Sentenza N. 104 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
26/06/1969
Data deposito/pubblicazione
26/06/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/06/1969
MICHELE FRAGALI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ –
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO –
Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI –
Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VEZIO CRISAFULLI, Giudici,
2 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, recante sanzioni per
omessa denuncia di stranieri o apolidi, e della legge di ratifica 22
aprile 1953, n. 342, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 15 dicembre 1967 dal tribunale di Rovereto
nel procedimento penale a carico di Leoni Lionello, iscritta al n. 10
del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 50 del 24 febbraio 1968;
2) ordinanza emessa il 26 febbraio 1968 dal pretore di Bolzano nel
procedimento penale a carico di Mayr Pietro, iscritta al n. 89 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 170 del 6 luglio 1968;
3) ordinanze emesse il 14 e il 25 giugno 1968 dal pretore di San
Donà di Piave nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Rado
Dante, di Buchacher Manfred e di Vanin Giuseppe, iscritte ai nn. 267,
268 e 269 del Registro ordinanze 1968 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 38 del 12 aprile 1969;
4) ordinanza emessa il 29 aprile 1968 dal pretore di Chiusa nei
procedimenti penali riuniti a carico di Perathoner Giuseppina ed altri,
iscritta al n. 17 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52 del 26 febbraio 1969.
Visti gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 23 aprile 1969 la relazione del
Giudice Ercole Rocchetti;
udito il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
1. – Nel corso del procedimento penale a carico di Leoni Lionello,
imputato del reato di cui all’art. 2 del decreto legislativo 11
febbraio 1948, n. 50, per aver alloggiato una cittadina austriaca senza
comunicarne tempestivamente le generalità alla locale autorità di
pubblica sicurezza, il Tribunale di Rovereto, con ordinanza 15 dicembre
1967, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale del citato art. 2, con riferimento agli
artt. 14, 3 e 10 della Costituzione.
La norma impugnata prevede la comminazione di sanzioni penali a
chiunque, a qualsiasi titolo, dia alloggio od ospitalità ad uno
straniero, anche se parente o affine, e lo assuma per qualunque causa
alle proprie dipendenze, senza comunicarne entro le ventiquattro ore le
generalità all’autorità di pubblica sicurezza.
Secondo il giudice a quo, la disposizione dell’art. 2 contrasta
innanzi tutto con il diritto alla inviolabilità del domicilio,
garantito dall’art. 14 della Costituzione, poiché la limitazione in
essa contenuta non appare, in una società democratica, obbiettivamente
necessaria e viola il c.d. diritto alla riservatezza tutelato dall’art.
8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ratificata con legge
4 agosto 1955, n. 848.
Inoltre, ad avviso del tribunale di Rovereto, l’art. 2 incide sulla
parità di trattamento tra cittadini (art. 3) e tra cittadini e
stranieri (art. 10 della Costituzione e artt. 14 e 16 della Convenzione
citata) in quanto consente che per azioni obbiettivamente identiche
(diversificandosi solo oggettivamente, in relazione all’origine
nazionale del soggetto ospitato) l’ospitante debba essere sottoposto a
diversa disciplina giuridica.
Infine, la norma impugnata concreterebbe una limitazione alla
libertà di locomozione dello straniero che “non appare confacente in
relazione alla citata normativa di parità rispetto al cittadino”.
L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 del 24
febbraio 1968.
È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri
a mezzo della Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il
15 marzo 1968.
Secondo l’Avvocatura, la tutela costituzionale del domicilio di cui
all’art. 14 della Costituzione, si riferisce esclusivamente ad
invasioni reali e non già ad obblighi personali imposti dalla legge al
cittadino. L’onere di comunicazione previsto dalla norma impugnata
trova il suo fondamento nei motivi di sicurezza che impongono in una
società democratica l’adozione di particolari cautele nei confronti
dello straniero. D’altra parte l’indirizzo del luogo ove si risiede non
costituisce un aspetto intimo della vita dell’individuo, ma rientra tra
le notizie sulla propria identità che il cittadino è tenuto a
fornire.
Neppure sussiste, secondo l’Avvocatura, la dedotta violazione
dell’art. 3 della Costituzione, in quanto il principio di eguaglianza
è inviolabile solo nel caso in cui sussistano le medesime condizioni
di fatto, e non dove la discriminazione è giustificata dalla
differente nazionalità dei destinatari dell’ospitalità.
Quanto poi all’art. 10 della Costituzione, la difesa del Presidente
del Consiglio rileva che la Carta costituzionale, col rinviare al
legislatore ordinario la regolamentazione dello status dello straniero,
sia pure in conformità delle norme e dei trattati internazionali, ha
implicitamente riconosciuto la possibilità di differenziazioni tra il
cittadino e lo straniero, con la conseguenza che appare irrilevante il
richiamo alla libertà di circolazione e di soggiorno garantita al
cittadino dall’art. 16 della Costituzione.
L’Avvocatura, quindi, conclude chiedendo che vengano dichiarate
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal
tribunale di Rovereto.
2. – Il pretore di Bolzano, con ordinanza 26 febbraio 1968, ha
ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo
11 febbraio 1948, n. 50 e della legge di ratifica 22 aprile 1953, n.
342, con riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, proposta
dal difensore nel corso del procedimento penale a carico di Mayr
Pietro, imputato della contravvenzione di cui all’art. 665 del Codice
penale in relazione agli artt. 1 e 2 del decreto legislativo citato.
Nell’ordinanza si osserva che il decreto legislativo 11 febbraio
1948, n. 50, è stato emanato in forza dell’art. 6 del decreto
legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, che, nel delegare al
Governo il potere legislativo, disponeva che i provvedimenti
legislativi deliberati durante il periodo della costituente, dovessero
essere sottoposti a ratifica del nuovo parlamento entro un anno dalla
sua entrata in funzione. Il termine però non venne rispettato e solo
con legge 22 aprile 1953, n. 342, il Parlamento provvide a ratificare,
insieme ad altri analoghi provvedimenti, il suddetto decreto.
Secondo il giudice a quo, esso deve considerarsi privo di efficacia
non essendo stato ratificato nel termine stabilito; d’altro canto, la
legge di ratifica, emanata quando il provvedimento cla ratificare era
già caducato, gli ha attribuito ex post una efficacia temporale al di
fuori dei limiti entro cui la funzione legislativa del Governo doveva
essere contenuta. Questa situazione pone la legge di ratifica in
contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, alla stregua dei
quali “la determinazione dei principi e dei criteri direttivi nonché
dei limiti di tempo, deve precedere e non seguire l’emanazione del
decreto legislativo”.
Inoltre, secondo l’ordinanza, la questione di legittimità si pone
anche sotto il profilo della inesistenza della legge di delega, in
quanto la delega del potere legislativo al Governo venne attuata con un
decreto legislativo luogotenenziale.
L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 6 luglio 1968
n. 170.
Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale è intervenuto
soltanto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale nelle deduzioni
del 23 luglio 1968 ha sostenuto l’infondatezza della questione, in
quanto il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, non
conferì al Governo una “delega legislativa” bensì una attribuzione
straordinaria e provvisoria di potere legislativo al Consiglio dei
Ministri.
Pertanto, il decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, resta
fuori dell’ambito di applicazione dei princìpi sulla delegazione
legislativa, stabiliti dagli artt. 76 e 77 della Costituzione con la
conseguenza che diventa irrilevante anche la censura relativa alla
inesistenza della legge di delega.
Inoltre, per quanto concerne la questione relativa al termine,
l’Avvocatura osserva che il decreto legislativo luogotenenziale n. 98
del 1946 si limitava soltanto a prescrivere l’obbligo per il Governo di
presentare per la ratifica, entro un anno dall’entrata in funzione
delle Camere, i decreti legislativi da esso emanati: ne deriva che
nessun rilievo può essere attribuito alla circostanza che la ratifica
stessa sia intervenuta molto più tardi, una volta assodato che il
decreto fu presentato nei termini.
3. – La questione di legittimità costituzionale proposta dal
pretore di Bolzano è stata sollevata negli stessi termini dal pretore
di Chiusa con ordinanza 29 aprile 1968, nel corso dei procedimenti
penali riuniti a carico di Perathoner Giuseppina ed altri.
