Sentenza N. 282 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
25/05/1989
Data deposito/pubblicazione
25/05/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/05/1989
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL’ANDRO, prof.
Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo
CASAVOLA, prof. Luigi MENGONI, avv. Mauro FERRI;
comma, del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 10 febbraio 1988 dal Tribunale di
sorveglianza di Firenze nel procedimento penale a carico di Lombardo
Rosario, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 1988 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie
speciale, dell’anno 1988;
2) ordinanza emessa il 10 dicembre 1987 dal Tribunale di Bergamo
nel procedimento penale a carico di Tassetti Marco, iscritta al n.
202 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1988.
Visti gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1988 il Giudice
relatore Renato Dell’Andro;
181/1988) nel procedimento relativo alla revoca della liberazione
condizionale alla quale Lombardo Rosario era stato ammesso, il
Tribunale di sorveglianza di Firenze solleva, in riferimento agli
artt. 3 e 13 Cost., questione di legittimità costituzionale
dell’art. 177, primo comma, c.p., nella parte in cui esclude che, in
caso di revoca della liberazione condizionale, il Tribunale di
sorveglianza possa determinare la residua pena da espiare,
disponendo, invece, che il tempo trascorso in libertà condizionale
non sia computato nella durata della pena.
In primo luogo, il giudice a quo ricorda che, con la sentenza n.
343 del 1987, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale del decimo comma dell’art. 47 della legge 26 luglio
1975, n. 354, nella parte in cui – in caso di revoca del
provvedimento d’ammissione all’affidamento in prova per comportamento
incompatibile con la prosecuzione della prova – non consente al
tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da
espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal
condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo
d’affidamento in prova.
Il giudice a quo prosegue affermando che la determinazione della
residua pena detentiva da espiare debba spettare al Tribunale di
sorveglianza anche nel caso di revoca della liberazione condizionale.
Infatti, al pari dell’affidamento in prova, la libertà vigilata
conseguente alla liberazione condizionale ha natura di misura
sostitutiva della pena. Peraltro, la disciplina che regola la
liberazione condizionale ha carattere restrittivo e sanzionatorio:
invero, nei confronti del condannato ammesso alla liberazione
condizionale, viene sempre disposta la libertà vigilata ( ex art.
230, n. 2, c.p.) con conseguente applicazione di prescrizioni, per le
quali la legislazione vigente stabilisce alcuni criteri fondamentali
(art. 228 c.p., n. 649, unico comma, c.p.p.). Tali prescrizioni
comportano non lievi limitazioni all’esercizio di diritti
costituzionalmente garantiti (ad es. il divieto di allontanarsi da un
certo ambito territoriale od il divieto di trattenersi fuori della
propria abitazione in certe ore). Pertanto, una revoca della
liberazione condizionale che non tenga in alcun conto le restrizioni
sofferte in precedenza, da un canto appare in contrasto con l’art. 13
Cost., e, dall’altro, con l’art. 3 Cost., in quanto non consente una
commisurazione tra condotta ulteriore e sanzione aggiuntiva né il
pari trattamento di condotte analoghe e la differenziazione di
condotte diverse.
2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.
Ad avviso dell’Avvocatura, l’istituto della liberazione
condizionale presenta connotazioni diverse da quelle caratterizzanti
l’affidamento in prova, in base alle quali è stata possibile la
pronuncia d’illegittimità costituzionale citata nell’ordinanza di
rimessione.
Invero, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la
liberazione condizionale configuri un istituto affine alla
sospensione condizionale della pena e non una misura alternativa alla
detenzione; nella liberazione condizionale, in sostanza, si avrebbe
una sospensione condizionale della pena “residua” e non di “tutta” la
pena. Date queste premesse, non si può operare uno scomputo della
pena precedentemente sospesa sol perché nel periodo di tempo
intercorrente tra la condanna “sospesa” e la revoca della sospensione
la rinuncia alla punizione da parte dello Stato sia sub condicione.
3. – Con ordinanza emessa il 10 dicembre 1987 (Reg. ord. n.
202/1988) nel procedimento penale a carico di Tassetti Marco, il
Tribunale di Bergamo solleva, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27
Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 177 c.p.,
nella parte in cui stabilisce che, in caso di revoca della
liberazione condizionale, “il tempo trascorso in libertà
condizionale non è computato nella durata della pena”.
L’ordinanza di rimessione sottolinea, preliminarmente, che la
liberazione condizionale è un istituto di diritto penitenziario
avente sostanza di pena, in considerazione delle ampie limitazioni
delle libertà individuali che essa comporta. Di qui il Tribunale di
Bergamo fa discendere un primo dubbio di legittimità costituzionale,
per contrasto con l’art. 13 Cost., dell’art. 177 c.p. Quest’ultimo
articolo prevede che il soggetto, al quale sia stata revocata la
liberazione condizionale, subisca una restrizione della libertà
senza il necessario presupposto d’un provvedimento dell’autorità
giudiziaria ordinaria: il mancato computo del periodo trascorso in
libertà condizionale nella durata della pena detentiva, conclude il
giudice remittente, si traduce, infatti, in una misura che non trova
titolo in un provvedimento giurisdizionale. Né, a tal fine, si può
risalire all’originaria sentenza di condanna, che è titolo solo per
la pena relativa all’accertato reato.
L’art. 177 c.p. si porrebbe in contrasto, inoltre, con l’art. 3
Cost. Il Tribunale di Bergamo, in proposito, ricorda la già citata
sentenza n. 343 del 1987 di questa Corte e, ritenuta l’identità di
natura tra affidamento in prova al servizio sociale e liberazione
condizionale, lamenta la violazione del principio d’eguaglianza.
Tenuto conto delle prescrizioni imposte dalle due misure, emerge che
quelle previste dalla norma sulla liberazione condizionale sono ben
più afflittive di quelle inerenti all’affidamento in prova al
servizio sociale.
Il Tribunale di Bergamo sostiene, infine, che l’art. 177 c.p.
configuri una sorta di responsabilità oggettiva, ledendo, di
conseguenza, il principio della personalità della responsabilità
penale sancito dall’art. 27 Cost.
4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per l’infondatezza della questione sulla base di
considerazioni identiche a quelle prospettate nell’atto d’intervento
nel giudizio promosso dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con
ordinanza 10 febbraio 1988 (Reg. ord. n. 181/1988).
legittimità costituzionale dell’art. 177, primo comma, c.p., nella
parte in cui dispone che il tempo trascorso in libertà condizionale,
nel caso di revoca della medesima, non è computato nella durata
della pena: le predette ordinanze possono, pertanto, esser
congiuntamente esaminate e la questione proposta può esser decisa
con unica sentenza.
2. – I giudici a quibus, rilevato che questa Corte, con sentenza n.
343 del 1987, dichiarando parzialmente illegittimo il decimo comma
dell’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, ha sottolineato il
carattere sanzionatorio “afflittivo” delle prescrizioni inerenti
all’affidamento in prova al servizio sociale, di cui alla legge ora
citata, ed ha ritenuto, appunto a causa delle significative
limitazioni all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti che
tali prescrizioni comportano, contrastante con la Costituzione il
divieto di tener conto, nel caso di revoca dell’affidamento in prova,
del periodo d’effettiva realizzazione dello stesso affidamento, ai
fini della determinazione della residua pena detentiva; rilevato
ancora che la liberazione condizionale costituisce misura sostitutiva
della pena detentiva e comporta, durante il tempo di sua
applicazione, limitazioni all’esercizio di diritti costituzionalmente
sanciti; chiedono che le decisioni adottate con la citata sentenza
vengano estese all’ipotesi di revoca della liberazione condizionale.
