Ordinanza N. 159 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
21/04/1994
Data deposito/pubblicazione
21/04/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/04/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo
CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando
SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
comma, della legge della Regione Sicilia 9 dicembre 1980, n. 127
(Disposizioni per la coltivazione dei giacimenti minerari da cava e
provvedimenti per il rilancio e lo sviluppo del comparto lapideo di
pregio nel territorio della regione siciliana), in riferimento agli
artt. 3 e 27 della Costituzione e 11 e 23 della legge 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza
emessa il 21 giugno 1993 dal Pretore di Marsala, sezione distaccata
di Pantelleria nel procedimento civile vertente tra Antonio Bonomo ed
il Corpo regionale delle miniere di Palermo, iscritta al n. 692 del
registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 1993;
Udito nella camera di consiglio del 23 marzo 1994 il Giudice
relatore Gabriele Pescatore;
Ritenuto che nel corso di un giudizio di opposizione avente ad
oggetto l’irrogazione della sanzione amministrativa prevista
dall’art. 29 della legge della Regione Sicilia 9 dicembre 1980, n.
127 (Disposizioni per la coltivazione dei giacimenti minerari da cava
e provvedimenti per il rilancio e lo sviluppo del comparto lapideo di
pregio nel territorio della regione siciliana), il pretore di Marsala
– sezione distaccata di Pantelleria – con ordinanza del 21 giugno
1993, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della
Costituzione e 11 e 23 della legge n. 689 del 1981 – questione di
legittimità costituzionale del precitato art. 29 nella parte in cui
prevede per l’esercizio non autorizzato di attività di escavazione
una sanzione fissa (di lire cinque milioni), precludendo così al
giudice di graduare la sanzione da comminare al trasgressore, in
relazione al caso di specie;
Ritenuto che il giudice a quo reputa che il vizio di
costituzionalità concerna:
a) l’art. 27 della Costituzione nonché gli artt. 11 e 23 della
legge n. 689 del 1981 i quali sarebbero – a loro volta – espressione
e specificazione del principio di personalità della pena;
b) l’art. 3 della Costituzione sotto un duplice profilo:
diretto ed indiretto. In ordine al primo aspetto la norma censurata
sarebbe viziata da irragionevolezza, in quanto prevede lo stesso
trattamento sanzionatorio anche nel caso di illeciti di lieve entità
ovvero commessi “da soggetto meritevole di una sanzione inferiore al
massimo”.
Sotto il secondo profilo l’asserita violazione dell’art. 3 si
prospetta come mediata, atteso che – secondo il remittente – nella
normativa di raffronto (art. 27 della Costituzione e artt. 11 e 23
della legge n. 689 del 1981) vi sarebbe “una regola generale e
assoluta” che imporrebbe la graduazione della sanzione e precisamente
l’art. 27 della Costituzione sancirebbe il principio di personalità
della pena per tutti i tipi di illecito e gli artt. 11 e 23
costituirebbero specificazione di detto principio valevole per tutti
gli illeciti amministrativi;
Considerato che l’illecito amministrativo e, per relationem, la
sanzione amministrativa sono dotati di spiccata specificità ed
autonomia rispetto al sistema sanzionatorio penale e ciò emerge
anzitutto dal riconoscimento di ordini diversi di parametri
costituzionali (art. 25, secondo comma e art. 27 della Costituzione
che disciplinano le sanzioni penali, mentre gli artt. 23 e 97
disciplinano la potestà sanzionatoria amministrativa) nonché dal
regime specifico della sanzione amministrativa, quale quello
disegnato dalla legislazione ordinaria e in particolare dalla legge
24 novembre 1981, n. 689;
che, pertanto, come ribadito più volte da questa Corte, il
principio della personalità della pena non ha alcuna attinenza con
le sanzioni amministrative, concernendo esclusivamente quelle penali
(sentenza n. 29 del 1961, ordinanze nn. 420 e 502 del 1987);
che – per tali ragioni – la questione sollevata in riferimento
all’art. 27 della Costituzione, va dichiarata manifestamente
infondata;
che la già richiamata autonomia del sistema sanzionatorio
amministrativo rispetto a quello penale esclude quella omogeneità di
situazioni ex art. 27 della Costituzione, che il giudice a quo pone a
fondamento della relativa questione e che la stessa va ritenuta – in
riferimento all’art. 3 della Costituzione – manifestamente infondata;
che – avuto riguardo alla prospettazione del giudice a quo – il
contrasto della norma censurata con gli artt. 11 e 23 della legge n.
