
regionale” (art. 12, comma 1, legge n. 400 del 1988). Ne fanno parte,
sotto la presidenza del Presidente del Consiglio dei Ministri, i
Presidenti di tutte le Regioni ordinarie e speciali e delle due
Province autonome di Trento e Bolzano. La conferenza Stato-città ed
autonomie locali fu istituita con d.P.C.M. 2 luglio 1996 con “compiti
di coordinamento nei rapporti tra lo Stato e le autonomie locali, e
di studio, informazione e confronto sulle problematiche connesse agli
indirizzi di politica generale che possono incidere sulle funzioni
proprie di comuni e Province e su quelle delegate ai medesimi enti da
leggi dello Stato” (art. 1). Ne fanno parte, sotto la presidenza del
Presidente del Consiglio, alcuni membri del Governo, i Presidenti
dell’ANCI (Associazione dei comuni) e dell’UPI (Unione delle
Province) e un certo numero di Sindaci e di Presidenti di Provincia
designati dalle due associazioni. L’art. 9 della legge n. 59 del
1997 ha delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo volto a
“definire ed ampliare le attribuzioni” della conferenza
Stato-Regioni, “unificandola, per le materie e i compiti di interesse
comune delle Regioni, delle Province e dei comuni, con la conferenza
Stato-città ed autonomie locali”. Tra i criteri e principi direttivi
della delega compaiono il potenziamento dei poteri e delle funzioni
della conferenza Stato-Regioni, “prevedendo la partecipazione della
medesima a tutti i processi decisionali di interesse regionale,
interregionale ed infraregionale almeno a livello di attività
consultiva obbligatoria”; la semplificazione delle procedure di
raccordo fra Stato e Regioni, concentrando nella conferenza tutte le
attribuzioni relative ai rapporti tra Stato e Regioni; la
specificazione delle materie per le quali è obbligatoria l’intesa e
della disciplina per i casi di dissenso; la definizione delle forme e
modalità della partecipazione dei rappresentanti degli enti locali.
Il decreto legislativo n. 281 del 1997, emanato in attuazione della
delega, disciplina appunto le attribuzioni della conferenza
Stato-Regioni, “ferme restando le competenze ad essa attribuite”,
nonché la sua unificazione, per le materie ed i compiti di interesse
comune, con la conferenza Stato-città (art. 1). Esso precisa la
tipologia degli atti della conferenza (intese, accordi,
provvedimenti, inviti e proposte, ecc.), e i casi in cui essa è
obbligatoriamente sentita, prevedendo altresì che la consultazione
in caso di urgenza possa avvenire in via successiva anziché
preventiva (art. 2); disciplina le modalità per la promozione e la
sanzione delle intese, applicabili in tutti i procedimenti in cui la
legislazione vigente prevede un’intesa con la conferenza, stabilendo
anche a questo proposito che in caso di urgenza il Governo possa
prescinderne sottoponendo il provvedimento alla conferenza in via
successiva (art. 3); dispone poi l’unificazione delle due conferenze
per le materie e i compiti di interesse comune delle Regioni e degli
enti locali, specificando la tipologia degli interventi della
conferenza unificata (pareri, intese, ecc.), modellata su quella
stabilita per la conferenza Stato-Regioni (artt. 8, comma 1, e 9,
commi 1 e 2); disciplina la composizione, il funzionamento e le
competenze della conferenza Stato-città, sostanzialmente traducendo
in legge, con poche varianti, la disciplina già contenuta nel
d.P.C.M. 2 luglio 1996, istitutivo della conferenza stessa (art. 8,
commi 2, 3 e 4, e art. 9, commi 5 e 6); regola le modalità per
l’espressione dell’assenso, nell’ambito della conferenza, delle
Regioni nonché, distintamente, dei rappresentanti degli enti locali
(art. 9, comma 4).