La premessa dalla quale partono gli stessi giudici (“analogia” tra
le misure della liberazione condizionale e dell’affidamento in prova
al servizio sociale) è contestata dall’Avvocatura dello Stato.
Quest’ultima assume essere la liberazione condizionale “analoga” alla
sospensione condizionale della pena piuttosto che all’affidamento in
prova al servizio sociale: e, pertanto, ritiene che del tempo
trascorso in liberazione condizionale, nell’ipotesi di revoca della
medesima, non si debba tener conto nella determinazione della residua
pena detentiva.
3. – Vale premettere che è stata sospettata d’illegittimità
costituzionale l’ultima parte del primo comma dell’art. 177 c.p. e,
cioè, la disposizione sulla quale la maggioranza della dottrina
fonda la natura giuridica della liberazione condizionale: si
sostiene, infatti, da molti Autori, che il divieto, nel caso di
revoca della liberazione condizionale, di computare, nella durata
della pena, il tempo trascorso in libertà vigilata ex art. 230, n.
2, c.p., conduce ad escludere che la predetta liberazione sia
inquadrabile tra le modalità d’esecuzione della pena e ad accettare
la tesi che configura la stessa liberazione quale causa di
sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, a carattere
probatorio, destinata ad evolversi, avverandosi determinate
condizioni, in causa d’estinzione della stessa pena. E tra le due
indicate tesi s’aggira il dibattito intorno alla natura giuridica
dell’istituto in esame.
Va subito osservato: 1) che non è metodologicamente corretto
fondare l’intero discorso sulla natura giuridica d’un determinato
istituto su una sola disposizione di legge (il cui contenuto, fra
l’altro, è rimasto identico sia nel codice Zanardelli, che prevedeva
la liberazione condizionale nel titolo “Delle pene” sia nel codice
Rocco, che la stessa liberazione ha incluso fra le cause d’estinzione
della pena); 2) che se anche, ai fini indicati, fosse possibile
basarsi su un’unica disposizione di legge, dovrebbe, almeno,
previamente verificarsi la legittimità costituzionale della stessa
disposizione; 3) che il divieto di computare, nella durata della pena
detentiva, il tempo trascorso in libertà vigilata può esser
indicativo, al massimo, del fatto che il legislatore non ritiene
“equivalente” la pena detentiva alla libertà vigilata ex art. 230,
n. 2, c.p. e che considera quest’ultima insignificante (ed è la
legittimità costituzionale di questa valutazione legislativa che va,
appunto, verificata) in confronto ai pesi afflittivi della detenzione
ma non può condurre a conclusioni in ordine alla natura giuridica
della liberazione condizionale.
E che non sia nel quadro dell’alternativa modalità d’esecuzione
della pena, carattere sospensivo-probatorio della liberazione
condizionale che va impostato il quesito sollevato dalle ordinanze di
rimessione, è dimostrato dall’avere il legislatore previsto,
soltanto qualche anno dopo il 1930, all’art. 21, terzo comma, del
regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404 (convertito nella legge
27 maggio 1935, n. 835, con modificazioni) nell’ipotesi che il
Tribunale per i minorenni sostituisca alla libertà vigilata ex art.
230, n. 2, c.p., l’internamento in un riformatorio giudiziario, in
una colonia agricola od in una casa di lavoro, che il tempo trascorso
in tali stabilimenti venga computato nella durata della pena
detentiva. Or non è pensabile che la liberazione condizionale cambi
natura e (da istituto sospensivo-probatorio, nell’ipotesi che si
applichi ai maggiori degli anni diciotto ed ai condannati che
commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto, allorché
non si disponga la sostituzione della libertà vigilata con
l’internamento negli stabilimenti sopra citati) si trasformi in
modalità esecutiva della pena qualora venga applicata a condannati
che commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto (ma
che, si badi, possono anche aver superato, all’atto dell’ammissione
alla liberazione condizionale, gli anni ventuno) sol perché è stata
disposta la sostituzione della libertà vigilata con l’internamento
negli stabilimenti indicati nell’art. 21 del citato regio
decreto-legge.
Né si obietti che la liberazione condizionale dei condannati che
commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto, potendo
essere “concessa” in qualunque momento dell’esecuzione e qualunque
sia la durata della pena detentiva inflitta (ai sensi del primo comma
dell’art. 21 del citato regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404)
abbia natura diversa dalla liberazione di tutti gli altri condannati.
All’obiezione è agevole rispondere che anche per la liberazione dei
condannati che commisero il reato quando erano minori degli anni
diciotto, ove sia “normalmente” applicata la libertà vigilata ex
art. 230, n. 2, c.p., il tempo trascorso in libertà condizionale non
è computato nella durata della pena detentiva inflitta: soltanto
nell’ipotesi che il Tribunale per i minorenni disponga la
sostituzione della libertà vigilata con l’internamento in un
riformatorio giudiziario, in una colonia agricola od in una casa di
lavoro (cfr. il secondo comma dell’art. 21 del citato decreto-legge)
il tempo trascorso nei predetti stabilimenti, ai sensi del terzo
comma dello stesso articolo, è, all’opposto, computato nella durata
della pena originariamente inflitta.
Vero è che, a prescindere del tutto dall’alternativa modalità
esecutiva della pena, istituto sospensivo probatorio della
liberazione condizionale, le disposizioni sul computo (oppur no), in
caso di revoca della stessa liberazione condizionale, del tempo
trascorso in quest’ultima nella durata della pena detentiva
originaria, discendono dal “raffronto” che il legislatore compie tra
il peso afflittivo (ed i sostegni “rieducativi”) della pena detentiva
ed il peso afflittivo (con i relativi sostegni “rieducativi”) della
misura che viene sostituita alla stessa pena durante lo stato di
libertà condizionale: il legislatore, nell’art. 21 del regio
decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, parifica alla pena detentiva
l’internamento negli istituti previsti nello stesso articolo, essendo
tale internamento misura ugualmente detentiva; mentre esclude, del
tutto, il confronto tra pena detentiva e libertà vigilata ex art.
230, n. 2, c.p., nel senso che valuta insignificante l’afflittività
di quest’ultima (misura non detentiva) tenuto anche conto dei
sostegni rieducativi offerti durante il predetto stato di libertà
vigilata.
D’altra parte, se è vero che (intendendosi per pena la sola pena
detentiva) la tesi che ritiene la liberazione condizionale modalità
d’esecuzione della pena (detentiva) è insostenibile (la predetta
modalità inizierebbe, fra l’altro, proprio con la “scarcerazione”
del condannato) è anche vero che soltanto di recente ci si è
accorti, assumendo che dalla disposizione di cui all’art. 51- bis
della legge 26 luglio 1975, n. 354, articolo introdotto con la legge
n. 663 del 1986 (cfr. anche la relazione Gallo al Senato, in sede di
lavori preparatori a quest’ultima legge) si ricavi la distinzione tra
cessazione e revoca della misura alternativa dell’affidamento in
prova al servizio sociale, che, in caso di cessazione (e non di
revoca) dello stesso affidamento, il periodo trascorso nel medesimo
deve valere come pena espiata; e che, pertanto, la computabilità o
meno del periodo trascorso in affidamento non deriva dalla c.d.
natura giuridica dello stesso affidamento ma dal comportamento del
soggetto che, secondo il legislatore, importa (ma illegittimamente,
per quanto si dirà fra breve in ordine alla revoca della liberazione
condizionale) la sanzione aggiuntiva.
Peraltro, a quella parte della dottrina e della giurisprudenza,
che assume che la liberazione condizionale non estingua né modifichi
la potestà di punire dello Stato (e che, pertanto, dando essa inizio
ad una espiazione, in forma alternativa, della pena, non potrebbe non
scomputarsi “tutto” il periodo trascorso in libertà condizionata
dalla durata della pena detentiva originariamente inflitta) va
risposto che il rapporto giuridico punitivo (per chi lo ammetta) va
distinto dai diversi rapporti giuridici d’esecuzione, relativi alle
diverse conseguenze penali della condanna, pur derivando questi
ultimi dal primo: la liberazione condizionale, infatti, mentre
sospende (si preciserà oltre il significato di questa sospensione)
la pena principale detentiva (sospende, cioè, una delle conseguenze
del rapporto giuridico punitivo) lascia tuttavia integro quest’ultimo
che può continuare, così, a rendere concreti altri rapporti
giuridici d’esecuzione di (eventuali) altre conseguenze penali.
E neppure può condividersi la tesi per la quale la parte
impugnata dell’art. 177 c.p. (che, appunto, sancisce il divieto di
computare il periodo trascorso in libertà condizionale, in caso di
revoca di quest’ultima, nella durata della pena inflitta) sarebbe
addirittura “pleonastica”. Inquadrata la liberazione condizionale fra
le cause di sospensione della pena detentiva (e non quale modalità
d’esecuzione della medesima) si è sostenuto, avendo l’ordinanza di
revoca contenuto ricognitivo dell’inefficacia della prova, che la
stessa revoca, considerata quale condizione risolutiva,
determinerebbe l’inefficacia ex tunc del provvedimento. Come si
chiarirà in appresso, l’effetto estintivo dello status di liberato
condizionalmente non comporta, ex se, anche l’effetto risolutivo (ex
tunc) del periodo trascorso in libertà condizionale: ed è, appunto,
l’attribuzione anche di quest’ultimo effetto alla revoca della
liberazione condizionale a rendere, in primo luogo, illegittima (a
causa dell’aumento ingiustificato d'”afflittività” inerente alla
misura della libertà vigilata ex art. 230, n. 2, c.p.) la parte
impugnata dell’art. 177 c.p.
Né, allo scopo di giustificare il divieto di cui alla predetta
parte impugnata dell’art. 177 c.p., può avvicinarsi la liberazione
condizionale alla sospensione condizionale della pena ex art. 163 e
segg. come fa l’Avvocatura generale dello Stato. Quest’ultima,
assumendo che la predetta liberazione costituisca, in sostanza,
“soltanto” una sospensione condizionale (non di tutta, bensì) di una
parte della pena detentiva (salvi gli effetti estintivi “finali”,
nell’ipotesi di mancanza di revoca) sostiene che, allo stesso modo
come, in caso di revoca ex art. 168 c.p. della sospensione
condizionale della pena, ordinata ai sensi dell’art. 163 c.p., non
sono neppur “pensabili” problemi di “scomputo” di pena sol perché,
nel periodo compreso tra l’ordine di sospensione dell’esecuzione ex
art. 163 c.p. e la revoca della sospensione stessa, la c.d. rinuncia
da parte dello Stato alla predetta esecuzione è sub condicione,
così, in caso di revoca della liberazione condizionale ex art. 177,
primo comma, c.p. non vanno posti problemi di “scomputo”, dalla pena
detentiva originariamente inflitta, del tempo trascorso tra
l’ammissione del condannato alla liberazione condizionale ex art. 176
c.p. e la revoca di quest’ultima ex art. 177, primo comma, c.p., sol
perché la c.d. rinuncia dello Stato alla prosecuzione
dell’esecuzione della pena detentiva è sub condicione.
Va, in proposito, da un canto precisato che è ben vero che, come
in sede di sospensione condizionale l’estinzione del reato è
condizionata dalla non commissione, nei termini stabiliti, d’un
delitto ovvero d’una contravvenzione della stessa indole e
dall’adempimento degli obblighi imposti al condannato, così
l’estinzione della pena ex art. 177, secondo comma, c.p., è
condizionata al decorso del tempo indicato nello stesso articolo
senza intervento di cause di revoca; ma occorre nettamente
distinguere le predette condizioni sospensive, alle quali sono
subordinate l’estinzione del reato (per quanto attiene alla
sospensione condizionale) e l’estinzione della pena (per quanto
riguarda la liberazione condizionale) dalla revoca, rispettivamente,
della sospensione condizionale e della liberazione condizionale. La
distinzione tra sospensione condizionale della pena e liberazione
condizionale consiste, fra l’altro, e soprattutto, in questo: la
prima, anche se eventualmente subordinata, nella stessa sentenza di
condanna, all’adempimento di obblighi da parte del condannato (cfr.
art. 168 c.p.) non comporta, dal momento in cui viene ordinata fino a
quello della revoca di cui all’art. 168 c.p., vincoli alla libertà
del condannato (e, per essa, pertanto, non si pongono problemi di
“scomputo”, dalla prefissata pena detentiva, del tempo intercorso tra
l’ordine di sospensione e la sua revoca) mentre la seconda, la
liberazione condizionale, dal momento dell’ammissione del condannato
alla medesima fino a quello della sua revoca ex art. 177 c.p.,
comporta l’adempimento, da parte del condannato, di particolari
prescrizioni (imposte, successivamente alla sentenza di condanna)
inerenti alla libertà vigilata di cui all’art. 230, n. 2, c.p.,
limitative certamente della libertà del condannato. Mentre durante
il tempo che corre tra la concessione della sospensione condizionale
della pena e la sua revoca ex art. 168 c.p., il condannato rimane
nella stessa posizione in cui era prima della condanna, non subendo
alcun vincolo afflittivo (a parte la minaccia di revoca della
sospensione) la posizione in cui viene a trovarsi l’ammesso alla
liberazione condizionale, prima della causa di revoca (o della
revoca) non è di “totale” libertà, ossia quella in cui era prima
della condanna: ed è per questo motivo che, intervenuta la revoca
della liberazione ex art. 177 c.p., si pone, innanzitutto a causa dei
subiti vincoli afflittivi, il problema dello “scomputo” di cui alle
ordinanze di rimessione. Tutto ciò, s’intende, a meno che anche
l’effetto estintivo del reato previsto dall’art. 168 c.p., non venga
condizionato da prove controllate ed afflittive.
Non è, peraltro, sufficiente caratterizzazione della natura
giuridica della liberazione condizionale affermare che la medesima è
causa d’estinzione della pena: su ciò, ai sensi del vigente codice
penale, non cadono dubbi. Ma, a parte il rilievo per il quale
andrebbe precisato, con compiutezza, qual sia l’oggetto
dell’estinzione, indicare gli effetti giuridici d’un istituto non
equivale a chiarirne, ex se, la natura. Sotto l’etichetta
“Dell’estinzione del reato e della pena” il codice penale del 1930
include istituti tanto diversi da far davvero dubitare
dell’unitarietà della categoria: e, comunque, occorrono indagini
specifiche, valide per ciascuno (o per alcuni) degli istituti
raggruppati sotto la predetta etichetta, per poter determinare la
natura giuridica degli istituti stessi. E non è condivisibile il
rilievo per il quale, assumendo la “causa d’estinzione della pena”,
liberazione condizionale come istituto sospensivo-probatorio, fallita
la prova, e cessata quest’ultima, data la non equivalenza tra
detenzione e libertà vigilata, vada esclusa la scomputabilità della
misura sostitutiva (libertà vigilata) dalla durata della pena
detentiva originaria. Che le predette due misure non siano
equivalenti, o siano “eterogenee”, non esclude che siano entrambe
afflittive (e rieducative): sicché il problema non è quello di “non
computare del tutto”, o di computare “tutto”, il periodo trascorso in
libertà vigilata nella durata della pena detentiva originaria bensì
quello di stabilire, in concreto, quanta afflittività sia stata
“sopportata” dal condannato nel tempo in cui è stato sottoposto alla
libertà vigilata di cui all’art. 230, n. 2, c.p. (e quanti
“sostegni” abbia ricevuto, prima della causa di revoca, o della
revoca, della libertà condizionale) e sottrarre dalla pena detentiva
originaria la predetta entità afflittiva, allo scopo di determinare
la pena detentiva “residua” anche in base a tale entità oltre che,
come s’avvertirà fra breve, in relazione al nuovo (dopo la revoca)
giudizio prognostico di rieducabilità. Il tema che ci occupa non
può, dunque, esser impostato (e tantomeno risolto) alla luce delle
tesi finora prospettate intorno alla c.d. natura giuridica della
liberazione condizionale: molto opportunamente, pertanto, la sentenza
n. 343 del 1987, nel risolvere questione analoga a quella qui in
discussione, prescinde, in sede d’affidamento in prova al servizio
sociale, dalle tesi intorno alla natura giuridica dell’affidamento
stesso.
4. – Avvia alla soluzione del quesito proposto dalle ordinanze di
rimessione l’analisi strutturale delle conseguenze immediate
dell’atto d’ammissione alla liberazione condizionale e della revoca
della medesima. Con l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva (e
ci si occupa di questa perché ad essa si riferisce la liberazione
condizionale, non importa, fra l’altro, in questa sede, se si debba
ritenere iniziata l’esecuzione nel momento dell’emanazione
dell’ordine di carcerazione o nel momento della cognizione, da parte
del condannato, dello stesso ordine) lo status del soggetto
sottoposto alla carcerazione (intendendo per status la sintesi delle
situazioni giuridiche subiettive attive e passive che sorgono in
testa all’interessato) assume specifici contenuti desunti dalle norme
(legislative, regolamentari ecc.) che divengono effettive con
l’instaurarsi in concreto della fattispecie costitutiva della pena
carceraria, fattispecie che comprende, quale ultimo elemento, il
predetto ordine di carcerazione (applicativo della volontà espressa
nella sentenza di condanna) o la cognizione del medesimo da parte del
condannato. Dal punto di vista di quest’ultimo, la liberazione
condizionale, come tutte o gran parte delle fattispecie modificative
(ed appunto come tale la predetta liberazione viene classificata)
estingue (intendendosi per estinzione l’impedimento all’ulteriore
“permanenza” delle situazioni giuridiche subiettive sorte in testa al
detenuto con la carcerazione) lo status di detenuto e costituisce lo
status di vigilato in libertà del detenuto stesso. L’atto
d’ammissione alla liberazione condizionale è, dunque, l’ultimo
elemento d’una fattispecie (che comprende anche quanto meno la
condanna e la sofferta carcerazione) estintiva e costitutiva insieme.
Anche le formalità di scarcerazione dell’ammesso alla liberazione
condizionale, già dal regolamento carcerario del 1931 (artt. 168 e
segg.) sono identiche a quelle del definitivamente scarcerato: con la
predetta liberazione il già detenuto è svincolato come dalla misura
privativa della libertà personale-detenzione così da ogni
sottoposizione alle autorità carcerarie, anche se tale liberazione
è sottoposta all’eventualità della revoca ex art. 177 c.p. Il
condizionalmente liberato viene, nello stesso momento, sottoposto
alla misura limitativa della libertà personale dalla libertà
vigilata ex art. 230, n. 2, c.p. ed assume, cioè, un nuovo, diverso
status (di vigilato in libertà) che implica la sottoposizione al
controllo di altri, diversi organi statali.
La revoca della liberazione condizionale (che fa parte anch’essa
d’una fattispecie modificativa) produce, a sua volta, due conseguenze
giuridiche: estingue lo status di “vigilato in libertà” del
condannato e (ri)costituisce quello di “detenuto”. Anche tale revoca
integra, pertanto, l’ultimo elemento d’una fattispecie estintiva e
costitutiva insieme: la nuova fattispecie modificativa è tuttavia
diversa da quella che diede luogo all’estinzione della (prima)
carcerazione ed alla costituzione dello status di “vigilato in
libertà”; oltre agli elementi di quest’ultima fattispecie, la nuova,
modificativa, contiene il periodo trascorso in libertà vigilata (con
tutti i suoi contenuti afflittivi) ed il riadattamento sociale, già
eventualmente, sia pure in parte, realizzato malgrado la causa di
revoca, contiene quest’ultima causa e la stessa revoca. Prodotta,
dunque, da una diversa fattispecie, la carcerazione conseguente alla
revoca della liberazione condizionale è nuova e diversa: la pena
detentiva “residua” non può, pertanto, esser determinata senza un
nuovo giudizio, che tenga conto anche dell’afflittività sopportata
durante la libertà vigilata e senza una necessariamente nuova
valutazione prognostica relativa al già condizionalmente liberato.
L’art. 177 c.p., nella parte impugnata, è illegittimo, come si
chiarirà subito, anzitutto perché, aggiungendo l’effetto risolutivo
(ex tunc) che non è, per sé, necessariamente collegato all’effetto
estintivo della revoca (quest’ultimo, si è già sottolineato,
attiene alla permanenza, che appunto impedisce, delle situazioni
giuridiche subiettive inerenti allo status di “vigilato in libertà”)
e così aumentando ingiustificatamente la pena detentiva determinata
dalla sentenza di condanna, annulla anche le limitazioni della
libertà personale dovute alla libertà vigilata. Ma, oltre a ciò,
la stessa parte impugnata del precitato articolo, per le ragioni ora
esposte, impedisce al Tribunale di sorveglianza, giudice della misura
rieducativa (e misura rieducativa è, certamente, la liberazione
condizionale) il nuovo giudizio determinativo della “residua” pena
detentiva.
5. – L’analisi strutturale alla quale si è ora accennato
prescinde, come è agevole notare, dal “nominalismo” implicito nelle
tesi, innanzi indicate, relative alla c.d. natura giuridica della
liberazione condizionale. In ordine alla predetta natura giuridica
può, in questa sede, soltanto affermarsi che la liberazione
condizionale certamente non va ritenuta modalità esecutiva della
pena, se per pena s’intende esclusivamente la detenzione in istituto
(sembra, peraltro, che il legislatore del 1930 abbia del tutto
identificato la pena con la detenzione in un istituto carcerario): ma
si deve anche ricordare che, essendo state previste, insieme alla
pena detentiva, soprattutto ad opera delle leggi n. 354 del 1975, n.
689 del 1981 e n. 663 del 1986, altre, diverse misure rieducative, la
nozione d’esecuzione va estesa fino a comprendere le modalità
esecutive di tutte le misure, anche solo limitative, della libertà
personale, nelle predette leggi previste.
L’esecuzione penale diviene, dunque, in generale, attuazione della
volontà espressa dalla legge e dalla sentenza di condanna: e la pena
detentiva, che il legislatore definisce “privativa” della libertà
personale, non potendo più costituire l’unica pena, diviene
modalità esecutiva, accanto ad altre modalità esecutive delle
nuove, diverse misure “limitative” della libertà personale. La
volontà della legge e della sentenza viene, così, realizzata non da
uno solo ma da vari rapporti esecutivi, aventi ciascuno un contenuto
corrispondente ad una particolare misura prevista nella sentenza di
cognizione o ad una particolare misura rieducativa sostituita in sede
d’esecuzione. La liberazione condizionale, nel sostituire al rapporto
esecutivo della pena carceraria il rapporto esecutivo della libertà
vigilata di cui all’art. 230, n. 2, c.p., nel costituire, come pure
è vero, attuazione, ante litteram, dei principi espressi dall’art.
27, terzo comma, Cost. (oltre a realizzare la finalità rieducativa
della pena, la liberazione condizionale rende “più umana” la stessa
pena, evitando al condannato la parte centrale o finale della
detenzione, cioè la fase più inumanamente afflittiva di
quest’ultima) impedisce che la finalità special-preventiva, come è
stato osservato in dottrina, vada oltre il suo scopo: diviene,
infatti, inutile la prosecuzione dell’esecuzione della pena detentiva
quando il condannato si dimostri sicuramente ravveduto. Con la
liberazione condizionale la funzione rieducativa della pena prevale,
dunque, ai sensi, oggi, dell’art. 27, terzo comma, Cost.,
sull’esigenza retribuzionistica.
A questo proposito, alla dottrina, che, consapevole del ruolo
centrale che con la Costituzione ha assunto la finalità
special-preventiva della pena (nell’aspetto della rieducazione)
lamenta che questa Corte si sia limitata a sottolineare
l’accoglimento, da parte della Carta fondamentale, della tesi
polifunzionale, pluridimensionale della pena e non abbia provveduto
alla determinazione della gerarchia tra le finalità
costituzionalmente assegnate alla reazione penale, va osservato che
non è dato delineare una statica, assoluta gerarchia tra le predette
finalità. È certo necessario, indispensabile, di volta in volta,
per le varie fasi (incriminazione astratta, commisurazione,
esecuzione) o per i diversi istituti di volta in volta considerati,
individuare a quale delle finalità della pena, ed in che limiti,
debba esser data la prevalenza ma non è consentito stabilire a
priori, una volta per tutte (neppure a favore della finalità
rieducativa) la precitata gerarchia. Un esempio di quanto ora
osservato è costituito dal momento esecutivo della pena detentiva:
mentre, come s’è innanzi osservato, per nessuna ragione può esser
superata la durata dell’afflittività insita nella pena detentiva
determinata con la sentenza di condanna (per questo aspetto, la
retribuzione, intesa come misura, limite, sulla base della
colpevolezza del fatto, dell’intervento punitivo, prevale anche sulla
finalità rieducativa: infatti, ove così non fosse, cadrebbero
fondamentali garanzie a favore del reo) a sua volta la finalità
rieducativa prevale su ogni altra finalità nell’ipotesi che l’esame
della personalità del reo ed il conseguente giudizio prognostico
sulla sua “futura” vita nella società, impongano, prima o durante
l’esecuzione (s’intende, purché siano presenti tutte le altre
condizioni stabilite dalla legge) di sospendere o ridurre, sia pur
condizionatamente, l’esecuzione stessa. La liberazione condizionale
è, appunto, sia pur nei limiti di cui all’art. 176 c.p., esempio
della prevalenza, nel momento in cui viene attuata, della finalità
rieducativa su tutte le altre finalità della pena.
E si deve aggiungere che, come esattamente si esprime la Relazione
al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988,
poiché le “misure alternative” (posto che s’accolga questa nozione
per indicare tutte le misure non totalmente “privative” o soltanto
“limitative” della libertà personale) costituiscono il punto
d’emergenza del trattamento rieducativo, in quanto tendono a
realizzare quel reinserimento sociale al quale tale trattamento
punta, il metro di giudizio per l’applicabilità o meno delle misure
alternative è costituito da quel ravvedimento del reo che sta a
fondamento della liberazione condizionale. Quest’ultima, dunque, è
anticipata espressione dei principi successivamente espressi
dall’art. 27, terzo comma, Cost. ed insieme nucleo base dal quale le
c.d. misure alternative alla pena detentiva si sono sviluppate. A
parte il rilievo per il quale la liberazione condizionale suppone il
“sicuro ravvedimento” del condannato, salva l’ulteriore prova “in
libertà”, mentre le misure alternative mirano a realizzare la
rieducazione del condannato stesso.
Va, tuttavia, sottolineato, che, benché la logica interna alla
liberazione condizionale, ispirata da principi di “ragione” ed
“umanità”, abbia costituito (da quando, nel sistema c.d. irlandese,
si realizzò la progressività del trattamento attraverso i tre
stadi, dell’isolamento prima, dell’ammissione al lavoro in comune
successivamente ed infine dell’ammissione alla libertà condizionale)
stimolo alla (ed insieme attuazione della) dinamica, progressiva
risocializzazione del condannato (si sostiene da alcuni Autori che la
“liberazione provvisoria anticipata” dei reclusi sia stata per la
prima volta proposta nel 1790, in Francia, dal Mirabeau, nel corso
d’una relazione scritta all’Assemblea costituente) i legislatori
hanno, di volta in volta, “piegato” la liberazione ai propri,
empirici scopi (ad es., all’inizio, al popolamento delle colonie
inglesi o, in generale, a premio per la “buona condotta” del
detenuto) ed a diverse finalità della pena; e ciò vale, in
particolare, come si sottolineerà fra breve, per il legislatore
penale del 1930.
6. – La prima, più appariscente violazione della Costituzione che
il legislatore realizza con il divieto di cui all’ultima parte del
primo comma dell’art. 177 c.p. è, appunto, quella d’aver del tutto
svalutato, nel raffronto con la detenzione, l’incidenza afflittiva
della libertà vigilata ex art. 230, n.2, c.p. Per quanto si tenti a
volte, in dottrina, di ridurre al minimo tale incidenza, certo è che
l’istituto della libertà vigilata, che accompagna necessariamente lo
stato di libertà condizionale, importa notevoli restrizioni a
fondamentali diritti del condannato.
Or da un canto è vero che proprio la liberazione condizionale ha
notevolmente ridimensionato i rapporti tra cognizione ed esecuzione,
nel senso che ha contribuito ad attribuire a quest’ultima autonomia e
nuovi significati (ha, invero, svelato che le indagini sui
comportamenti del condannato durante l’esecuzione della pena, ove si
concludano con il riconoscimento del mutamento in melius della
personalità del sottoposto all’esecuzione, ben possono condurre alla
riduzione, o mitigazione, della pena detentiva inflitta con la
sentenza di condanna) ma d’altro canto è anche vero che rimane a
tutt’oggi indiscusso che il limite della pena detentiva, determinato
in sede di cognizione, non può, in nessun caso, esser oltrepassato
(spostato verso l’alto) per fatti realizzati ex post.
Per la verità, il primo ostacolo, durante i lavori preparatori
del codice penale del 1889, all’introduzione del “nuovo” istituto
della liberazione condizionale, fu costituito dalla forza del
giudicato che, secondo la radicata tradizione romanistica, era
intangibile da fatti verificatisi “successivamente”.
Certamente, per primo e molto, durante quest’ultimo secolo,
l’istituto della liberazione condizionale ha contribuito a
particolarmente caratterizzare l’esecuzione penale, distinguendola
dai processi esecutivi delle sedi extrapenali: tuttavia, se da un
canto è stato “da tempo” superato l’ostacolo all’introduzione, nel
sistema positivo, della liberazione condizionale (si è, così,
implicitamente accettata l’idea della riducibilità, o
modificabilità in melius, della pena detentiva inflitta in sede di
cognizione) d’altro canto si è sempre continuato a rendere omaggio
alla forza del giudicato (e tale omaggio si deve rendere ancor più
oggi, nella vigenza della Costituzione) ritenendosi lo stesso
giudicato intangibile nel significato che non può, mai, aumentarsi
l’afflittività implicita nella pena detentiva determinata con la
sentenza di condanna. Non è consentito, infatti, spostare, a danno
del condannato, la proporzione tra reato e pena, stabilita in
astratto dalla legge ed in concreto dalla sentenza: ove
s’oltrepassasse tale proporzione si violerebbero insieme l’art. 13,
secondo comma e l’art. 27, primo comma, Cost., tenuto conto, in
riferimento a quest’ultimo articolo, che la colpevolezza, sia oppur
no fondamento della pena, è certamente criterio garantistico
dell’irrogazione e dell’esecuzione della medesima e costituisce il
supporto retributivo-proporzionalistico, limitativo delle concezioni
preventive (generali e speciali) della pena.
Or l’art. 177 c.p., nella parte in cui statuisce che il tempo
trascorso in libertà condizionale non è per nulla computabile, in
caso di revoca di quest’ultima, nella durata della pena detentiva,
prima d’ogni altra considerazione, viola gli artt. 13, secondo comma
e 27, primo comma, Cost., perché altera, a danno del condannato,
l’equilibrio proporzionalistico tra reato e pena determinato in
astratto dalla legge ed in concreto dal giudicato. L’art. 177, primo
comma, c.p., nella parte ora indicata, aggiunge, infatti, in caso di
revoca, alla quantità di pena detentiva, inflitta con la sentenza di
condanna, altra “afflizione” non legittimata dalla stessa sentenza.
E, pertanto, se è vero che la libertà vigilata ex art. 230, n. 2,
c.p., trova fondamento proprio nella predetta sentenza (tale libertà
costituisce, infatti, attenuazione, in sede d’ammissione alla
liberazione condizionale, dell’originaria pena detentiva) una volta
intervenuta la revoca ex art. 177 c.p., il non computare, in alcun
modo, nella durata della stessa pena, il tempo trascorso in libertà
condizionale (e, cioè, far scontare al condannato l’intera pena pena
detentiva determinata in sede di cognizione) equivale a lasciar
scoperto, quanto a titolo d’applicabilità, la libertà vigilata ex
art. 230, n. 2, c.p., già sofferta dal condannato. E l’afflittività
della predetta libertà vigilata, minima oppur no, è fuori
discussione.
Ed anche se si assumesse che gli artt. 176 e 177 c.p.
costituiscano disposizioni integratrici della parte sanzionatoria di
tutte le norme incriminatrici di parte speciale che comminano pene
detentive e che, pertanto, in virtù del collegamento tra i citati
articoli e la disposizione di parte speciale applicata, già la
sentenza di condanna preveda, in alternativa alla pena detentiva
comminata, tutte le varianti previste dagli stessi articoli,
ugualmente illegittimo sarebbe condannare il reo ad una “maggiore
sofferenza” senza la garanzia che solo la giurisdizione piena della
cognizione può offrire.
È, peraltro, quasi superfluo, in questa sede, stabilire se la
predetta libertà vigilata vada configurata come sanzione penale
(autonoma) o come misura di sicurezza, tanto più che da tempo la
migliore dottrina ha ricondotto anche le misure di sicurezza al
“genere” sanzione penale: qui è sufficiente sottolineare che la
limitazione del diritto di libertà connessa alla libertà vigilata
di cui all’art. 230, n. 2, c.p., prima della revoca ex art. 177 c.p.,
non può esser “annullata” senza violare la Costituzione.
7. – Ma la parte impugnata del primo comma dell’art. 177 c.p.
manifesta anche, e di più, il tentativo del legislatore di piegare
alla logica punitivo-afflittiva della pena detentiva, con la revoca
della liberazione condizionale, la logica intrinseca, innanzi
sottolineata, dell'”intero” istituto della liberazione condizionale.
Vanno qui dapprima ricordate le critiche, da più parti sollevate,
contro l’automatismo della revoca ex art. 177 c.p.: questo articolo,
infatti, nell’impedire distinzioni tra i fatti causa della revoca,
esclude ogni valutazione della personalità del già liberato
condizionalmente, al fine di stabilire l’effettiva erroneità (o,
comunque, il superamento) del giudizio di sicuro ravvedimento
previsto dall’art. 176 c.p.
La visione ingiustificatamente “punitiva” della revoca ex art. 177
c.p. è resa manifesta in maniera evidente dai lavori preparatori del
codice del 1930; anzi, proprio il totale divieto di computare, nella
durata della pena detentiva, il periodo trascorso in libertà
condizionale vigilata, è servito al legislatore per attribuire alla
revoca di cui all’art. 177 c.p. la qualità di “specifica” sanzione
per la mancata “fedeltà” alla “concessione” della liberazione
condizionale.
È testimonianza di ciò la risposta che il Ministro
Guardasigilli, in sede di lavori preparatori del vigente codice
penale, diede all’invito che la commissione parlamentare gli rivolse,
perché riesaminasse la questione sollevata, qui, dalle ordinanze di
rimessione: a parere della stessa commissione, la libertà vigilata
si risolveva in una grave misura restrittiva della libertà
personale; e, pertanto, costituiva “sanzione sproporzionata” alla
violazione commessa far scontare totalmente la pena detentiva
residua. Il Guardasigilli a tale invito così rispose: (cfr.
Relazione a S.M. il Re del Ministro guardasigilli Rocco presentata
nell’udienza del 19 ottobre 1930 per l’approvazione del testo
definitivo del Codice penale)…. “poiché la trasgressione a tali
obblighi (nascenti dalla libertà vigilata di cui all’art. 230, n. 2,
c.p.) non costituisce reato, l’unica sanzione rimane la revoca della
liberazione condizionale, con la logica e necessaria conseguenza
dell’espiazione della pena residua”. Dunque: per il Guardasigilli non
soltanto doveva ritenersi indubbio che, se durante lo stato di
libertà condizionale, il condannato commette un delitto od una
contravvenzione ex art. 177 c.p., alla pena che già consegue ai
reati commessi va aggiunta una “seconda” punizione, forse più grave
della “prima” (appunto per il divieto di computare il tempo trascorso
in libertà condizionale nella durata della pena detentiva; per sé,
anche la sola “minaccia” della revoca della liberazione condizionale,
con il conseguente ritorno in detenzione, poteva considerarsi
sufficiente deterrente) ma, proprio per il rilievo che le violazioni
agli obblighi prescritti in sede di libertà vigilata non
costituivano reato, non restava, per il Guardasigilli, che l’unica
sanzione della revoca della liberazione condizionale, con gli
effetti, qui in discussione, di cui alla parte impugnata dell’art.
177 c.p.
Ciò si sottolinea, anche a prescindere da ogni rilievo sul
mancato riferimento, da parte della predetta commissione
parlamentare, alla necessità d’un nuovo giudizio sulla personalità
del liberato condizionalmente, quale rivelatasi durante il periodo
trascorso in libertà vigilata, prima della revoca prevista dall’art.
177 c.p.
La precitata risposta del Ministro al ricordato invito della
commissione parlamentare è oltremodo significativa: essa svela da
una parte che la revoca doveva, nella mente dei compilatori del
vigente codice penale, costituire particolare sanzione, unicamente ed
indiscriminatamente reattiva a grave violazione commessa dal liberato
condizionalmente e dall’altra che tale grave sanzione doveva essere
automatica (logica e necessaria conseguenza di tale sanzione era
l’espiazione di tutta la residua pena detentiva) non dovendosi
differenziare, in alcun modo, le diverse personalità dei condannati,
almeno ai fini d’un giudizio prognostico di rieducabilità né
dovendosi tener conto del particolare peso dei vari obblighi imposti
con la libertà vigilata e neppure delle condizioni nelle quali le
violazioni agli stessi obblighi erano state commesse.
L’affermazione che il Guardasigilli aggiunse, nella stessa citata
relazione, manifesta ancor meglio tutta la logica esclusivamente
“punitivo-afflittiva” nella quale la revoca della liberazione
condizionale venne, dai compilatori del vigente codice penale,
inquadrata: “La libertà condizionale, per quanto vigilata, è sempre
libertà e quindi non può equipararsi o sostituirsi alla pena
detentiva, né totalmente né parzialmente”; e ciò si sostenne
appunto per “giustificare” la non computabilità, neppure parziale,
del tempo trascorso in libertà condizionale vigilata nella durata
della pena. I “pesi” imposti con la libertà vigilata non contarono,
in quella sede, le prognosi di rieducabilità neppure. Anzi, il
Guardasigilli aggiunse: “chi ne ha goduto (della liberazione
condizionale) e se ne è dimostrato indegno, ha già avuto il
vantaggio di non espiare tutta la pena ininterrottamente, il che gli
rende meno gravosa l’espiazione complessiva della pena stessa e lo
pone in una situazione più favorevole degli altri condannati che non
si trovarono nelle sue condizioni”. È agevole sottolineare che la
liberazione condizionale costituisce, in tale logica, graziosa
“concessione” determinata da un atto di fiducia; che la violazione di
questa, integra una grave violazione (indegno è chi viola, anche a
parte ogni valutazione dei fatti commessi, la fiducia accordata dallo
Stato con la predetta concessione); che la revoca di quest’ultima è,
a parere del Ministro, adeguata a tale grave violazione; e che non
è, dunque, sproporzionato alla medesima far scontare, eventualmente
con anni di detenzione per residuo-pena, anche sintomaticamente
modeste violazioni agli obblighi imposti con la libertà vigilata.
Le affermazioni del Ministro non sono, com’è evidente, in armonia
con la natura, qui delineata, della liberazione condizionale; natura
che la Costituzione e le recenti riforme legislative hanno
chiaramente e particolarmente manifestato.
8. – Va, invero, in primo luogo, precisato che essere ammessi alla
liberazione condizionale costituisce, per il condannato che si trovi
nella situazione prevista dall’art. 176, primo comma, c.p. (a parte
la “discrezionalità vincolata” nell’accertamento del sicuro
ravvedimento di cui allo stesso comma) diritto e non graziosa
concessione od effetto d’ingiustificata rinuncia (condizionata) dello
Stato all’ulteriore esecuzione della pena detentiva inflitta con la
sentenza di condanna. La decisione di questa Corte n. 204 del 1974
espressamente riconosce che, sulla base dell’art. 27, terzo comma,
Cost., “sorge il diritto per il condannato a che, verificandosi le
condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi
della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine
d’accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno
assolto positivamente il suo fine rieducativo”. Non v’è dubbio,
pertanto, che, una volta accertato che il condannato versa nelle
condizioni di cui al primo comma dell’art. 176 c.p. (e, in
particolare, “abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere
sicuro il suo ravvedimento”) essendo venuta a mancare la “ragione”
della pena detentiva, il Tribunale di sorveglianza ha il dovere,
esperite tutte le formalità relative, di porre il condannato (e
quest’ultimo ha il diritto di esser posto) nello stato di libertà
condizionale. Appunto perché nulla lo Stato ha graziosamente
concesso e nulla il condannato deve allo Stato per l’ammissione alla
liberazione condizionale, gli obblighi derivanti dalla libertà
vigilata di cui all’art. 230, n. 2, c.p., non costituiscono
corrispettivo d’una qualunque “concessione” (e, cioè, conseguenza
d’un ipotetico patto o scommessa tra Stato e condannato) ma trovano
razionale fondamento, ex art. 27, terzo comma, Cost., nel sostegno e
controllo che essi possono e devono offrire alla prova in libertà
del condannato.
Anzi, dopo quanto sottolineato dalla sentenza di questa Corte da
ultimo citata (cfr., anche, le sentenze nn. 264 del 1974, 192 del
1976, 78 del 1977) va chiarito il significato meramente
“convenzionale” dell’espressione “rinuncia (revocabile) da parte
dello Stato, all’esecuzione della restante pena detentiva”, che
spesso viene usata a proposito della liberazione condizionale come di
altre c.d. cause estintive del reato e della pena: non si rinuncia,
invero, ad alcunché allorché s’adempia ad obblighi
costituzionalmente sanciti.
Vero è che la revoca prevista dall’art. 177 c.p., tenuto conto
della natura rieducativa, di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.,
della pena, di tutte le pene, trova il suo fondamento nel “presunto”
errore del giudizio di sicuro ravvedimento, in base al quale il
condannato è stato ammesso, ex art. 176 c.p., alla liberazione
condizionale. La legge, con l’art. 177 c.p., presumendo che il
delitto o la contravvenzione della stessa indole o la violazione
delle prescrizioni attinenti alla libertà vigilata dimostrino
l’erroneità (od il superamento) del giudizio di sicuro ravvedimento
di cui all’art. 176 c.p., dispone che la liberazione condizionale
venga revocata, per esser venuto meno della medesima il principale
presupposto. Tale revoca non solo non può precludere, ma
necessariamente rinvia ad un nuovo giudizio che, partendo da quanto
è accaduto durante lo stato di libertà condizionale, determini,
tenuto conto, in particolare, della concreta afflittività subita
durante lo stato di libertà vigilata, del “grado” di rieducazione
raggiunto e, pertanto, della rieducabilità (e pericolosità) del
condannato, la durata della “residua” pena detentiva. Va qui, invero,
ribadito che la pena detentiva “residua” è condizionata, oltre che
dal reato e dalla condanna, anche dall’ammissione alla libertà
condizionale, dal tempo trascorso in quest’ultima, con tutte le
implicazioni inerenti alla libertà vigilata nonché dalla sua
revoca. La fattispecie “produttiva” della pena residua è, dunque,
come s’è già notato, diversa, più articolata, di quella che causa
o condiziona la prima pena detentiva.
Soltanto con la dichiarazione d’illegittimità costituzionale del
primo comma dell’art. 177 c.p., nella parte in cui non consente al
Tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da
espiare tenendo conto delle limitazioni patite dal condannato e del
suo comportamento durante lo stato di libertà condizionale, è
possibile, superata ogni rigidità regressiva della revoca, attrarre
nella logica rieducativa della pena ex art. 27, terzo comma, Cost.
sia la revoca di cui all’art. 177 c.p. che l'”integrale” istituto
della liberazione condizionale. Va, infatti, sottolineato che il
divieto, posto dall’art. 177 c.p., di sottrarre, anche parzialmente,
il tempo trascorso in libertà condizionale dalla normale durata
della pena detentiva, rende la minaccia della stessa revoca tanto
grave da trascinare l’intero istituto della liberazione condizionale
in una logica esclusivamente afflittiva, tanto illegittima, ai sensi
della vigente Costituzione, quanto ingiustificata, nella specie,
mancando un illecito penale da sanzionare.
9. – Va rifiutata anche la rigidità astratta della soluzione
opposta (cfr. sentenza n. 343 del 1987) a quella accolta dal codice
Rocco (ossia quella dell’integrale scomputo del periodo trascorso,
prima della causa di revoca, in libertà condizionata e vigilata,
dalla durata dell’originaria pena detentiva) soluzione che
parificherebbe arbitrariamente situazioni concretamente diverse, in
violazione del disposto di cui all’art. 3 Cost., e che finirebbe col
non tenere nel dovuto conto la maggiore afflittività della pena
detentiva rispetto a quella della libertà vigilata (cfr. sentenza n.
343 del 1987). Infatti, soltanto ove si verificasse una sostituzione
di pena detentiva con altra misura, alla prima equivalente, sarebbe
ipotizzabile lo scomputo dalla pena detentiva di tutto il periodo
trascorso in esecuzione della misura sostitutiva.
10. – Va, infine, precisato l’oggetto della nuova valutazione che
permette al Tribunale di sorveglianza, di determinare la durata della
“residua” pena detentiva. Lo stesso Tribunale, come sottolinea la
sentenza di questa Corte n. 343 del 1987 (a proposito della revoca
dell’affidamento in prova al servizio sociale e della determinazione
dell’ “ulteriore” pena detentiva) deve tener conto sia del periodo di
libertà condizionale trascorso dal condannato nell’osservanza delle
prescrizioni imposte con la libertà vigilata ex art. 230, n. 2, c.p.
e del concreto carico delle medesime sia della qualità e gravità
dei comportamenti che hanno dato luogo alla revoca.
Poiché, come s’è già più volte sottolineato, non è
consentito, in sede esecutiva, superare l’entità della pena
detentiva determinata dalla sentenza di condanna, il Tribunale di
sorveglianza, con la revoca della liberazione condizionale, nel
quantificare la “residua” pena, deve provvedere a sottrarre, dalla
pena detentiva inflitta in sede di cognizione, il concreto carico
afflittivo subito dal condannato durante la libertà condizionata e
vigilata, prima della verificazione della causa di revoca o della
revoca. Lo stesso Tribunale deve, in particolare, tener conto delle
limitazioni patite dal condannato a seguito delle prescrizioni
determinate in sede di sottoposizione alla libertà vigilata ex art.
230, n. 2, c.p.: deve, infatti, valutare i tipi, la concreta
afflittività ed ogni altro elemento, strutturale e contenutistico,
delle predette prescrizioni, allo scopo di precisare il reale carico
afflittivo imposto dalle medesime al condannato; e deve anche tenere
in considerazione il “sostegno” offerto, allo stesso condannato, dai
competenti organi, durante lo stato di libertà (condizionale)
vigilata. È quasi superfluo aggiungere che, a seconda che la causa
di revoca sia intervenuta poco dopo l’inizio o quasi al termine del
prestabilito periodo di libertà condizionale (v. ancora la sentenza
n. 343 del 1987) deve variare, con la determinazione del concreto
peso limitativo della libertà subito dal condannato, la quantità di
pena detentiva da sottrarre dalla durata della stessa pena stabilita
dalla sentenza di condanna.
Ma una seconda indagine deve occupare il Tribunale di sorveglianza
dopo la revoca della liberazione condizionale. Non si dimentichi che
l’idea di “scopo” della pena, della quale idea è massima espressione
lo stesso art. 27, terzo comma, Cost., comporta, oltre al
ridimensionamento delle concezioni assolute della pena, la
valorizzazione del soggetto, reo o condannato, in ogni momento della
dinamica penal-sanzionatoria (previsione astratta, commisurazione,
soltanto in senso ampio od anche in senso stretto, ed esecuzione) e,
conseguentemente, implica l’uso di giudizi prognostici, attinenti
alla “futura” vita del reo nella società: tali giudizi vanno
espressi (in particolare) in sede di perdono giudiziale, di
sospensione condizionale della pena e d’ammissione alla liberazione
condizionale; analogo giudizio prognostico di rieducabilità deve
anche essere espresso, da parte del Tribunale di sorveglianza, per
determinare, in sede di revoca della liberazione condizionale, la
quantità di pena detentiva ancora da scontare. Lo stesso Tribunale
deve, pertanto, emettere un giudizio prognostico sulla rieducabilità
(e, implicitamente, sulla pericolosità) del condannato, desumendo
tal giudizio dall’esame della personalità di quest’ultimo quale
risulta dai comportamenti tenuti durante lo stato di libertà
condizionale, compreso quello che ha (o quelli che hanno) dato causa
alla revoca. Per emettere il predetto giudizio prognostico il
Tribunale deve tornare a tener conto, ad es., della durata dello
stato di libertà condizionale; ma, questa volta, non per misurare il
concreto carico afflittivo sopportato dal condannato bensì allo
scopo di stabilire, con il tempo durante il quale sono stati
osservati i doveri determinati in sede d’applicazione della libertà
vigilata, il grado di rieducazione raggiunto dal condannato, a
seguito dell’iniziale detenzione e del successivo positivo periodo di
liberazione condizionale e, conseguentemente, il grado della sua
rieducabilità. Devono tornare in esame anche le concrete
prescrizioni, imposte ex libertà vigilata e la natura delle medesime
ma, questa volta, al fine di stabilire come e quanto il condannato
sia riuscito, con o senza “sostegni”, a resistere a prescrizioni più
o meno onerose.
A proposito dei fatti che hanno dato causa alla revoca, va qui
ricordato che i medesimi non costituiscono illeciti penali (o se li
costituiscono sono già coperti da autonome sanzioni penali) e non
possono, pertanto, essere penalmente sanzionati. Anche quando un
eventuale aumento di pena rientrasse nella durata della pena
detentiva inizialmente inflitta con la sentenza di condanna (tenuto
conto della detrazione, innanzi indicata, dovuta al carico afflittivo
imposto ex libertà vigilata) tal aumento sarebbe ingiustificato: in
sede esecutiva, lo si è più volte ribadito, non sono in alcun caso
consentiti aumenti di misure afflittive. Anche se i fatti che hanno
dato luogo alla revoca fossero gravi (è dubbia, peraltro, una
gravità oggettiva dei medesimi, non essendo in discussione lesioni
di beni penalmente tutelati) essi non solo non potrebbero dar luogo
ad aumenti di sanzioni penali ma andrebbero sempre valutati non
autonomamente bensì nell’ambito della complessa e varia esperienza
vissuta dal soggetto durante il periodo di libertà condizionata e
vigilata e nelle interazioni di tutti gli avvenimenti verificatisi e
di tutti i comportamenti realizzati durante lo stesso periodo: e
ciò, si ripete, al solo scopo di verificare i “mutamenti” della
personalità del condannato, necessariamente rilevanti per la
determinazione del quantum della residua pena detentiva.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale del
primo comma dell’art. 177 c.p., nella parte in cui, nel caso di
revoca della liberazione condizionale, non consente al Tribunale di
sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare,
tenendo conto del tempo trascorso in libertà condizionale nonché
delle restrizioni di libertà subite dal condannato e del suo
comportamento durante tale periodo.
Così deciso in Roma, in Camera di Consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 maggio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: DELL’ANDRO
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 25 maggio 1989.
Il direttore della cancelleria: MINELLI