L’ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 26 febbraio
1969 n. 52.
4. – Con ordinanza emessa in data 14 giugno 1968, nel corso dei
procedimenti penali a carico di Rado Dante e di Buchacher Manfred ed
altri, il pretore di San Donà di Piave ha ritenuto rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, con
riferimento all’art. 3 (in relazione agli artt. 2 e 10, primo e secondo
comma) della Costituzione.
Osserva il giudice a quo che la differenza tra la situazione
giuridica di colui che dà alloggio a un cittadino straniero o a un
apolide e quella di chi dà alloggio a un cittadino italiano, pone in
essere una ingiustificata disparità di trattamento che contrasta con
il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Nell’ordinanza si riconosce che tale norma si riferisce esclusivamente
ai cittadini, ma si afferma che essa non può essere presa in
considerazione isolatamente, ma deve essere interpretata, in relazione
agli altri principi costituzionali: in particolare con riferimento
all’art. 2 che tutela i diritti inviolabili dell’uomo a qualunque
nazionalità appartenga; e all’articolo 10, secondo comma, secondo cui
la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in
conformità delle norme dei trattati internazionali. Sotto il primo
profilo, secondo il giudice a quo, la diversificazione posta dalla
norma impugnata è del tutto arbitraria, in quanto incide sui diritti
fondamentali (di circolazione e di soggiorno) dello straniero: dal
secondo punto di vista, il decreto legislativo n. 50 del 1948 contrasta
con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
ratificata con legge ordinaria 4 agosto 1955, n. 848, in quanto
consente una ingiustificata ingerenza dell’autorità di pubblica
sicurezza nella vita privata e familiare dei cittadini.
Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state
pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 del 12
febbraio 1969.
Nei giudizi dinanzi alla Corte non v’è stata costituzione di parti
né intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri.
5.-Nel corso del procedimento penale a carico di Vanin Giuseppe,
imputato del reato di cui all’art. 2 del decreto legislativo 11
febbraio 1948, n. 50, per avere assunto alle proprie dipendenze due
cittadini siriani omettendo la relativa comunicazione all’autorità di
pubblica sicurezza, il pretore di San Donà di Piave, con ordinanza
emessa il 25 giugno 1968, ha proposto nei confronti dell’art. 2 del
decreto legislativo citato, analoga questione di legittimità
costituzionale.
L’ordinanza, di contenuto identico a quelle emesse il 14 giugno
1968, è stata notificata, comunicata e pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 38 del 12 febbraio 1969.
Anche in questo giudizio, non v’è stata costituzione di parte.
1. – Le questioni di costituzionalità proposte con le cinque
ordinanze in epigrafe si riferiscono alle medesime disposizioni di
legge e pertanto le cause relative, congiuntamente trattate, possono
essere decise con unica sentenza.
Investito dalle censure, sotto le varie prospettazioni che verranno
gradatamente esaminate, è il decreto legislativo 11 febbraio 1948, n.
50, nella sua totalità e nelle norme dei due articoli di cui esso si
compone.
Tale decreto, all’art. 1, dispone un aumento delle pene comminate
dall’art. 109 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza per coloro
che, dando alloggio per mercede, omettono, nei confronti degli
stranieri o apolidi, quelle denunzie di arrivo, partenza e destinazione
cui sono tenuti per tutte le persone alloggiate; e, all’art. 2, estende
l’obbligo della denunzia, con la relativa sanzione per la sua
omissione, a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, danno alloggio od
ospitalità a stranieri o apolidi, anche se parenti o affini, o li
assumono al lavoro.
2. – Pregiudiziale si presenta l’esame delle censure contenute
nelle ordinanze dei pretori di Bolzano e di Chiusa, perché esse
investono l’intero decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, che si
assume emanato in violazione dei principi di cui agli artt. 76 e 77
della Costituzione.
Tale decreto risale ad epoca anteriore alla ricostituzione delle
Assemblee parlamentari e fu emesso in forza delle disposizioni del
decreto legislativo 25 giugno 1944, n. 151, che conferì al Governo la
facoltà di emanare norme giuridiche, nonché in forza di quelle del
successivo decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 48, che prescrisse,
per tutti i provvedimenti legislativi in tal modo emanati, l’obbligo
della loro sottoposizione a ratifica del nuovo Parlamento, entro un
anno dalla sua entrata in funzione.
Ora, secondo i pretori di Bolzano e di Chiusa il decreto
legislativo n. 50 del 1948 sarebbe da ritenersi costituzionalmente
illegittimo, sia perché mancherebbe per esso una legge di delegazione,
stante che la delega al Governo fu conferita non con legge, ma con
decreto legislativo; e sia perché la ratifica cui un decreto doveva
essere, per la già richiamata norma speciale, sottoposto entro un
anno, sarebbe intervenuta fuori del termine anzidetto, a mezzo della
legge 22 aprile 1953, n. 342.
Entrambe le questioni sono infondate.
Quanto alla prima, è da rilevare che questa Corte ha già ritenuto
più volte (sentenze nn. 46 del 1960, 85 del 1962, 27 e 95 del 1964)
che la facoltà di emanare provvedimenti aventi forza di legge,
concessa al Governo a mezzo dei due decreti legislativi luogotenenziali
151 del 1944 e 98 del 1946 sull’ordinamento provvisorio dello Stato,
non può inquadrarsi nei principi della delega legislativa, dovendo
essere considerata come attribuzione allo stesso Governo del potere di
legiferare in sostituzione degli organi legislativi mancanti, e salvo
ratifica da parte di essi dopo la loro intervenuta ricostituzione.
Alla struttura di questo sistema straordinario e provvisorio, come
ai provvedimenti in forza di esso emanati, sono da ritenersi estranee,
e perciò inapplicabili, le norme degli artt. 76 e 77 della
Costituzione. Questa, per altro, avendo, nella disposizione XV
transitoria, disposto la conversione in legge del decreto legislativo
luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, sull’ordinamento provvisorio
dello Stato, ha reso con ciò impossibile ogni riferimento a
disposizioni diverse da quelle di cui al detto decreto per quanto
attiene al riscontro della validità dei provvedimenti in base allo
stesso emanati.
Anche l’altra censura sul preteso superamento dei termini stabiliti
per la ratifica è poi da ritenersi priva di fondamento, giacché nulla
rileva che tale ratifica è intervenuta soltanto con la legge n. 342
del 1953, dal momento che la sottoposizione a ratifica da parte del
Governo venne effettuata nei termini dell’anno dall’entrata in funzione
del nuovo Parlamento, così come disposto dall’art. 6 del decreto
legislativo n. 98 del 1946, il cui precetto aveva come destinatario il
primo e non il secondo dei detti due poteri dello Stato (sentenze 46
del 1960, 27 e 95 del 1964).
La richiesta di ratifica da parte del Governo avvenne infatti alla
Camera dei Deputati il 4 maggio del 1949, e quindi prima che scadesse
l’anno dall’entrata in funzione del nuovo Parlamento, la cui seduta
inaugurale aveva avuto luogo il 9 maggio 1948.
Ed è appena il caso di rilevare, giacché la formula del citato
art. 6 (“i provvedimenti… devono essere sottoposti a ratifica”) non
ammette equivoci, che nell’anno doveva avvenire la sottoposizione a
ratifica, e cioè la presentazione per la ratifica e non già la
ratifica stessa, per provvedere alla quale il Parlamento non aveva
avuto assegnato alcun termine.
3. – Passando all’esame delle censure che attengono al merito della
causa, si rileva innanzi tutto la infondatezza di quella dedotta dal
tribunale di Rovereto relativamente all’art. 2 del decreto legislativo
n. 50 del 1948 che, si sostiene, con l’imporre la denuncia
all’autorità di p.s. della ospitalità concessa nella propria
abitazione a stranieri o apolidi, anche se parenti, violerebbe l’art.
14, primo comma, della Costituzione, il quale proclama che il domicilio
è inviolabile.
Ora la tutela garantita dall’art. 14, come è chiaramente rivelato
dai tipi di immissione consentiti alla pubblica autorità con le forme
e nei casi indicati nei due commi successivi dello stesso art. 14
(ispezioni, perquisizioni, sequestri ed accertamenti), non copre la
sfera di quegli obblighi personali di informazione e comunicazione che
la legge può imporre al cittadino, anche se connessi all’uso che egli
fa del luogo da lui adibito a suo domicilo.
È pertanto da escludersi che sia violato, nel caso, il dirtto di
libertà garantito dall’art. 14 della Costituzione.
4. – Lo stesso tribunale di Rovereto, e successivamente il pretore
di San Donà di Piave, hanno poi dedotto la illegittimità
costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo n. 50 del 1948
con riferimento all’art. 3 della Costituzione e in relazione agli artt.
2 e 10 della stessa.
A loro dire, le norme del decreto legislativo in esame avrebbero
irrazionalmente riservato un trattamento differenziato a due situazioni
da ritenersi equivalenti, com’è quella di colui che alloggia od ospita
un cittadino, di fronte a quella di colui che alloggia od ospita uno
straniero od un apolide.
Presupposto di tale ritenuta eguaglianza delle due situazioni è
ovviamente la eguaglianza, parimenti ritenuta nelle ordinanze di
rimessione, fra il cittadino e lo straniero nella tutela dei diritti
inviolabili dell’uomo (art. 2 della Costituzione) e nei diritti allo
straniero riconosciuti dalla legge in conformità delle norme e dei
trattati internazionali nell’ordina. mento giuridico italiano che si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute (art. 10, secondo e primo comma della Costituzione).
La Corte ha accolto, nella sentenza 120 del 1962, il punto di vista
che il principio di eguaglianza, pur essendo nell’art. 3 della
Costituzione riferito ai cittadini, debba ritenersi esteso agli
stranieri allorché si tratti della tutela dei diritti inviolabili
dell’uomo, garantiti allo straniero anche in conformità
dell’ordinamento internazionale.
E da tale affermazione relativa alla parificazione dello straniero
al cittadino, la Corte non ha motivo di discostarsi, essendo ovvio che,
per quanto attiene ai diritti inviolabili della personalità, che
rappresentano un minus rispetto alla somma dei diritti di libertà
riconosciuti al cittadino, la titolarità di quei diritti, comune al
cittadino e allo straniero nell’ambito di quella sfera, non può non
importare, entro la stessa, una loro posizione di eguaglianza.
Ma la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo
della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che,
nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti
uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e
regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se
non nella razionalità del suo apprezzamento. Ora, nel caso, non può
escludersi che, tra cittadino e straniero, benché uguali nella
titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto
che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di
quegli stessi diritti. Il cittadino ha nel territorio un suo domicilio
stabile, noto e dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il
cittadino ha diritto di risiedere ovunque nel territorio della
Repubblica ed, ovviamente, senza limiti di tempo, mentre lo straniero
può recarsi a vivere nel territorio del nostro, come di altri Stati,
solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che è in
genere limitato, salvo che egli non ottenga il così detto diritto di
stabilimento o di incolato che gli assicuri un soggiorno di durata
prolungata o indeterminata; infine il cittadino non può essere
allontanato per nessun motivo dal territorio dello Stato, mentre lo
straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie
per commessi reati.
Questa differenza di situazioni di fatto e di connesse valutazioni
giuridiche, la cui elencazione è superfluo continuare. sono rilevabili
in ogni ordinamento e si fondano tutte sulla basilare differenza
esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente nella
circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito
originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e
generalmente temporaneo. Ne deriva che ogni indagine diretta ad
accertare ove esuli si trovi nel territorio dello Stato, sia che si
consegua con l’obbligo a lui imposto di denunciare ogni suo snostamento
da Comune a Comune (art. 142 del testo unico legge di pubblica
sicurezza) o con l’obbligo concorrente, ed eventualmente sostitutivo,
imposto a chi lo alloggia o lo ospita di segnalare la sua presenza
(artt. 1 e 2 decreto legislativo n. 50 del 1948) è legittima, perché
fondata sulla necessità razionale di poter raggiungere lo straniero
ovunque si trovi; e ciò non solo allo scopo di sottoporlo a controllo,
ma anche di assicurargli nnelle forme di assistenza che gli sono
dovute, partecipandogli, ad esempio, informazioni e notizie urgenti con
le quali le sue autorità consolari intendano raggiungerlo.
Per tutte queste ragioni devono essere ritenute infondate anche le
censure attinenti a pretese violazioni dei principi relativi
all’eguaglianza di cui agli artt. 3, 2 e 10 della Costituzione.
5. – Ma il discorso su questo punto non può ritenersi concluso
perché, a sostegno della tesi della violazione di quei principi, il
tribunale di Rovereto e il pretore di San Donà di Piave hanno dedotto,
come norme di riferimento, egualmente volte alla loro tutela, anche le
disposizioni degli artt. 8, 14 e 16 della Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo, stipulata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in
Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Tale convenzione dispone all’art. 8 il diritto al rispetto della
vita privata o familiare, del domicilio e della corrispondenza e
afferma, all’art. 14, che il godimento di tali diritti, come di ogni
altro contemplato nell’intero testo della convenzione, deve essere
assicurato a tutti senza distinzione alcuna salvo (art. 16) le
limitazioni all’attività politica degli stranieri.
Il pretore di San Donà di Piave si pone per altro il quesito della
forza di resistenza attribuibile a tale norma della convenzione sul
piano del nostro cliritto pubblico interno’ nel quale quelle norme
potrebbero inserirsi per il tramite degli artt. 2 e 10 della
Costituzione.
La Corte, che nella sentenza n. 32 del 1960 ebbe a ritenere che la
disposizione dell’art. 10 si riferisce alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute e non ai singoli impegni
assunti nel campo internazionale dallo Stato, nel riportarsi a tale suo
avviso, non ritiene necessario, ai fini della risoluzione dei problemi
formanti oggetto di questo giudizio, ogni ulteriore indagine
sull’argomento. E ciò perché, anche se le citate norme della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo avessero quella forza di
resistenza che il pretore di San Donà di Piave mostra di ritenere, la
soluzione del caso non cambierebbe, non essendo dubitabile che, anche
in presenza dei diritti garantiti dai richiamati articoli di detta
Convenzione, abbiano rilevanza le differenze di fatto esistenti fra
soggetti tutelati, con le conseguenze di cui si è innanzi discusso.
Inoltre, il secondo comma dell’art. 8 della Convenzione che ha, nei
confronti delle correlative norme della Costituzione qualche sfumatura
di migliore precisazione della tutela della riservatezza, non esclude
che possa nella vita privata e familiare, nel domicilio e nella
corrispondenza, aversi ingerenza della pubblica autorità, “nei limiti
in cui tale ingerenza è prevista dalla legge e costituisce una misura
che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza
nazionale, la sicurezza pubblica, il benessere economico del paese, la
difesa dell’ordine e la prevenzione delle infrazioni penali, la
protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Tenuto conto di ciò, deve affermarsi che le norme dei due articoli
di cui si compone il decreto legislativo n. 50 del 1948, e che tendono
ad accertare soltanto la notizia del luogo ove lo straniero si trovi
nel nostro Paese e cioè ad averne in ogni momento il recapito, non
possono violare il disposto dell’art. 8 della Convenzione, perché
l’ingerenza della nostra autorità, cui dalla legge è consentito di
procurarsi quelle notizie, non può non trovare giustificazione in una
o più delle molteplici ragioni contemplate da quell’articolo e
ritenute valide a giustificare quella ingerenza.
Anche quest’ultima censura di cui alle richiamate ordinanze deve
pertanto dichiararsi infondata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
sollevate con le ordinanze di cui in epigrafe e relative al decreto
legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, ratificato con legge 22 aprile
1953, n. 342, avente per oggetto sanzioni per omessa denunzia di
stranieri, in riferimento agli artt. 76 e 77, 14, 3, 2 e 10 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nela sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 19 giugno 1969.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VEZIO
CRISFULLI.