Sentenza N. 161 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
06/07/1971
Data deposito/pubblicazione
06/07/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
28/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
20 marzo 1865, n. 2248, sull’abolizione del contenzioso amministrativo,
e degli artt. 2, ultima parte, e 45 del r.d. 29 luglio 1927, n. 1443
(legge mineraria), promosso con ordinanza emessa il 10 settembre 1970
dal pretore di Chieti nel procedimento civile vertente tra Trovarelli
Enrico ed altri e la società Di Berardino Luigi, iscritta al n. 8 del
registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 49 del 24 febbraio 1971.
Visti gli atti di costituzione di Trovarelli Enrico ed altri e
della società Di Berardino e l’atto d’intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore
Giovanni Battista Benedetti;
uditi l’avv. Marcello Russo, per Trovarelli ed altri, l’avv.
Enrico Totoro, per la società Di Berardino, ed il sostituto avvocato
generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Con ricorso 23 luglio 1970, diretto al pretore di Chieti,
Trovarelli Enrico, Malandra Luisa, Cerasa Francesco, Pace Maria
Modestina e Cerasa Giuseppe promuovevano azione di manutenzione del
possesso di alcuni loro terreni sui quali la società per azioni Di
Berardino Luigi aveva ottenuto una concessione per la cava di argilla
con decreto emesso il 20 marzo 1970 dall’ingegnere capo del distretto
minerario di Roma ai sensi dell’art. 45 della legge mineraria approvata
con r.d. 29 luglio 1927, n. 1443. Avendo la società convenuta eccepito
il difetto di giurisdizione del pretore adito, stante il disposto
dell’art. 4 della legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo
che fa divieto all’autorità giudiziaria di annullare, revocare,
modificare o sospendere l’esecuzione di un atto amministrativo, il
pretore sollevava eccezione di legittimità costituzionale sia del
citato art. 4, per contrasto con gli artt. 24, 42 e 113 della
Costituzione, sia degli artt. 2, ultima parte, e 45 dell’indicato r.d.
n. 1443 del 1927, in riferimento agli artt. 42, 3 e 97 della
Costituzione.
Osserva l’ordinanza in ordine alla prima questione che
l’impossibilità di esperire azioni possessorie nei confronti della
pubblica amministrazione – desumibile dal precetto della norma
impugnata – rende vana e fittizia la tutela che il nostro ordinamento
(artt. 1168, 1169 e 1170 del codice civile) ha assicurato al possesso,
indipendentemente dal diritto o dal titolo da cui questo deriva, ed è
palesemente in contrasto con i citati precetti costituzionali.
Il proposito del legislatore costituente era quello di garantire il
diritto del cittadino che si sentisse leso da un atto della pubblica
Amministrazione e non è dubbio che la tutela possessoria rientri nel
novero delle situazioni tutelate dall’articolo 113. A giustificare il
diniego di questa tutela non gioverebbe invocare il principio della
divisione dei poteri dato che la divisione delle funzioni fu intesa
dallo stesso legislatore del 1865 soltanto in senso formale.
Né varrebbe infine addurre che al cittadino viene pur sempre
accordata tutela mediante azione di risarcimento del danno cagionato
dall’atto illegittimo oppure con l’emissione di un provvedimento di
sospensione dell’atto impugnato da parte del giudice amministrativo.
Nel primo caso infatti la tutela non sarebbe piena ma si risolverebbe
in una forma di garanzia sostitutiva rispetto a quella della
conservazione del bene; nel secondo caso, invece, il rimedio della
sospensione è spesso tardivo o risulta addirittura inammissibile
perché l’atto illegittimo ha già avuto esecuzione.
La seconda questione di legittimità sollevata dal pretore è di
portata più ampia di quella decisa dalla Corte con sentenza n. 20 del
1967, investendo oltre che l’art. 45 della legge mineraria anche l’art.
2, ultima parte, della legge stessa.
Quest’ultima norma, dopo avere enumerato una serie di sostanze che
formano oggetto di cava, include nell’elenco (lettera d) “tutti gli
altri materiali industrialmente utilizzabili”.
Questa formulazione, secondo l’ordinanza, è così ampia da indurre
a ritenere che l’intero territorio nazionale può formare oggetto di
cava atteso che qualunque materiale contenuto nel terreno può essere
industrialmente utilizzato. In tal modo sarebbe consentito alla
pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere assolutamente
discrezionale, di dichiarare cava qualsiasi terreno e di assoggettarlo
a provvedimenti espropriativi senza un congruo indennizzo.
La procedura prevista dall’art. 45 verrebbe inoltre a sottrarre al
legittimo titolare il possesso del fondo a vantaggio dell’interesse
industriale di altro soggetto privato con palese violazione dei
principi di uguaglianza dei cittadini e di imparzialità della pubblica
Amministrazione.
Nel giudizio dinanzi alla Corte le parti ricorrenti, rappresentate
e difese dall’avv. Russo Marcello, hanno chiesto che sia dichiarata
l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate; la società Di
Berardino, rappresentata e difesa dall’avvocato Enrico Totoro, ha
concluso per l’infondatezza delle sollevate questioni.
È pure intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
Osserva preliminarmente l’Avvocatura che dall’art. 4 della legge
sulla abolizione del contenzioso amministrativo non discende
semplicemente il principio dell’inammissibilità delle azioni
possessorie contro la pubblica Amministrazione, ma sono stati desunti
altri limiti ai poteri giurisdizionali del giudice ordinario quali:
l’inammissibilità di azioni costitutive o di condanna a un “facere”
specifico ovvero alla consegna di un bene determinato; delle azioni
cautelari e nunciatorie; delle azioni dirette a ottenere emanazioni di
provvedimenti di urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile
quando il provvedimento contrasti con l’efficacia dell’atto
amministrativo. Deriva da tutto ciò l’eccedenza della questione
proposta rispetto alle esigenze del processo nel quale il pretore è
chiamato a decidere esclusivamente sull’ammissibilità di una azione
possessoria.
Nota ancora l’Avvocatura, sempre in via preliminare, che
l’inammissibilità delle azioni possessorie contro la pubblica
Amministrazione è stata dalla dottrina giustificata anche con altre
ragioni quali appunto la presunzione di legittimità dell’atto
amministrativo; il carattere esecutivo di questi atti; la circostanza
che il possesso non può ritenersi un diritto soggettivo perfetto.
Sorge quindi il dubbio sulla rilevanza della proposta questione.
Passando al merito della questione la difesa erariale nega che il
divieto fatto al giudice ordinario di revocare o modificare l’atto
amministrativo sia in contrasto con la Costituzione.
Ricorda in proposito che all’Assemblea costituente, in sede di
esame dell’art. 113, fu respinta la proposta di una espressa
disposizione tendente ad attribuire, in via generale, siffatto potere
al giudice ordinario. Nella formulazione letterale dell’art. 113 non
figura il potere di annullamento o modifica dell’atto amministrativo ma
si demanda alla legge, anche ordinaria, di stabilire quali organi di
giurisdizione possono annullare gli atti amministrativi.
In ordine alla seconda questione di legittimità costituzionale
l’Avvocatura sostiene anzitutto che nessuna motivazione sulla rilevanza
della stessa è contenuta nell’ordinanza. Se il pretore era chiamato a
giudicare sulla fondatezza di una azione possessoria di manutenzione
non si vede quale rilievo possa avere in quella sede la verifica della
costituzionalità di una norma sulla quale riposa la legittimità
dell’atto amministrativo. L’irrilevanza sarebbe poi più evidente se
si ritenesse l’inammissibilità della proposta azione possessoria.
Ulteriore ragione d’irrilevanza potrebbe infine dedursi dalla
circostanza che la denuncia di incostituzionalità è rivolta
prevalentemente al disposto dell’art. 2 lettera d della legge
mineraria, che comprende nel concetto di cava gli “altri materiali
industrialmente utilizzabili”, e nell’ordinanza non risulta chiarito se
la cava oggetto della causa contenesse i materiali indicati
genericamente dalla norma citata o non, invece, i materiali
specificatamente elencati alle lettere a, b e c dello stesso articolo.
Nel merito, comunque, la questione è infondata. La mancanza nella
legge di una elencazione tassativa delle coltivazioni da cava (che
lascia aperta la possibilità di estendere la disciplina apprestata a
materiali di nuova scoperta) non comporta l’effetto temuto di una
attività assolutamente discrezionale della pubblica amministrazione.
L’art. 3 della stessa legge dispone infatti che l’appartenenza alla
categoria dei materiali da cava di una sostanza non espressamente
indicata nell’art. 2 può essere dichiarata con decreto del Presidente
della Repubblica, su proposta del Ministro dell’industria e del
commercio, sentito il Consiglio superiore delle miniere. Questo
provvedimento produce i suoi effetti su tutti i terreni contenenti la
nuova sostanza ed il decreto di concessione per la cava di cui all’art.
45 può essere quindi emanato nei confronti di tutti i proprietari dei
suoli che si trovino nella stessa situazione. Insussistente è pertanto
la violazione degli artt. 3 e 42 della Costituzione. Lo stesso dicasi
dell’art. 97 Cost. che sancisce il principio dell’imparzialità
dell’Amministrazione, dato che i provvedimenti di cui trattasi vengono
emanati non già in favore dell’interesse industriale di un altro
privato, ma per la realizzazione del pubblico interesse connesso alla
regolare coltivazione della cava.
1. – La prima questione di legittimità costituzionale sollevata
con l’ordinanza indicata in epigrafe riguarda la pretesa
incostituzionalità dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248,
sull’abolizione del contenzioso amministrativo, in riferimento agli
artt. 24, 42 e 113 della Costituzione. Ritiene il pretore che il
divieto di revoca o modifica dell’atto amministrativo da parte
dell’autorità giudiziaria ordinaria posto dalla norma impugnata,
divieto dal quale si fa discendere l’impossibilità di esperire azioni
possessorie contro la pubblica Amministrazione, sia in contrasto con
gli indicati precetti costituzionali che rispettivamente assicurano il
diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, il
riconoscimento e la garanzia della proprietà privata e la tutela
giurisdizionale contro gli atti della pubblica Amministrazione.
Tale questione – che ha carattere di priorità rispetto all’altra
concernente l’incostituzionalità, in riferimento agli artt. 42, 3 e 97
della Costituzione, degli artt. 2, ultima parte, e 45 della legge
mineraria approvata con r.d. 29 luglio 1927, n. 1443 – non è fondata.
2. – L’art. 4 della legge sull’abolizione del contenzioso
amministrativo disciplina i rapporti fra l’attività amministrativa e
quella giurisdizionale. La regola secondo la quale l’atto
amministrativo non può essere revocato o modificato dalla autorità
giudiziaria ordinaria, bensì sovra ricorso alle competenti autorità
amministrative, si ricollega al tradizionale principio della divisione
dei poteri e assolve il compito di garantire e proteggere l’esercizio
di quelle tipiche funzioni pubbliche delle quali gli organi
amministrativi hanno l’esclusiva titolarità. L’inammissibilità delle
azioni possessorie contro la pubblica Amministrazione o contro privati
che agiscono in esecuzione di un provvedimento amministrativo è dalla
costante giurisprudenza considerata come un’applicazione della regola
anzidetta. Il divieto di tali azioni è operante solo quando il giudice
si trovi dinanzi ad un provvedimento emesso dall’organo amministrativo
nell’esercizio delle potestà pubbliche ad esso riservate.
3. – Privi di fondamento sono i vari vizi di incostituzionalità
formulati nei riguardi della norma in esame, i quali si sostanziano
nell’unica e fondamentale censura che non sussisterebbe pienezza di
tutela giurisdizionale contro gli atti amministrativi dal momento che
è disconosciuta la possibilità di proporre azioni possessorie contro
gli stessi.
Il divieto fatto al giudice ordinario di annullare l’atto
amministrativo – salvo i casi espressamente previsti dalla legge – non
è in contrasto con l’art. 113 della Costituzione. Questo infatti –
dopo aver affermato che contro gli atti della pubblica amministrazione
è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi (comma primo) e che tale tutela non può essere
esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti (comma secondo) – rinvia alla legge
ordinaria di determinare “quali organi di giurisdizione (ordinaria o
speciale) possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei
casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa” (comma terzo).
Nella formulazione del testo dell’art. 113, come è dato desumere
dai relativi lavori preparatori, il Costituente tenne presente il
problema che già formò oggetto della legge abolitrice del contenzioso
amministrativo e lo risolse non già conferendo alla giurisdizione
ordinaria il potere di annullamento degli atti amministrativi, ma
demandando alla legge la disciplina delle forme e dei modi d’esercizio
di detto potere. È rimasta in tal modo inalterata l’attuale
regolamentazione che riserva in via generale il potere di annullamento
degli atti amministrativi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
e riconosce invece un potere di annullamento alla autorità giudiziaria
ordinaria non in via generale, ma solo per determinate categorie di
atti.
Il disconoscimento della proponibilità delle azioni possessorie
contro la pubblica amministrazione non importa quella esclusione della
tutela giurisdizionale che l’ordinanza ha lamentato con espresso
riferimento alla disposizione contenuta nel comma secondo dell’art. 113
della Costituzione. La Corte ha già chiarito la portata di questo
precetto precisando che esso – interpretato in collegamento col comma
terzo che demanda alla legge la determinazione degli organi di
giurisdizione che possono annullare gli atti della pubblica
amministrazione – non può significare che contro l’atto amministrativo
il cittadino abbia la facoltà di invocare la tutela giurisdizionale in
ogni caso nella medesima maniera e con gli stessi effetti, avendo il
Costituente lasciato libero il legislatore ordinario di regolare i modi
e l’efficacia di detta tutela.
Orbene, nel caso di specie, è da escludere che le parti ricorrenti
restino prive di qualsiasi tutela giurisdizionale contro il decreto
amministrativo di concessione per la coltivazione di una cava sul loro
terreno emesso dall’ingegnere capo del distretto minerario di Roma. In
aderenza alle norme contenute nell’art. 113 della Costituzione e nel
quadro della distinzione dallo stesso posta tra la tutela
giurisdizionale dei diritti, affidata ad organi di giurisdizione
ordinaria, e la tutela degli interessi legittimi, spettante ad organi
di giurisdizione amministrativa, il diritto dei ricorrenti alla difesa
delle proprie ragioni è sufficientemente garantito con rimedi di
tutela amministrativa e giurisdizionale.
Risulta dagli atti che contro il decreto in questione è stato
proposto ricorso gerarchico all’autorità amministrativa competente;
l’eventuale decisione sfavorevole dello stesso potrà formare oggetto
di impugnativa in via giurisdizionale dinanzi al Consiglio di Stato; in
tale sede potrà essere disposta la sospensione per gravi ragioni del
provvedimento impugnato e, se il ricorso sarà ritenuto fondato,
l’annullamento dello stesso; infine gli interessati potranno esperire,
ove ne ricorrano i presupposti, azione per risarcimento del danno
dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. Un complesso di rimedi
quindi che vale ad assicurare quella tutela voluta dal precetto
dell’art. 113 della Costituzione e che induce a dichiarare non fondata
la questione proposta.
4. – Da siffatta pronuncia consegue l’inammissibilità per assoluto
difetto di rilevanza della seconda questione di legittimità
costituzionale riguardante gli artt. 2, ultima parte, e 45 della legge
mineraria.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, sull’abolizione del
contenzioso amministrativo, sollevata, con ordinanza 10 settembre 1970
del pretore di Chieti, in riferimento agli artt. 24, 42 e 113 della
Costituzione;
dichiara l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, della
questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, ultima parte, e
45 del r.d. 29 luglio 1927, n. 1443, contenente norme di carattere
legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle
miniere, sollevata dalla suindicata ordinanza in riferimento agli artt.
42, 3 e 97 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ENZO
CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – PAOLO ROSSI.