698 del 1981 appare privo di valenza autonoma in quanto accede e
specifica quello denunciato con l’art. 27 della Costituzione, ovvero
il contrasto con il principio di personalità della pena;
che – tanto premesso – la previsione di cui all’art. 11 della
legge n. 689 del 1981 – che consente al giudice di graduare la
sanzione secondo i criteri ivi indicati – non configura affatto una
regola assoluta, essendo ovviamente dettata soltanto per le sanzioni
amministrative graduate fra un limite minimo e massimo (sent. n. 250
del 1992);
che, analogamente, il potere di riforma della ordinanza,
riconosciuto al giudice dell’opposizione ex art. 23, secondo comma,
della legge n. 689 del 1981, concerne esclusivamente il sindacato
sulle sanzioni c.d. graduabili;
che conseguentemente gli artt. 11 e 23 citati, avendo un ambito
di applicazione circoscritto alle sanzioni graduabili, non escludono
(anzi ammettono espressamente) figure di sanzioni fisse o
proporzionali;
che, pertanto, il modello di sanzione previsto dall’art. 29
impugnato non contrasta affatto ma è pienamente compatibile con gli
artt. 11 e 23 della legge n. 689 del 1981;
che infondato è, anche per questa via, il ricorso all’art. 3
della Costituzione, in quanto viene meno il fondamento su cui poggia
la relativa questione sollevata dal giudice a quo e che consiste
nella esistenza di una regola generale “per tutti gli illeciti
amministrativi”;
che infondato è pure il contrasto con il principio di
ragionevolezza, in quanto la previsione di una sanzione fissa rientra
nella discrezionalità del legislatore, sempre che non assuma
connotati di arbitrarietà;
che – nel caso di specie – il legislatore ha inteso
predeterminare ogni elemento ai fini dell’applicazione della
sanzione, non già per imporre una valutazione omogenea per fatti di
diversa gravità, bensì per garantire una graduazione della sanzione
in funzione esclusiva del termine entro il quale viene adempiuto
l’ordine di sospensione (e cioè di un elemento oggettivo
dell’illecito), di guisa che la sanzione di cinque milioni prevista
per il caso di ottemperanza immediata viene aumentata della metà nel
caso in cui si adempia con ritardo;
che le eventuali differenze fra i casi rientranti nella
previsione normativa non appaiono di tale rilievo da imporre
diversificazioni nelle sanzioni, atteso che la oggettiva esistenza e
consistenza del pericolo è sufficientemente definita dalla
trasgressione al dovere di astensione in difetto della relativa
autorizzazione, la cui funzione preventiva è indispensabile per la
salvaguardia degli interessi pubblici sottostanti alla attività di
cava;
che i poteri di sospensione dei lavori di escavazione sono
diretti a prevenire i danni che l’attività di coltivazione della
cava – ove svolta in spregio a regole tecniche di prudenza o in
mancanza della dovuta ponderazione degli interessi pubblici coinvolti
da parte della p.a. – può arrecare alla sicurezza e alla salute, al
razionale sfruttamento del territorio nonché ad attività di
preminente interesse generale (viabilità, trasporti pubblici ecc.,
sent. n. 218 del 1988);
che, tutto ciò considerato, il regime di autorizzazione si
presenta come mezzo di controllo di rilevanti interessi pubblici ed
in particolare del rispetto, tra le altre, delle esigenze di
ricettività del territorio, di tutela dall’inquinamento, di
determinazione della quantità del materiale estraibile in relazione
alle necessità obiettive del suo impiego nonché come mezzo per
l’attuazione di un piano regionale di attività estrattiva, sicché
esso si estende alla tutela dell’assetto ambientale e idro-geologico
oltre che a quella delle bellezze naturali (sent. n. 9 del 1973;
sent. n. 7 del 1982; sentt. nn. 79 e 148 del 1993;
che, pertanto, la norma impugnata stabilisce un trattamento che
appare congruo e razionale rispetto al tipo di illecito sanzionato;
che, comunque, anche in relazione a fattispecie penali, è stato
ritenuto da questa Corte che una previsione edittale rigida non sia
di per sé incompatibile con i limiti imposti dalla Costituzione alla
potestà punitiva ed è quindi del tutto compatibile con il principio
di legalità (sentenze nn. 50 del 1980, 167 del 1971, 67 del 1963, 15
del 1962);
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimita
costituzionale dell’art. 29, comma secondo, della legge della Regione
Sicilia 9 dicembre 1980, n. 127 (Disposizioni per la coltivazione dei
giacimenti minerari da cava e provvedimenti per il rilancio e lo
sviluppo del comparto lapideo di pregio nel territorio della regione
siciliana), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della
Costituzione e 11 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale), dal pretore di Marsala – sez.
distaccata di Pantelleria – con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 aprile 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: PESCATORE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 21 aprile 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA