Sentenza N. 99 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
11/03/1971
Data deposito/pubblicazione
11/03/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/05/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
– Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
15 marzo 1923, n. 692 (limitazione dell’orario di lavoro nelle imprese
industriali e commerciali), promosso con ordinanza emessa il 21 marzo
1969 dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel procedimento civile
vertente tra De Lucia Fedele e Caturano Antonio, iscritta al n. 275 del
registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 200 del 6 agosto 1969.
Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1971 il Giudice
relatore Giuseppe Chiarelli.
Il signor Fedele De Lucia, con atto di citazione 5 aprile 1968,
premesso di aver lavorato dal 1950 al 1966, con la qualifica di
facchino, alle dipendenze dei signori Antonio Caturano fu Vincenzo e
Antonio Caturano di Antonio, titolari di una ditta di cruscami e
concimi, conveniva questi ultimi innanzi al tribunale di S. Maria Capua
Vetere, per sentirli condannare al pagamento della somma di L.
4.070.120, comprensiva del corrispettivo del lavoro straordinario
prestato negli ultimi cinque anni.
In relazione a quest’ultima richiesta, i convenuti eccepivano che,
consistendo l’attività di facchino in una prestazione di lavoro
discontinuo, non è ad esso applicabile, ai sensi dell’art. 3 del
r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692, la limitazione del l’orario (otto ore
giornaliere) stabilita dall’art. 1 dello stesso decreto.
Il tribunale di S. Maria Capua Vetere, con ordinanza 21 marzo 1969,
ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale del
predetto art. 3, in riferimento all’articolo 36, secondo comma, della
Costituzione.
Non essendosi costituite le parti nel presente giudizio, la causa
è stata decisa in camera di consiglio, a norma dell’articolo 26,
secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
Si assume nell’ordinanza che l’art. 3 del decreto legge 15 marzo
1923, n. 692, nel sottrarre alla disciplina della durata massima della
giornata lavorativa le occupazioni discontinue o di semplice attesa o
custodia, elude il disposto costituzionale dell’art. 36, secondo comma,
della Costituzione, che richiede che il limite di orario sia fissato
dalla legge in via generale e inderogabile.
Ma la questione non è fondata.
È esatto che la citata norma costituzionale riconosce e garantisce
il principio del limite legale della durata massima della giornata
lavorativa. Tale principio trova rispondenza nell’art. 2107 del codice
civile, il quale stabilisce che la durata giornaliera e settimanale
della prestazione di lavoro non può superare i limiti posti dalle
leggi speciali, e nell’art. 2108 del codice civile, che prevede un
aumento della retribuzione per il lavoro straordinario, la cui durata,
insieme alla misura della maggiorazione, è fissata dalla legge.
Ma dall’art. 36, secondo comma, della Costituzione non discende che
il limite della giornata lavorativa debba essere fissato dalla legge in
modo uniforme per ogni tipo di lavoro. È conforme alla eomune
esperienza, e corrisponde a un criterio di razionalità, che la
disciplina della durata giornaliera del lavoro subordinato applicabile
alle prestazioni di lavoro continuo non può essere la stessa per
quelle prestazioni che non si svolgono continuativamente nel tempo o
che non si svolgono alle dipendenze di una impresa; né può aversi una
disciplina unica e indifferenziata per le prestazioni di lavoro non
continuativo, data la varietà dei modi in cui queste si esplicano.
Ciò premesso, va rilevato che l’art. 3 del decreto legge n. 692
del 1923 determina la sfera a cui è applicabile la disciplina del
lavoro “continuo”, contenuta nel medesimo decreto, relativo alle
imprese industriali e commerciali; ma non esclude che, in attuazione
del precetto costituzionale, altre leggi, in relazione ai vari tipi di
rapporti di lavoro non compresi in quel decreto, regolino la durata o
comunque il modo di prestazione nel tempo dell’attività lavorativa
(es., l’art. 8 legge 2 aprile 1958, n. 339, SU1 lavoro domestico).
Né dall’esistenza di una regolamentazione dell’orario di lavoro
continuativo, contenuta nel decreto n. 692 del 1923, discende che
l’attività lavorativa di diverso tipo possa essere prestata senza
alcun limite giornaliero di tempo. Ove manchi, infatti, una normazione
speciale, la disciplina della durata delle prestazioni, in applicazione
del principio costituzionale di tutela dell’integrità fisica del
lavoratore, sarà sempre deducibile dall’ordinamento, secondo le
disposizioni sulla legge in generale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 (limitazione dell’orario
di lavoro nelle imprese industriali e commerciali), sollevata,
dall’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento all’art. 36,
secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATTI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.