18. – Avverso tale disciplina le ricorrenti muovono anzitutto una
censura di carattere generale e radicale, sostenendo che
l’unificazione delle due conferenze realizzerebbe una
incostituzionale equiparazione di Regioni ed enti locali, che godono
invece di statuto costituzionale differenziato; mentre la sede
naturale per la cooperazione fra Regione ed enti locali si troverebbe
a livello regionale. L’unificazione condurrebbe – per le materie
comuni, che di fatto si estenderebbero, data l’impostazione della
legge di delega, a tutte le materie e i compiti non statali – ad una
composizione variabile della conferenza, in cui si confronterebbero
enti dalle funzioni costituzionalmente garantite con altri le cui
funzioni sono determinate dalla legge (ricorso della Regione Puglia);
i rappresentanti delle autonomie locali verrebbero a partecipare a
processi decisionali di alta amministrazione in cui si realizza la
collaborazione fra Stato e Regioni (ricorso della Regione Siciliana).
La Regione Siciliana lamenta poi che non sia prevista nella
conferenza unificata una qualche forma di preminenza delle Regioni
nel processo decisionale, almeno sotto il profilo di una diversità
delle quote di rappresentanti; e che le norme impugnate del decreto
legislativo consentano di ritenere le determinazioni della conferenza
unificata, assunte con il dissenso della Regione Siciliana,
vincolanti anche nei confronti di quest’ultima, pure in relazione
alla sfera dei rapporti tra la Regione e gli enti locali esistenti al
suo interno, ovvero con riguardo all’ordinamento e all’attività di
questi ultimi.
19. – Le questioni, sotto questi profili, non sono fondate. Si è
già detto (sopra, n. 3) come, purché siano rispettati i confini
delle rispettive attribuzioni e della rispettiva autonomia e i
principi costituzionali in materia, la legge della Repubblica possa
operare scelte discrezionali in ordine alla disciplina dei rapporti
fra Stato, Regioni ed enti locali. La stessa previsione della
conferenza Stato-Regioni, quale strumento di raccordo fra il Governo
e le autonomie regionali, come la previsione della istituzione di una
conferenza Stato-città quale strumento di raccordo fra il Governo e
le rappresentanze delle autonomie comunali e provinciali,
rappresentano scelte non costituzionalmente vincolate. Parimenti, è
una scelta discrezionale, non in contrasto con la Costituzione, la
previsione della conferenza unificata, con la presenza sia dei
rappresentanti delle Regioni, sia di quelli delle autonomie locali,
quale strumento di raccordo fra Governo e sistema delle autonomie,
allorché siano in discussione argomenti di interesse comune vuoi
delle Regioni, vuoi degli enti locali (come certamente è la
disciplina legislativa delegata destinata ad attuare il vasto disegno
di decentramento contenuto nella legge n. 59: cfr. infatti gli artt.
6 e 9, comma 2, della legge stessa, che prevedono sugli schemi di
decreti legislativi il parere obbligatorio, rispettivamente, delle
due conferenze e, dopo la sua istituzione, della conferenza
unificata). Anzi, una volta fatta la scelta di dotarsi di strumenti
di raccordo nelle due direzioni (delle Regioni e delle autonomie
locali), l’unificazione delle conferenze, oltre a rappresentare un
elemento di semplificazione dei procedimenti, è idonea a facilitare
l’integrazione dei diversi punti di vista e delle diverse esigenze
emergenti in tema di assetto delle autonomie, lasciando meno spazio a
rigide divisioni o contrapposizioni suscettibili di sfociare in
ostacoli o resistenze al processo di decentramento. Del resto, si
può ricordare che già nel provvedimento istitutivo della conferenza
Stato-città si prevedeva che i Presidenti delle Regioni e delle
Province autonome partecipassero di diritto alle riunioni della
conferenza quando fossero all’ordine del giorno argomenti che, pur
riguardando le autonomie locali, coinvolgessero altresì interessi o
competenze regionali (art. 2, comma 2, secondo periodo, del d.P.C.M.
