Sentenza N. 271 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
12/07/2000
Data deposito/pubblicazione
12/07/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/07/2000
Presidente: Francesco GUIZZI;
Giudici: Cesare MIRABELLI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare
RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo
MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE
della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di
obiezione di coscienza) promossi con diciannove ordinanze emesse il
12 ottobre 1998 (n. 3 ordinanze) dalla Corte militare d’appello,
sezione distaccata di Verona, il 7 ottobre 1998 (n. 10 ordinanze) dal
tribunale militare di Padova, il 18 febbraio, l’8 marzo (n. 2
ordinanze), l’11 febbraio, l’8 marzo e l’11 febbraio 1999 dalla Corte
militare d’appello, sezione distaccata di Verona, rispettivamente
iscritte ai nn. 8, 9, 10, 14, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 84, 85, 99,
306, 307, 308, 311, 312 e 313 del registro ordinanze 1999 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4, 9 e 22,
prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2000 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
10, 306, 307, 308, 311, 312 e 313 del 1999) – emesse nel corso di
altrettanti procedimenti penali a carico di diversi imputati del
reato di rifiuto del servizio militare di cui all’art. 8, secondo
comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il
riconoscimento dell’obiezione di coscienza) – la Corte militare
d’appello, sezione distaccata di Verona, ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3 e 103, terzo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, della legge 8
luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di
coscienza), “nella parte in cui sottrae alla giurisdizione militare
la cognizione del reato di rifiuto del servizio militare per motivi
di coscienza”.
Il remittente premette che la disposizione censurata ha
attribuito alla autorità giudiziaria ordinaria la competenza a
giudicare il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di
coscienza, e che, non avendo la legge n. 230 del 1998 dettato alcuna
disciplina transitoria, in virtù del principio generale tempus regit
actum egli sarebbe tenuto a trasmettere gli atti al pretore del luogo
nel quale deve essere svolto il servizio militare.
In tutte le ordinanze si ricorda che la giurisprudenza
costituzionale avrebbe chiarito che la giurisdizione militare,
contemplata dall’art. 103, terzo comma, della Costituzione, concerne
soltanto i reati militari commessi da militari in servizio attivo o
considerati tali, è circoscritta entro rigorosi confini soggettivi
ed oggettivi e non ha carattere assoluto ed indeclinabile, potendo
essere derogata da una legge ordinaria che risulti preordinata alla
tutela di preminenti beni, interessi e valori. Conseguentemente, ad
avviso del giudice a quo in riferimento ai reati militari commessi da
militari in servizio attivo (o considerati tali) la giurisdizione
militare dovrebbe essere ritenuta non soltanto “giurisdizione
normale” ma anche “giurisdizione di carattere costituzionale”.
Il remittente rileva che i soggetti chiamati a presentarsi alle
armi sono militari in servizio attivo dal momento stabilito per la
loro presentazione fino al giorno in cui vengono inviati in congedo
illimitato, e che il reato di rifiuto del servizio militare ha natura
di reato militare, offendendo un interesse fondamentale delle Forze
armate dello Stato, e cioè quello alla regolare incorporazione degli
obbligati al servizio di leva. A suo avviso, anzi, la nuova
normativa, rendendo possibile il rifiuto anche dopo la assunzione del
servizio, avrebbe accentuato i connotati di militarità della
fattispecie incriminatrice, divenuta una semplice variante
applicativa non solo del reato di mancanza alla chiamata ma anche di
quello di diserzione.
Secondo la Corte militare d’appello, sezione distaccata di
Verona, il legislatore del 1998 avrebbe conservato inalterata la
struttura del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di
coscienza, che continuerebbe a profilarsi come un illecito che si
commette a prescindere dalla verosimiglianza ed autenticità delle
ragioni della obiezione e che non tollera in alcun modo disamine
intese ad accertarne la eventuale natura strumentale e pretestuosa.
Conseguentemente, poiché il reato di rifiuto previsto dalla nuova
legge non coinvolgerebbe beni ed interessi di preminente valore,
suscettibili di tutela mediante una deroga alla giurisdizione
militare, la disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 103,
terzo comma, della Costituzione.
L’art. 14, comma 3, della legge n. 230 del 1998 violerebbe
altresì l’art. 3 della Costituzione, per l’ingiustificata disparità
di trattamento rispetto al reato di mancanza alla chiamata, che, pur
avendo “identità sostanziale” e pur offendendo lo stesso interesse,
è rimasto, invece, assoggettato alla giurisdizione militare.