2 luglio 1996). Le Regioni potrebbero lamentare una lesione della
loro posizione costituzionale se l’unificazione delle due conferenze
desse luogo ad un organismo indifferenziato, nel cui ambito i
rappresentanti regionali mescolassero il loro voto con quello degli
altri rappresentanti, così che non emergesse distintamente il punto
di vista delle Regioni: in tal caso non si sarebbe potuto, a rigore,
parlare di uno strumento di raccordo fra lo Stato e le Regioni,
idoneo a verificare le convergenze fra i due interlocutori, ma
piuttosto di un organismo misto avente altre caratteristiche e altra
utilità. Ma la legge di delega non prevede affatto il venir meno
dell’identità delle due conferenze, e delle rappresentanze in esse
presenti, bensì solo il loro congiunto operare “per le materie e i
compiti di interesse comune delle Regioni, delle Province e dei
comuni” (art. 9, comma 1). A sua volta il decreto legislativo n. 281
del 1997 prevede che, nell’ambito della conferenza unificata, ai fini
delle relative deliberazioni, ferma restando la necessità
dell’assenso del Governo, l’assenso delle Regioni e degli enti locali
sia assunto attraverso il “consenso distinto dei membri dei due
gruppi delle autonomie che compongono, rispettivamente, la conferenza
Stato-Regioni e la conferenza Stato-città ed autonomie locali”,
consenso a sua volta espresso di regola all’unanimità dei membri dei
due gruppi, o in ogni caso dalla maggioranza di ciascuno di essi
(art. 9, comma 4). Non hanno dunque ragion d’essere le censure
secondo le quali, con l’unificazione delle conferenze, i
rappresentanti delle autonomie locali verrebbero a partecipare a
procedimenti di raccordo fra lo Stato e le Regioni, o addirittura a
poter vincolare la volontà della Regione in ordine ai rapporti con i
rispettivi enti locali; né vi potrebbe essere luogo a valutare
l’equilibrio numerico fra le diverse rappresentanze nell’ambito della
conferenza unificata. Infatti, come si è detto, non si ha affatto
una commistione delle rappresentanze, ma solo una unificazione
funzionale, nell’ambito di un sistema in cui i Presidenti delle
Regioni conservano la loro esclusiva rappresentanza delle istanze
regionali ed esprimono distintamente la volontà delle Regioni
medesime, mentre è solo la rappresentanza governativa ad essere
propriamente unificata.
20. – Entrambe le ricorrenti contestano poi, in particolare, la
disposizione dell’art. 9, comma 1, lett. a della legge, ripresa e
confermata dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo, secondo cui
la conferenza Stato-Regioni partecipa a tutti i processi decisionali,
oltre che di interesse regionale, anche “di interesse interregionale
e infraregionale”: con ciò si inciderebbe sull’autonomia
amministrativa e organizzativa delle Regioni nei loro rapporti con
gli enti locali o in quelli, da esse autonomamente determinati, con
altre Regioni.
21. – La questione è infondata nei termini di seguito precisati.
Le disposizioni in esame non possono intendersi nel senso che il
Governo o i membri della conferenza possano provocare la
deliberazione della medesima su qualsiasi argomento, anche
d’interesse esclusivo di una o più Regioni o di parte di esse,
trasformando così la conferenza in uno strumento – contrario alla
Costituzione – di ingerenza in processi decisionali facenti capo
all’esclusiva competenza e responsabilità delle Regioni o di alcune
di esse. La conferenza Stato-Regioni è prevista dalla legge “con
compiti di informazione, consultazione e raccordo, in relazione agli
indirizzi di politica generale suscettibili di incidere nelle materie
di competenza regionale, esclusi gli indirizzi generali relativi alla
politica estera, alla difesa e alla sicurezza nazionale, alla
giustizia” (art. 12, comma 1, legge n. 400 del 1988). Dunque la
premessa per l’intervento della conferenza è sempre la presenza di
una qualche implicazione degli “indirizzi di politica generale” di
pertinenza degli organi statali, e la conferenza è sede di raccordo
per consentire alle Regioni di partecipare a processi decisionali che
resterebbero altrimenti nella esclusiva disponibilità dello Stato:
ciò anche quando l’implicazione di politica generale riguardi
oggetti che, per la loro localizzazione, concernano una o più
Regioni o anche solo una parte del loro territorio. In tale preciso
significato va intesa l’espressione “processi decisionali di
interesse regionale, interregionale ed infraregionale”. Così
intese, le disposizioni impugnate non prestano il fianco alle censure
mosse dalle ricorrenti.
22. – Sotto un diverso profilo, la Regione Puglia censura la
disposizione dell’art. 3 del decreto legislativo, ove, disciplinando
i procedimenti di intesa con la conferenza Stato-Regioni, si
stabilisce che, in caso di urgenza, discrezionalmente valutata dal
Governo, quest’ultimo può provvedere anche senza preventiva intesa,
sottoponendo l’atto alla conferenza in via successiva. In tal modo si
consentirebbe al Governo di aggirare l’obbligo dell’intesa, in
contrasto con la previsione di un potenziamento delle funzioni della
conferenza, di cui all’art. 9, comma 1, lett. a), della legge n. 59.
Sarebbe altresì male attuata la delega di cui all’art. 9, comma 1,
lett. c) della stessa legge n. 59, secondo cui il Governo avrebbe
dovuto specificare le materie per le quali l’intesa è obbligatoria e
disciplinare i casi di dissenso, perché il decreto, prevedendo la
possibilità generica di omettere l’intesa in caso di urgenza,
contemporaneamente affermerebbe e smentirebbe il principio della
obbligatorietà dell’intesa medesima. Ad analoghe censure si
presterebbe inoltre, secondo la ricorrente, l’art. 2, comma 5, del
decreto legislativo impugnato, che consente al Governo, il quale
invochi ragioni di urgenza, discrezionalmente valutate, di omettere
la consultazione preventiva della conferenza, sottoponendo l’atto ad
essa in via successiva.
23. – Le questioni non sono fondate nei termini di seguito
precisati. L’art. 9, comma 1, della legge n. 59, nel fissare oggetto
e criteri della delega al Governo per una disciplina volta a
“definire ed ampliare le attribuzioni” della conferenza
Stato-Regioni, stabilisce fra i principi direttivi quello del
“potenziamento dei poteri e delle funzioni della conferenza
prevedendo la partecipazione della medesima a tutti i processi
decisionali di interesse regionale, interregionale ed infraregionale”
(da intendersi nel senso appena precisato) almeno a livello di
attività consultiva obbligatoria” (lett. a). Il decreto
legislativo, in particolare agli artt. 2 e 5, specifica le categorie
di oggetti su cui la conferenza deve essere sentita, in parte
innovando in senso estensivo previsioni delle leggi previgenti, e
ferme restando le altre disposizioni legislative, non innovate, che
pure prevedono il parere della conferenza medesima (cfr. art. 1,
comma 1, dello stesso d.lgs. n. 281 del 1997). Così, mentre l’art.
12, comma 5, lett. a) della legge n. 400 del 1988 prevedeva la
consultazione della conferenza “sulle linee generali dell’attività
normativa che interessa direttamente le Regioni”, l’art. 2, comma 3,
del d.lgs. n. 281 stabilisce che essa è obbligatoriamente sentita
“in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o
di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle
Regioni”, generalizzando la partecipazione consultiva obbligatoria
sull’attività e sull’iniziativa normativa del Governo nelle materie
regionali. Mentre l’art. 12, comma 5, lett. b) della legge n. 400
del 1988 prevedeva la consultazione della conferenza “sugli indirizzi
generali relativi alla elaborazione ed attuazione degli atti
comunitari che riguardano le competenze regionali”, l’art. 5 del
d.lgs. n. 281 prevede il parere della conferenza sullo schema
dell’annuale disegno di legge “comunitaria”, nonché sugli schemi di
atti amministrativi dello Stato che, nelle materie di competenza
delle Regioni, danno attuazione alle direttive comunitarie ed alle
sentenze della Corte di giustizia delle comunità europee. Nel
quadro di questa estensione della competenza consultiva della
conferenza ad intere categorie di atti statali, non è lesiva
dell’autonomia regionale, né dei criteri della delega, la
statuizione dell’art. 2 del decreto, secondo cui in caso di urgenza
la consultazione preventiva – prevista dalle norme dello stesso
decreto legislativo o da leggi preesistenti – può essere omessa,
realizzandosi invece una consultazione successiva (pur sempre
inquadrabile nell’attività consultiva obbligatoria ai sensi
dell’art. 9, comma 1, lett. a) della legge n. 59), vuoi nell’ambito
di successive fasi di procedimenti non ancora conclusi (art. 2, comma
5, lett. a) e b) del d.lgs. n. 281), vuoi dopo l’adozione definitiva
dei provvedimenti, con obbligo del Governo di valutare
(espressamente) il parere ai fini dell’eventuale revoca o riforma dei
provvedimenti stessi (art. 2, comma 6). Considerazioni analoghe
valgono per quanto riguarda l’art. 3 del decreto legislativo, in tema
di intese. Il decreto legislativo non contiene una normativa
esaustiva sulla conferenza, sicché la disciplina in esso contenuta
si integra con quella derivante dalla legislazione preesistente, e
non innovata, e con quella derivante da altre disposizioni della
stessa legge n. 59 del 1997 (come l’art. 8, comma 1, ove si dispone,
come si è visto, che, salvo il caso dell’urgenza, gli atti di
indirizzo sono adottati previa intesa con la conferenza o con la
singola Regione interessata, mentre l’art. 12, comma 5, lett. b)
della legge n. 400 del 1988 prevedeva solo la consultazione della
conferenza “sui criteri generali relativi all’esercizio delle
funzioni statali di indirizzo e di coordinamento”). In particolare,
l’art. 9, comma 1, della legge n. 59 stabilisce fra i criteri della
delega quello della “specificazione delle materie per le quali è
obbligatoria l’intesa e della disciplina per i casi di dissenso”
(lett. c). In questo quadro, non è illegittimo il disposto
dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo, che, invece di
individuare autonomamente le “materie per le quali è obbligatoria
l’intesa”, stabilisce che le norme in esso contenute si applicano “a
tutti i procedimenti in cui la legislazione vigente prevede un’intesa
nella conferenza Stato-Regioni”: così definendo per relationem, ma
non perciò in contrasto con la delega, i casi in cui è obbligatoria
l’intesa. Anche a questo proposito, non è di per sé censurabile la
previsione – destinata a valere nei casi di intesa previsti dalla
legislazione vigente – secondo cui, in caso di motivata urgenza, il
Governo può provvedere senza la previa intesa con la conferenza,
sottoponendo in questo caso l’atto alla conferenza medesima in via
successiva, con l’obbligo per il Governo di esaminarne le
osservazioni ai fini di deliberazioni successive (art. 3, comma 4,
del decreto legislativo n. 281). Si tratta infatti di una deroga ad
un obbligo – quello della preventiva intesa – che discende per lo
più da legge ordinaria: come il legislatore delegato aveva il
potere di definire i casi in cui è obbligatoria la previa intesa – e
lo ha fatto rinviando in toto alla legislazione previgente – così
esso poteva legittimamente delimitare tale obbligo, escludendolo nei
casi di urgenza, anche nelle ipotesi di intesa previste da leggi
ordinarie preesistenti. Né si può dire che ciò contrasti con il
criterio del “potenziamento dei poteri e delle funzioni” della
conferenza, di cui all’art. 9, comma 1, lett. a) della legge n. 59,
poiché il ruolo e il rilievo complessivi della conferenza discendono
dall’insieme delle disposizioni che la riguardano; e nel complesso la
disciplina recata dal decreto legislativo n. 281 comporta senz’altro
un ampliamento delle sue funzioni.