1.2 – In uno dei nove giudizi così promossi (R.O. n. 312 del
1999) è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha
chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
L’Avvocatura, premesso che nel nostro ordinamento, caratterizzato
dalla centralità della giurisdizione ordinaria, vengono riservati
alla giurisdizione dei tribunali militari soltanto i reati militari
commessi da appartenenti alle Forze armate in servizio attivo,
osserva che l’art. 103, terzo comma, della Costituzione prevederebbe
un criterio selettivo “nel senso che esso nel passaggio dalla
giurisdizione militare a quella ordinaria consente, in presenza di
valide ragioni, di far passare qualcosa di più di quel che può
transitare in senso opposto, e cioè dalla giurisdizione ordinaria a
quella militare”.
La difesa dello Stato rileva che l’art. 14, comma 2, della legge
n. 230 del 1998 punisce chi, non avendo chiesto o non avendo ottenuto
l’ammissione al servizio civile, rifiuta di prestare il servizio
militare, prima o dopo averlo assunto, adducendo motivi di coscienza,
e contesta la premessa del remittente, in base alla quale il soggetto
attivo della previsione incriminatrice dovrebbe, a seguito della
precettazione (insita nella chiamata alle armi), essere considerato
già appartenente alle Forze armate.
Infatti, ad avviso dell’Avvocatura, la nuova configurazione
dell’obiezione di coscienza come diritto soggettivo, intimamente
connesso all’esercizio delle libertà individuali, introdotta dalla
legge n. 230 del 1998, non potrebbe non influire sugli effetti della
precettazione, che verrebbero “neutralizzati” quando l’obiettore
abbia manifestato esplicitamente la sua non accettazione
dell’arruolamento, sicché egli, avendo esercitato un suo diritto di
libertà, non potrebbe più essere considerato “appartenente alle
Forze armate”.
Pertanto, conclude l’Avvocatura, non solo non sussisterebbe, a
stretto rigore, il presupposto soggettivo richiesto dall’art. 103,
terzo comma, della Costituzione ai fini del radicamento della
giurisdizione militare, ma soprattutto non sarebbe costituzionalmente
illegittimo “fare transitare i relativi reati dalla giurisdizione
militare a quella ordinaria”.
2.1 – Questione analoga è stata sollevata dal tribunale militare
di Padova con dieci ordinanze di identico contenuto (R.O. nn. 14, 18,
19, 20, 21, 22, 23, 84, 85 e 99 del 1999), emesse nel corso di
altrettanti procedimenti penali a carico di diversi imputati del
reato di cui all’art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972,
n. 772, per avere rifiutato, prima di assumerlo, il servizio militare
di leva, adducendo imprescindibili motivi di coscienza.
Anche per il tribunale militare di Padova l’art. 14, comma 3,
della legge 8 luglio 1998, n. 230, nella parte in cui “senza
plausibili ragioni” sottrae alla giurisdizione militare e attribuisce
al giudice ordinario la cognizione del reato di rifiuto del servizio
militare per motivi di coscienza, contrasterebbe con gli artt. 3, 25,
primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione.
Le argomentazioni del remittente in punto di rilevanza e di non
manifesta infondatezza della questione non sono dissimili da quelle
svolte nelle ordinanze di cui si è fatto cenno in precedenza.
In particolare, il tribunale militare di Padova premette che
anche la fattispecie di cui all’art. 14, comma 2, della legge n. 230
del 1998 configurerebbe “un’ipotesi di reato militare che può essere
commesso solo da soggetto appartenente alle Forze armate”, e ritiene
che la diversità di disciplina prevista per questo reato (la cui
cognizione è attribuita al giudice ordinario) rispetto a quella
stabilita per altri reati militari commessi da appartenenti alle
Forze armate, e specificamente per il reato di mancanza alla chiamata
(tuttora devoluti al giudice militare), violerebbe l’art. 3 della
Costituzione, poiché non sarebbe ragionevole il diverso trattamento
riservato agli obiettori di coscienza, essendo sia gli uni che gli
altri reati militari commessi da militari in servizio.
La disposizione censurata sarebbe altresì in contrasto con gli
artt. 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione, in
quanto non sussisterebbero plausibili ragioni per derogare alla
regola, risultante da entrambi i parametri invocati, che individua
nei tribunali militari il giudice naturalmente preposto a conoscere
di reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.
2.2 – Nei giudizi relativi alle ordinanze di remissione nn. 84,
85 e 99 del 1999 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, ribadendo le argomentazioni espresse nell’atto di intervento
depositato nel giudizio relativo alla questione sollevata dalla Corte
militare d’appello, sezione distaccata di Verona (R.O. n. 312 del
1999), e concludendo per l’infondatezza delle questioni.
dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, e dieci
dal tribunale militare di Padova) hanno sottoposto a questa Corte, in
riferimento agli artt. 3, 25 e 103 della Costituzione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, della legge
8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di
coscienza), nella parte in cui attribuisce al giudice ordinario la
cognizione del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di
coscienza.
Le argomentazioni svolte dai remittenti sono tra loro non
dissimili. Poiché il reato di rifiuto del servizio militare, anche
se per motivi di coscienza, sarebbe reato militare commesso da
soggetto appartenente alle Forze armate, l’averne il legislatore
sottratto la cognizione al giudice militare comporterebbe violazione
dell’art. 103, terzo comma, della Costituzione, in base al quale
tutti i reati di questo tipo, quando non siano ravvisabili, come non
lo sarebbero nella specie, esigenze di tutela di preminenti interessi
che potrebbero giustificare una deroga, dovrebbero essere devoluti
alla giurisdizione militare.
Entrambi i remittenti denunciano altresì la violazione
dell’art. 3 della Costituzione sulla premessa che nei reati di
rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza ed in quelli di
mancanza alla chiamata medesimo sarebbe il bene protetto e identica
la condotta, sicché l’avere attribuito la cognizione dei primi al
giudice ordinario e quella dei secondi al giudice militare si
risolverebbe in una disparità di trattamento priva di qualsiasi
fondamento giustificativo.
Secondo il tribunale militare di Padova sarebbe inoltre violato
l’art. 25, primo comma, della Costituzione, poiché per i reati in
questione i tribunali militari sarebbero da considerare giudice
naturale.
Poiché tutte le ordinanze pongono analoghe questioni, i relativi
giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
2. – La questione non è fondata.
È orientamento consolidato nella giurisprudenza costituzionale
che l’art. 103, terzo comma, della Costituzione, nel consentire una
giurisdizione dei tribunali militari anche in tempo di pace, non
pone, in loro favore, una competenza inderogabile in confronto del
giudice ordinario, poiché è invece quest’ultima che, diversamente
da quanto ritengono i remittenti, deve essere considerata, per il
tempo di pace, la giurisdizione “normale”.
Alla definizione dei rispettivi ambiti delle due giurisdizioni, e
del loro reciproco atteggiarsi sul piano costituzionale, questa Corte
è pervenuta muovendo da una premessa interpretativa chiarificatrice.
L’avverbio “soltanto”, utilizzato nell’art. 103, non identifica il
carattere esclusivo di una riserva, ma sta ad esprimere l’esigenza
che la giurisdizione militare in tempo di pace sia rigorosamente
circoscritta entro limiti invalicabili, nel senso che essa riguarda
solo i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. Non
vale l’inverso: la giurisdizione ordinaria, non incontrando per il
tempo di pace limiti di tal genere, ben può essere preferita dal
legislatore concorrendo interessi valutati come preminenti (sentenze
nn. 78 del 1989 e 207 del 1987).
Ora, l’attribuzione della materia dell’obiezione di coscienza
alla giurisdizione del giudice ordinario costituisce il punto
d’arrivo di un itinerario segnato sia da sentenze di questa Corte,
che hanno fatto valere gli insuperabili limiti costituzionali della
giurisdizione militare, sia da successive scelte legislative, le
quali, facendo leva sulla potenziale espansività della giurisdizione
ordinaria, sono protese alla salvaguardia di beni non
irragionevolmente stimati come prevalenti.
3. – Il percorso che si è concluso con l’estensione della
giurisdizione ordinaria a tutta la materia dell’obiezione di
coscienza prese avvio dalla sentenza n. 113 del 1986, che ebbe a
dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 11 della legge 15
dicembre 1972, n. 772, non più vigente, nella parte in cui,
attraverso l’equiparazione “ad ogni effetto penale” degli obiettori
di coscienza ammessi a prestare servizio sostitutivo civile ai
cittadini che prestano servizio militare, finiva con l’assoggettare
alla giurisdizione militare gli stessi obiettori, anche nell’ipotesi
in cui questi, in conseguenza dell’accoglimento della domanda di
ammissione, avevano perduto lo status di militari acquisito con
l’arruolamento e non potevano quindi essere più considerati
“appartenenti alle Forze armate”. In altre parole, si erano
oltrepassati i limiti che rigorosamente circoscrivono, in tempo di
pace, l’eccezionale giurisdizione dei tribunali militari.
In quella sentenza l’espansione della giurisdizione ordinaria non
era peraltro completa ed istituzionalizzata, poiché veniva affermata
come semplice riflesso dei limiti costituzionali della giurisdizione
militare in tempo di pace; limiti che, di fronte ad obiettori ormai
privi dello status di militari, non avrebbero potuto non essere
ribaditi in tutta la loro cogenza.
4. – L’allargamento della giurisdizione ordinaria fino a
comprendere in essa, non più singole fattispecie, ma l’intera
materia dell’obiezione di coscienza è opera del legislatore, che ha
proiettato sul piano della giurisdizione il principio di protezione
dei diritti della coscienza, la cui configurazione unitaria era stata
affermata, nell’ambito del diritto costituzionale sostanziale, da
alcune pronunce successive di questa Corte e segnatamente, nella sua
formulazione più compiuta e pregnante, dalla sentenza n. 43 del
1997, nella quale quel principio era stato desunto dall’univoco
convergere degli artt. 2, 3, 19 e 21, primo comma, della
Costituzione.
L’obiezione di coscienza nella legge n. 230 del 1998 assume
rilievo non solo nelle ipotesi in cui forma oggetto di un vero e
proprio diritto del cittadino a rimanere estraneo alle Forze armate,
ma anche in quelle nelle quali essa è addotta a motivo del rifiuto
del servizio militare da parte di chi non abbia neppure richiesto o
comunque non abbia ottenuto l’ammissione al servizio civile (art. 14,
comma 2). La mera allegazione di motivi di coscienza che ostano alla
prestazione del servizio militare, seppure non comporta di per sé
alcuna legittima dismissione del già assunto status di militare, è
valutata dal legislatore come sufficiente ad escludere la
giurisdizione militare e a preferirle la giurisdizione dell’autorità
giudiziaria ordinaria. Se si considera poi che con questa legge
contro il diniego di ammissione al servizio civile è dato ricorso
non più al giudice amministrativo, come accadeva nella legislazione
previgente, ma alla autorità giudiziaria ordinaria, alla quale è
pure devoluta la competenza a disporre fino alla sentenza definitiva
la sospensione dell’efficacia del provvedimento di reiezione della
domanda o del decreto di decadenza dal diritto di prestare il
servizio civile (art. 5, comma 4), risulta quanto mai evidente che la
scelta del legislatore è stata quella di unificare sul piano della
giurisdizione l’intero fenomeno dell’obiezione e di conferire alle
manifestazioni della coscienza un unitario statuto giurisdizionale,
destinato ad esercitare la propria capacità di attrazione tutte le
volte in cui tali diritti vengano comunque evocati dal cittadino per
resistere alla richiesta di adempiere all’obbligo di prestare il
servizio militare.
Questa scelta non contrasta con l’art. 103, terzo comma, della
Costituzione. Se è vero che questa disposizione non contiene alcuna
clausola di riserva esclusiva di giurisdizione a favore dei tribunali
militari in tempo di pace e non proibisce al legislatore di estendere
la giurisdizione del giudice ordinario quando sussistano interessi
valutati non irragionevolmente come preminenti, l’unificazione sotto
la giurisdizione del giudice ordinario di tutta la materia
dell’obiezione di coscienza, anche per gli aspetti che per l’innanzi
erano affidati alla cognizione del giudice militare o di quello
amministrativo, rientra appieno nella discrezionalità del
legislatore e non può essere tacciata di irragionevolezza.
5. – Una volta escluso che l’art. 14, comma 3, della legge n. 230
del 1998 contraddica ai principi che nell’art. 103, terzo comma,
della Costituzione, presiedono al riparto delle due giurisdizioni,
ordinaria e militare, cade l’ulteriore censura, invero priva di
autonomia concettuale, rivolta nelle ordinanze di remissione, contro
il medesimo art. 14, sul parametro dell’art. 3 della Costituzione. La
diversità di trattamento, sul piano della giurisdizione, dei reati
di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di quelli
di mancanza alla chiamata non è priva di un fondamento
giustificativo, ravvisabile, appunto, nell’esigenza di approntare uno
statuto giurisdizionale unitario per il fenomeno dell’obiezione di
coscienza. Né, infine, possono essere condivisi i rilievi che il
tribunale militare di Padova avanza alla luce dell’art. 25, primo
comma, della Costituzione: i militari che incorrono nel reato di
rifiuto di cui all’art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998 non
vengono, dalla disposizione censurata, distolti dal loro giudice
naturale. Per essi il giudice naturale, precostituito per legge, a
seguito della nuova disciplina dell’obiezione di coscienza, è il
giudice ordinario.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme
in materia di obiezione di coscienza), sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 103, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte militare
d’appello, sezione distaccata di Verona, e, in riferimento agli
artt. 3, 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione, dal
tribunale militare di Padova, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.
Il presidente: Guizzi
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 12 luglio 2000.
Il direttore della cancelleria: Fruscella