24. – Ciò che si è osservato vale, peraltro, nei casi nei quali
la previsione del parere o dell’intesa, pur giustificata dagli
interessi costituzionali in gioco, discende da una scelta del
legislatore statale non direttamente imposta da norme costituzionali
o comunque sovraordinate. In queste ipotesi, come si è detto, le
norme generali degli artt. 2, commi 5 e 6, e 3, comma 4, del decreto
legislativo n. 281 derogano legittimamente, in parte qua, alle altre
norme, preesistenti o poste dallo stesso decreto legislativo, che
prevedono pareri obbligatori della conferenza o intese con la
medesima. Nei casi, invece, in cui il parere della conferenza o
l’intesa con la medesima si configuri, in concreto, come espressione
di un vincolo costituzionale discendente dalla particolarità
dell’oggetto (cfr., ad esempio, nel contesto dei rapporti fra Stato e
singole Regioni, le sentenze n. 747 del 1988, n. 337 del 1989, nn. 21
e 482 del 1991, n. 242 del 1997), o di obblighi comunque non
derogabili dal legislatore ordinario, non potrebbe lasciarsi alla
determinazione del Governo, nemmeno in nome di ragioni di urgenza, la
scelta fra sottoposizione dell’atto alla conferenza in via
preventiva, ai fini del parere o dell’intesa, e sottoposizione ad
essa, in via successiva, dell’atto adottato senza previo parere o
previa intesa. Le disposizioni in esame vanno interpretate nel senso
che esse si riferiscano solo alle ipotesi (costituenti peraltro l’id
quod plerumque accidit), di parere o intesa richiesti dalla legge
ordinaria e non costituzionalmente vincolati, e non trovino
applicazione, invece, nei particolari casi in cui il parere o
l’intesa siano costituzionalmente dovuti. In questi casi, dunque, non
è applicabile la clausola di esenzione, per ragioni di urgenza,
dalla necessità del parere preventivo o dell’intesa. Interpretate
in questo senso, le disposizioni in esame non meritano le censure ad
esse mosse dalle ricorrenti.
25. – La Regione Puglia denuncia altresì la violazione dell’art.
76 della Costituzione, che deriverebbe dall’avere gli artt. 8 e 9 del
decreto disciplinato la composizione, il funzionamento e le
attribuzioni della conferenza Stato-città, senza che la legge
contemplasse in alcun modo questi come oggetti della delega.
26. – La questione è inammissibile. Il parametro costituito dalla
norma costituzionale sulla delega legislativa, e dalle norme
interposte contenute nella legge di delega, può infatti essere
invocato dalle Regioni a fondamento di questioni di legittimità
costituzionale sollevate in via principale solo in quanto la
violazione denunciata ridondi in lesione dell’autonomia regionale.
Ora, posto che la disciplina della unificazione delle due conferenze,
e quella conseguente relativa al funzionamento della conferenza
unificata, rientra certamente nell’oggetto della delega, le Regioni
non hanno un interesse costituzionalmente tutelato a impugnare norme,
come quelle qui considerate, che riguardano esclusivamente la
composizione e le modalità di funzionamento della conferenza
Stato-città ed autonomie locali, strumento di raccordo che riguarda
di per sé esclusivamente i rapporti fra lo Stato e gli enti locali
subregionali.
27. – Un’ultima censura è mossa dalla Regione Puglia alle
disposizioni dei commi da 1 a 7 dell’art. 20 della legge n. 59 del
1997. I commi 1 e 2 prevedono che ogni anno il Governo presenti un
disegno di legge per la delegificazione di norme concernenti
procedimenti amministrativi, anche coinvolgenti amministrazioni
centrali, locali o autonome, in cui si individuino altresì i
procedimenti relativi a funzioni attribuite alla potestà normativa
delle Regioni e degli enti locali, indicando i principi che restano
regolati da legge della Repubblica. I commi 3 e 4 disciplinano
l’emanazione, l’entrata in vigore e gli effetti dei regolamenti di
delegificazione. Il comma 5 detta i criteri e principi cui devono
conformarsi tali regolamenti (semplificazione, riduzione dei termini
e del numero di procedimenti, accelerazione delle procedure
contabili, ecc.). Il comma 6 prevede un’attività di verifica sugli
effetti dei regolamenti. Il comma 7 stabilisce che “le Regioni a
statuto ordinario regolano le materie disciplinate nei commi da 1 a 6
nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi
contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento
giuridico”; e aggiunge che “tali disposizioni operano direttamente
nei riguardi delle Regioni fino a quando esse non avranno legiferato
in materia”. La Regione Puglia, rilevata l’oscurità delle
disposizioni indicate, afferma che, se da esse si deducesse che i
regolamenti statali di delegificazione possano intervenire anche in
materie di competenza regionale, sia pure solo fino a quando
sopravvenga la disciplina dettata dalla Regione, risulterebbe violato
il principio, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui i regolamenti governativi non sono legittimati a disciplinare
materie di competenza regionale, e lo strumento della delegificazione
non può operare per fonti tra le quali vi è un rapporto di
competenza e non di gerarchia.
28. – La questione è infondata. Fermo il valore di principio,
legittimamente vincolante per i legislatori regionali, dei criteri
indicati nell’art. 20, comma 4, quale che sia il senso attribuibile
all’affermazione – invero non perspicua – per cui “tali disposizioni”
(quelle contenute nei commi da 1 a 6 del medesimo art. 20) “operano
direttamente nei riguardi delle Regioni fino a quando esse non
avranno legiferato in materia”, non è possibile attribuire ad essa
un significato che riguardi o comprenda l’attitudine di future norme
regolamentari statali a disciplinare materie di competenza regionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 5,
lettera c), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per
il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali,
per la riforma della pubblica amministrazione e per la
semplificazione amministrativa);
b) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale delle seguenti disposizioni della predetta legge n. 59
del 1997, sollevate dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt.
5, 76, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione, con il ricorso
indicato in epigrafe (reg. ric. n. 35 del 1997): art. 1; art. 2,
comma 2; art. 3, comma 1, lettere c) ed f); art. 4, commi 1, 2, 3,
lettera a) 2 e 5; art. 8, ad esclusione del comma 5, lettera c), di
cui al capo a); art. 9, comma 1, prima parte e art. 20, commi da 1 a
7;
c) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 1, prima parte, della predetta
legge n. 59 del 1997, sollevata dalla Regione Siciliana, in
riferimento agli artt. 14, 15, 17 e 20 dello statuto siciliano ed
agli artt. 3, 5, 92, 95, 114, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione,
con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 34 del 1997);
d) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1,
lettera a) della legge n. 59 del 1997, e dell’art. 2, comma 1, prima
parte, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed
ampliamento delle attribuzioni della conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e
di Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse
comune delle Regioni, delle Province e dei comuni, con la conferenza
Stato-città ed autonomie locali), sollevate dalla Regione Siciliana,
in riferimento agli artt. 14, 15, 17 e 20 dello statuto siciliano ed
agli artt. 3, 5, 92, 95, 114, 115, 117, 118 e 119 della
Costituzione, e dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 5,
76, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione, con i ricorsi indicati in
epigrafe (reg. ric., rispettivamente nn. 34 e 61, nn. 35 e 62 del
1997);
e) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 8, commi 2 e 3, e dell’art. 9, commi 5, 6 e
7, del predetto decreto legislativo n. 281 del 1997, sollevata dalla
Regione Puglia, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, in
relazione all’art. 9 della legge n. 59 del 1997, con il ricorso
indicato in epigrafe (reg. ric. n. 62 del 1997);
f) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale delle seguenti disposizioni del predetto decreto
legislativo n. 281 del 1997, sollevate dalla Regione Siciliana, in
riferimento agli artt. 14, 15, 17 e 20 dello statuto siciliano e agli
artt. 3, 5, 92, 95, 114, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione,
nonché all’art. 9 della legge n. 59 del 1997, e dalla Regione
Puglia, in riferimento agli artt. 5, 115, 117, 118 e 119 della
Costituzione, nonché all’art. 76 della Costituzione, in relazione
all’art. 9 della legge n. 59 del 1997, con i ricorsi indicati in
epigrafe (reg. ric. n. 61 e n. 62 del 1997): art. 1; art. 8, commi 1
e 4, e art. 9;
g) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 5 e 6,
del predetto decreto legislativo n. 281 del 1997, sollevata dalla
Regione Puglia, in riferimento agli artt. 5, 115, 117, 118 e 119
della Costituzione, nonché all’art. 76 della Costituzione, in
relazione all’art. 9 della legge n. 57 del 1997, con il ricorso
indicato in epigrafe (reg. ric. n. 62 del 1997);
h) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del predetto
decreto legislativo n. 281 del 1997, sollevata dalla Regione Puglia,
in riferimento agli artt. 5, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione,
nonché all’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 9 della
legge n. 57 del 1997, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric.
n. 62 del 1997).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Onida
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 14 dicembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola