Sentenza N. 103 del 1977
Corte Costituzionale
Data generale
02/06/1977
Data deposito/pubblicazione
02/06/1977
Data dell'udienza in cui è stato assunto
24/05/1977
OGGIONI – Prof. Vizzo CRISAFULEI – Dott. NICOLA REALE – Avv. LEONETTO
AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Prof. ANTONINO
DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv.
ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO
MALAGUGINI, Giudici,
lett. d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132; dell’art. 3 del d.P.R.
27 marzo 1969, n. 129; degli artt. 24 e 133 del d.P.R. 27 marzo 1969,
n. 130, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 26 novembre 1975 dal tribunale
amministrativo regionale per l’Emilia- Romagna, sul ricorso proposto da
Nazario Melchionda ed altri contro l’Ente ospedaliero “Ospedali di
Bologna” e nei confronti dell’Università di Bologna, iscritta al n.
346 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 170 del 30 giugno 1976;
2) ordinanza emessa l’11 dicembre 1975 dal tribunale amministrativo
regionale per l’Emilia- Romagna, sul ricorso proposto da Luigi Barbara
ed altri contro l’Ente ospedaliero “Ospedali di Bologna” e nei
confronti dell’Università di Bologna, iscritta al n. 347 del registro
ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 158 del 16 giugno 1976;
3) ordinanza emessa il 7 aprile 1976 dal tribunale amministrativo
regionale per la Lombardia, sui ricorsi proposti da Franco Dotti ed
altri, Achille Finzi ed altri contro gli Istituti ospedalieri “Carlo
Poma” di Mantova e nei confronti di Angelo Cesarini; da Pierluigi Tira
ed altri contro gli Istituti ospedalieri di Cremona e da Angelo Gino
Reggiani contro l’Ente ospedaliero provinciale Leno-Manerbio-Pontevico,
iscritta al n. 553 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 253 del 22 settembre 1976;
4) ordinanza emessa l’8 settembre 1976 dal tribunale amministrativo
regionale per il Lazio sul ricorso proposto da Riccardo Savignoni
contro l’Ospedale generale provinciale “San Sebastiano Martire” di
Frascati, iscritta al n. 699 del registro ordinanze 1976 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4 del 5 gennaio 1977.
Visti gli atti di costituzione di Melchionda ed altri, di Martelli
ed altri, di Tira ed altri, di Benedini e Gandolfi, di Savignoni,
dell’Ente “Ospedali di Bologna”, degli Istituti ospedalieri di Cremona
e dell’Ospedale San Sebastiano Martire di Frascati, nonché gli atti
d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 1977 il Giudice relatore
Antonino De Stefano;
uditi gli avvocati Fabio Roversi Monaco per Melchionda, Martelli ed
altri, Giuseppe Guarino per Tira ed altri, Antonio Sorrentino, Aldo
Sandulli e Giuseppe Guarino per Savignoni, Carlo Lessona e Alberto
Predieri per l’Ente Ospedali di Bologna, Michele Giorgianni per gli
Istituti ospedalieri di Cremona, Guido Cervati per l’Ospedale San
Sebastiano Martire di Frascati ed il sostituto avvocato generale dello
Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Le quattro ordinanze all’esame della Corte si riferiscono
tutte alla normativa concernente i sanitari ospedalieri ed i sanitari
degli ospedali clinicizzati o convenzionati.
Delle quattro ordinanze, due provengono dal TAR per
l’Emilia-Romagna, una dal TAR per la Lombardia e la quarta dal TAR per
il Lazio.
Con l’ordinanza del 26 novembre 1975 il TAR per l’Emilia-Romagna ha
ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, dell’art. 43 della legge 12 febbraio 1968, n. 132, nella
parte in cui dispone che le norme concernenti i rapporti di lavoro a
tempo pieno ed a tempo definito, propri dello stato giuridico dei
sanitari ospedalieri con funzioni di diagnosi e cura, valgono anche per
il personale sanitario degli ospedali clinicizzati o convenzionati; e
dell’art. 3 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 129, per la parte in cui fa
applicazione di tale principio.
Con l’ordinanza dell’11 dicembre 1975 lo stesso TAR ha sollevato,
ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, in relazione
all’art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità
costituzionale del menzionato art. 43 della legge n. 132 del 1968,
nella parte in cui afferma che la norma relativa all’incompatibilità
dell’attività libero-professionale in case di cura private, propria
dello stato giuridico dei sanitari ospedalieri con funzioni di diagnosi
e cura, vale anche per il personale sanitario degli ospedali
clinicizzati o convenzionati, nonché, conseguentemente, e sotto lo
stesso aspetto, delle norme delegate contenute nel già citato art. 3
del d.P.R. n. 129 del 1969, e negli artt. 24 e 133 del d.P.R. 27 marzo
1969, n. 130.
La prima questione è stata sollevata nel corso di un giudizio
instaurato dal prof. Nazario Melchionda, assistente di ruolo presso la
clinica medica II dell’Università di Bologna, e dai professori di
ruolo Carlo Cetrullo e Andrea Montagnani, rispettivamente direttori
nella stessa Università dell’Istituto di anestesiologia e della
clinica dermosifilopatica – tutte unità universitarie convenzionate
con l’Ente ospedaliero “Ospedali di Bologna” – mediante ricorso avverso
i provvedimenti, con i quali il Presidente dell’Ente respingeva le loro
istanze, intese ad ottenere la riconversione del rapporto di servizio
ospedaliero a “tempo pieno”, per il quale avevano a suo tempo optato,
in rapporto a “tempo definito”.
La seconda questione è stata sollevata in sede di esame dei
ricorsi, proposti dal prof. Luigi Barbara e da altri clinici
universitari – svolgenti funzioni in unità universitarie convenzionate
con l’Ente “Ospedali di Bologna” – avverso il provvedimento adottato
dal Presidente dell’Ente, con cui si dava concreta attuazione alle
norme limitative dell’attività libero-professionale del personale
sanitario ospedaliero ed universitario a “tempo definito” presso le
case di cura private.
Le due ordinanze svolgono argomentazioni in gran parte simili.
Secondo il giudice a quo il rapporto di lavoro dei sanitari
universitari delle unità cliniche convenzionate che operano
nell’interno dei complessi ospedalieri, dov’essere regolato
dall’Università, dal momento che sia i professori che gli assistenti
universitari si diversificano dai sanitari ospedalieri, sia per la
dipendenza da enti pubblici diversi, sia per la loro particolare
condizione e funzione.
I professori universitari e gli assistenti sono dipendenti dello
Stato che hanno uno speciale stato giuridico, dal quale risulta che i
compiti ad essi assegnati, nel quadro della funzione cui è preposta
l’Università, sono fondamentalmente quelli dell’insegnamento e della
ricerca scientifica.
Correlativamente l’attività di cura e di assistenza che viene
svolta nelle cliniche e negli istituti universitari, per quanta
importanza possa avere assunto, continua a rimanere strumentale
rispetto alla finalità didattica.
È ovvio, quindi, che sanitari universitari e sanitari ospedalieri,
pur svolgendo attività diagnostica e terapeutica apparentemente
uguali, esplicano funzioni sostanzialmente diverse le quali, secondo il
giudice a quo, postulano l’esigenza di una differente disciplina dei
rispettivi doveri. Questa esigenza, tuttavia, è stata ignorata dalle
norme denunciate le quali, nel regolare il rapporto di servizio “a
tempo pieno” del sanitario ospedaliero, hanno irrazionalmente
parificato la sua posizione con quella del sanitario universitario,
prevedendo uno stesso orario di lavoro.
Afferma conclusivamente la prima ordinanza che
l’incostituzionalità delle impugnate norme deriverebbe dall’avere il
legislatore sottoposto il rapporto del sanitario universitario – che
pur considera speciale nell’ambito dell’impiego statale – alla
disciplina, diversa e con esso incompatibile, del rapporto di impiego
ospedaliero.
La seconda ordinanza fa applicazione degli stessi concetti in
ordine alla limitazione dell’attività libero-professionale presso case
di cura private per i sanitari “a tempo definito”, osservando che il
legislatore, ove avesse inteso instaurare tale disciplina anche nei
confronti dei sanitari universitari, avrebbe dovuto provvedere con
apposita normativa che tenesse conto esclusivamente delle loro funzioni
e del loro stato giuridico.
2. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocato generale
dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni
proposte. L’Avvocatura osserva che l’originario stato giuridico del
medico universitario, in virtù di norme di legge (quali quelle
denunciate) – che sono di gerarchia pari a quella originaria – ha
subito una modifica nel senso che a certi diritti e doveri altri se ne
sono aggiunti. Nell’ambito dell’orario a tempo pieno o di quello a
tempo definito tutte le funzioni debbono quindi trovare collocazione e
contemperamento. Con la legge di riforma ospedaliera del 1968 e con i
successivi decreti di attuazione nn. 129 e 130 del 1969, ai fini della
uniformità dell’assistenza al degente, le cliniche universitarie sono
state inserite nell’ampio contesto della organizzazione dell’assistenza
ospedaliera pubblica ed hanno avuto una struttura analoga a quella dei
corrispondenti reparti ospedalieri. Con gli indicati provvedimenti si
è pertanto realizzata l’unificazione delle norme relative al settore
sanitario e, in definitiva, dei compiti e dei poteri di governo delle
attività ospedaliere pubbliche nell’ambito di un ente assistenziale,
formato da reparti e servizi ospedalieri ed universitari.
In tale quadro normativo vanno collocate, ed appaiono immuni
dall’affermata irrazionalità, le disposizioni denunciate, sia per la
parte in cui dispongono che i professori universitari – in quanto
responsabili di una divisione o di un servizio speciale di diagnosi e
cura-assumono la qualifica di primari ospedalieri e conseguentemente
assumono, nei confronti dell’ente, i diritti e doveri dei primari, in
quanto applicabili; sia per la parte in cui estendono anche al
personale medico universitario il divieto di esercitare l’attività
libero-professionale presso case di cura private.
3. – Si è costituito anche, per ambedue i giudizi, l’Ente
“Ospedali di Bologna”, rappresentato e difeso dagli avvocati Alberto
Predieri e Carlo Lessona, i quali, nelle deduzioni costitutive e in una
successiva memoria, esaminano ampiamente le proposte questioni,
concludendo per la loro infondatezza.
Sostiene la difesa dell’Ente che con la legge ospedaliera n. 132
del 1968 e i suoi successivi decreti delegati nn. 128, 129 e 130 del
1969 si è attuato il passaggio dal vecchio sistema assistenziale
volontaristico-caritativo all’assistenza sanitaria stabilita come
diritto e come servizio sociale dovuto dallo Stato al cittadino. La
nuova normativa ha quindi introdotto cambiamenti essenziali per quanto
attiene ai rapporti tra università ed ospedali; le cliniche risultano
ora sottoposte alla disciplina assistenziale essendo divenute centri
strumentali erogatori del servizio pubblico.
In questa complessa cornice normativa vanno considerati i nuovi
principi riguardanti gli obblighi dei sanitari universitari con
direzione di unità assistenziali, relativi alle prestazioni orarie ed
al divieto di esercizio dell’attività professionale presso le case di
cura private.
Tali obblighi – precisa la difesa – si applicano esclusivamente
alla sfera assistenziale, e non riguardano lo status tipico dei
professori universitari per quanto concerne i compiti e le prerogative
della didattica e delle ricerche, i quali continuano a restare di
esclusiva attribuzione della parte universitaria. La stessa legge,
infatti, dispone che gli obblighi e i doveri dei sanitari ospedalieri
si applicano agli universitari “in quanto compatibili”, in modo cioè
da non interferire sull’attività e sull’autonomia dell’insegnamento.
Orbene, nessuna incompatibilità sussiste tra assistenza sanitaria
e insegnamento universitario nelle facoltà di medicina e chirurgia
poiché questo insegnamento si realizza non solo con lezioni
cattedratiche ma anche con esercitazioni di clinica, mentre per quanto
concerne il divieto di esercizio dell’attività professionale presso le
case di cura private è da osservare che esso attiene esclusivamente
alla sfera assistenziale e non riguarda minimamente la didattica e la
ricerca; che non si comprende come il TAR abbia contemporaneamente
potuto sostenere che la funzione didattica sarebbe incompatibile con
l’attività assistenziale “a tempo pieno” nelle cliniche, mentre
sarebbe compatibile con l’attività libero-professionale presso le case
di cura; che con esso si è inteso separare nettamente il servizio
assistenziale ospedaliero pubblico dall’attività privata, attuando
peraltro una precisa distinzione tra attività dei sanitari che sono
pubblici impiegati-universitari od ospedalieri -e quelli che tali non
sono, vietando una attività che è in concorrenza con quella
ospedaliera.
4. – I professori Melchionda, Cetrullo e Montagnani, rappresentati
e difesi dagli avvocati Pietro Ruggeri e Fabio Roversi-Monaco, si sono
costituiti nel giudizio inerente alla prima ordinanza, chiedendo che la
Corte voglia dichiarare la illegittimità costituzionale delle norme
denunciate.
La difesa delle parti afferma che gli unici diritti e doveri che i
medici universitari possono assumere nei confronti dell’Ente
ospedaliero sono quelli che non implicano modifiche del loro rapporto
di servizio con l’Università e del loro particolare status giuridico.
Non è dubbio, quindi, che le norme impugnate siano in contrasto con
l’art. 3 della Costituzione per aver assoggettato a medesima disciplina
soggetti che hanno uno stato giuridico del tutto diverso.
Il medico universitario operante in un ospedale convenzionato – per
come reso evidente dalla legge 25 marzo 1971, n. 213 – non assume alcun
rapporto diretto con l’ente ospedaliero, in quanto è l’università che
impegna soltanto se stessa nei confronti dell’ente, garantendo una
certa attività, globalmente considerata, da parte di sanitari
universitari che ad essa soltanto restano vincolati. Se per effetto di
una convenzione tra università ed ente ospedaliero lo stato giuridico
del sanitario universitario dovesse risultare scalfito, fino a
compromettere o a condizionare l’attività istituzionale, la violazione
dell’art. 3 della Costituzione si evidenzierebbe anche sotto il diverso
profilo della irragionevole ed ingiusta discriminazione che ne
deriverebbe rispetto agli altri docenti universitari.
5. – Nel giudizio promosso con la seconda ordinanza si sono
costituiti il prof. Luigi Barbara ed altri ricorrenti, difesi dagli
avvocati Mario Jacchia e Fabio Roversi Monaco i quali in una successiva
memoria osservano anzitutto che la questione di legittimità promossa
dal giudice a quo muove da una non corretta interpretazione data
all’art. 43, lett. d) della legge n. 132 del 1968. L’espressione
personale sanitario medico “dipendente” dagli ospedali clinicizzati o
convenzionati— cui la norma estende l’incompatibilità con l’esercizio
professionale presso le case di cura private—andrebbe riferita al solo
personale ospedaliero e non anche ai sanitari universitari che prestano
servizio in quegli ospedali. Così correttamente interpretata la norma
sarebbe pienamente costituzionale.
Per sostenere una diretta dipendenza del sanitario universitario
dall’ospedale non giova richiamare l’equivoca formulazione dell’art. 3
del d.P.R. n. 129 del 1969, a termini della quale i sanitari
universitari responsabili di una divisione o di un servizio di diagnosi
e cura “assumono, a tali effetti, la qualifica di primari ospedalieri
e, conseguentemente, nei confronti dell’ente ospedaliero, i diritti e i
doveri dei primari in quanto applicabili”. L’espressione “in quanto
applicabili” contenuta nel citato articolo lascia intendere sia la
necessità che tali diritti ed obblighi non interferiscano sui doveri
essenziali dei professori, attinenti alla ricerca e all’insegnamento,
sia la diretta ed esclusiva dipendenza del professore dall’università.
Si deve, pertanto, negare che la legge ospedaliera abbia portata
innovativa in ordine allo stato giuridico dei medici universitari.
Passando all’esame del divieto di esercizio dell’attività
libero-professionale nelle case di cura private, esteso ai medici
universitari, operanti in un complesso convenzionato, la difesa osserva
che non esistono ragionevoli motivi idonei a giustificarlo. Le ragioni
del divieto, infatti, non attengono né alla convenzione, né
all’assistenza, o al modo di svolgerla, ma soltanto alla tutela di
interessi economici dell’ospedale. Scopo del legislatore è stato
quello di utilizzare il medico universitario negli enti ospedalieri
convenzionati e non quello di limitarne l’attività al di fuori di
questo particolare rapporto. E, dunque, viziato Il procedimento logico
e manca la conseguenzialità nel ragionamento che ha condotto il
legislatore a dettare, al di là della volontà espressa, una
disposizione incoerente e contraddittoria.
6. – I motivi d’incostituzionalità delle norme denunciate con le
due ordinanze del TAR per l’Emilia-Romagna sono stati ancora
diffusamente e congiuntamente illustrati in una memoria presentata
dalla difesa dei professori Melchionda ed altri e Barbara ed altri,
nella quale si afferma che la legge di delegazione n. 132 del 1968 non
ha affatto attribuito al Governo la potestà legislativa in ordine allo
status del personale medico universitario; che le disposizioni del
decreto delegato n. 129 del 1969, riguardano “l’ordinamento interno dei
servizi di assistenza delle cliniche e degli istituti universitari di
ricovero e cura”, e sono, quindi, inapplicabili ai clinici umversitari
le disposizioni inerenti all’impiego dei primari ospedalieri, relative
al tempo pieno e al tempo definito, nonché al divieto di attività
libero-professionale in generale e per le case di cura private.
Ove invece si ritenesse che le norme denunciate hanno assimilato lo
stato giuridico delle due distinte categorie di sanitari, emergerebbe
evidente la denunciata violazione dell’art. 3 della Costituzione sia in
relazione al “tempo pieno” imposto ai clinici, stante
l’inconciliabilità di un impegno ospedaliero di tale entità con le
preminenti attività d’insegnamento e ricerca del docenti universitari;
sia per quanto si riferisce all’esclusione dell’attività professionale
dei clinici nelle case di cura private, per l’evidente disparità di
trattamento che tale divieto comporta tra i docenti a seconda che per
l’esercizio professionale abbiano o non bisogno di strutture di tipo
ospedaliero.
7. – Le altre due ordinanze, del TAR per la Lombardia, emessa il 7
aprile 1976, e del TAR per il Lazio, emessa l’8 settembre 1976, hanno
ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4 e 76 della
Costituzione, dell’art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969, e dell’art.
43, lett. d), della legge n. 132 del 1968 (quest’ultimo solo nel caso
che sia considerato perentorio il termine del 31 dicembre 1975 ivi
previsto).
L’ordinanza del TAR per la Lombardia proviene da giudizi instaurati
con ricorsi proposti dai sanitari ospedalieri Dotti Franco ed altri e
Finzi Achille ed altri contro gli Istituti ospedalieri di Mantova, Tira
Pierluigi ed altri contro gli Istituti ospedalieri di Cremona, e
Reggiani Angelo Gino ed altri contro l’Ente ospedaliero provinciale
Leno-Manerbio-Pontevico, per impugnare le deliberazioni con le quali
gli Enti suddetti avevano stabilito il divieto, per i sanitari
ospedalieri a tempo definito, di svolgere, con decorrenza 1 gennaio
1976, ogni attività libero- professionale presso le case di cura
private.
L’ordinanza del TAR per il Lazio è stata emessa sul ricorso
proposto dal sanitario ospedaliero Riccardo Savignoni avverso una nota
con la quale il Presidente dell’Ospedale generale provinciale S.
Sebastiano martire di Frascati gli ingiungeva di cessare lo svolgimento
di attività libero- professionale incompatibile con il servizio
ospedaliero.
Il TAR per la Lombardia-basandosi sulla formulazione testuale
dell’art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969-ha ritenuto che il termine
del 31 dicembre 1975 entro il quale poteva essere esercitata
l’attività professionale presso le case di cura private, abbia
carattere perentorio, talché, dopo tale data, il divieto di esercizio
della libera professione debba considerarsi operante, a prescindere dal
fatto se siano stati o non apprestati dagli enti ospedalieri gli
ambienti idonei per consentire l’attività nell’interno dell’ospedale.
Ha conseguentemente accolto le eccezioni di incostituzionalità
formulate dai ricorrenti sotto i seguenti profili:
a) contrasto dell’art. 133 del decreto delegato con l’articolo 76
della Costituzione in relazione, sia con l’art. 42 n. 2 della legge di
delega, per non aver riconosciuto le posizioni giuridiche acquisite (e
quindi anche la facoltà dell’esercizio dell’attività
libero-professionale); sia con l’art. 43, lett. d) se si interpreta
tale norma nel senso che il termine del 31 dicembre 1975, in essa
indicato, non abbia carattere perentorio;
b) contrasto del medesimo art. 133 con i principi di uguaglianza e
del diritto al lavoro (Cost. artt. 3 e 4), giacché, col divieto
dell’esercizio dell’attività professionale in case di cura private (e
non anche in studi privati) verrebbe a crearsi disparità di
trattamento tra i sanitari, precludendosi lo svolgimento di attività
solo a quelli (chirurghi. anestesisti) che per il loro lavoro hanno
bisogno di apposita organizzazione;
c) ulteriore violazione dei richiamati principi costituzionali per
la diversa condizione in cui vengono a trovarsi i sanitari dipendenti
da ospedali che hanno organizzato e attrezzato locali idonei
all’esercizio dell’attività libero- professionale e sanitari che
prestano servizio in ospedali che a ciò non hanno ancora provveduto,
nonché (nell’ambito degli ospedali che abbiano apprestato gli ambienti
idonei) tra sanitari a tempo pieno, cui è riconosciuto un diritto di
prelazione ad operare, e sanitari a tempo definito che, specie se
chirurghi, difficilmente potrebbero svolgere la loro attività.
Motivi di incostituzionalità pressoché identici sono svolti dal
TAR per il Lazio.
8. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocato generale
dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle proposte
questioni.
Per quanto attiene al preteso eccesso di delega dell’art. 133 del
d.P.R. n. 130 del 1969 in relazione al disposto dell’articolo 42 della
legge delegante n. 132 del 1968-che ha fatto salve le posizioni
giuridiche acquisite dal personale già in servizio – l’Avvocatura
rileva che la norma delegata ha tenuto conto della normativa esistente
al momento dell’emanazione della legge di riforma ospedaliera,
ribadendo quel divieto di esercizio dell’attività professionale
extramurale, in concorrenza con gli interessi dell’ospedale, oppure
incompatibile con gli orari di servizio stabiliti dall’Amministrazione
già presente nell’ordinamento (art. 3 legge 10 maggio 1964, n. 336).
Parimenti infondato, ad avviso dell’Avvocatura, il profilo
dell’eccesso di delega in relazione al termine del 31 dicembre 1975
fissato tanto nell’art. 43 lett. d) della legge di delega che nell’art.
133 del decreto delegato, giacché, in ambedue le norme, tale termine
ha carattere perentorio. La tolleranza transitoria era collegata alla
situazione ospedaliera in evoluzione, ma sebbene questo processo non si
sia ancora concluso, occorreva porre un termine, onde evitare un
circolo vizioso che si sarebbe potuto protrarre all’infinito.
Infondata è poi la questione di costituzionalità prospettata in
riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione. Il legislatore si
muove su una linea di tendenza che vuole privilegiare l’ospedale
pubblico rispetto alla casa di cura privata e questo spiega perché la
libera professione sia stata ammessa in uno studio privato (per i
medici a tempo definito) o nell’ambito ospedaliero (per i medici a
tempo pieno e per quelli a tempo definito) e ne sia stato, per contro,
vietato l’esercizio nelle case di cura. Si può, in astratto,
dissentire sulla bontà della soluzione adottata, ma non già
configurare come questione di costituzionalità un problema che è di
politica legislativa.
Infondata, infine, l’ultima censura d’incostituzionalità che
ravvisa una disparità di trattamento tra sanitari a seconda che
prestino servizio in ospedali che abbiano o non provveduto ad
organizzare idonei ambienti per l’esercizio dell’attività
libero-professionale intramurale. Questa situazione non dà luogo a
questione di costituzionalità, essendo evidente che non è la norma
denunciata che consente ad alcuni ed impedisce ad altri una certa
attività, ma è la sua applicazione pratica.
9. – Nel giudizio inerente all’ordinanza del TAR per la Lombardia
si sono costituiti gli Istituti ospedalieri di Cremona, rappresentati e
difesi dagli avvocati Goffredo Grassani e Michele Giorgianni, i quali
nelle prime deduzioni ed in una successiva memoria formulano anzitutto
eccezione preliminare d’inammissibilità per irrilevanza della proposta
questione. Si osserva in proposito che il problema di costituzionalità
prospettato muove dal presupposto che il termine del 31 dicembre 1975,
indicato nell’art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969, abbia carattere
perentorio, e che il divieto dell’attività professionale dei sanitari
ospedalieri a tempo definito nelle case di cura private operi anche se
l’ente ospedaliero non abbia assicurato, entro il termine suddetto, la
disponibilità di appositi ambienti, qualitativamente idonei, per
l’esercizio dell’attività professionale all’interno dell’ospedale.
Orbene, siffatto problema non ha nulla a che vedere con la situazione
giuridica e di fatto riguardante i sanitari ricorrenti, dipendenti
dagli Istituti ospedalieri di Cremona, atteso che questi sono
attrezzati sin dal 1970 in modo da consentire a tutti i medici
dipendenti di svolgere la loro attività professionale usufruendo delle
attrezzature necessarie all’uopo predisposte.
La difesa degli Istituti ospedalieri contesta poi le affermazioni
di parte avversa in ordine alla pretesa non applicabilità del divieto
di esercizio dell’attività professionale al personale assunto in
servizio prima dell’entrata in vigore della legge ospedaliera, e
all’asserito carattere non perentorio del termine del 31 dicembre 1975.
Contesta inoltre che la nuova legge ospedaliera avrebbe, in linea
di principio, confermato il diritto dei sanitari ospedalieri ad
esercitare la libera- professione, ed afferma che la regola
fondamentale desumibile dalla politica legislativa perseguita in
materia è, al contrario, quella di una maggiore protezione degli
interessi degli ospedali cui corrisponde un affievolimento della
posizione del personale sanitario. La libera attività rappresenta
quindi l’eccezione e viene dal legislatore consentita solo entro
precisi e rigorosi limiti, quando sia fondato ritenere che non rechi
turbamento, sia per le modalità che per le dimensioni in cui è
svolta, al servizio pubblico prestato dagli ospedali.
Il divieto della professione nelle case di cura private ha peraltro
lo scopo di precludere l’utilizzazione di personale pubblico, i cui
gravi oneri, derivanti dallo stato giuridico ed economico, sono a
carico degli enti ospedalieri. Senza il divieto si attuerebbe un
inammissibile trasferimento di costi dalla struttura privata a quella
pubblica, e si favorirebbe la costituzione di strutture concorrenziali,
operanti a costi minori, e, addirittura, a costi trasferiti, creando
una posizione ingiustificata di privilegio a favore di una categoria di
imprese private.
Passando all’esame dei singoli motivi di incostituzionalità la
difesa ribadisce:
a) che non sussiste la violazione dell’art. 4 della Costituzione
dal momento che le norme denunciate non impediscono affatto ai sanitari
di svolgere il proprio lavoro, ma li lasciano liberi di scegliere il
tipo di attività: privata ovvero alle dipendenze di enti pubblici, e –
in questo secondo caso – a tempo “pieno” o “definito”;
b) che infondati sono i profili d’incostituzionalità svolti
nell’ordinanza in relazione all’art. 3 della Costituzione, atteso che
il divieto opera per tutti i sanitari (chirurghi e medici) ed essendo a
tutti garantita la medesima possibilità di esercitare la professione
entro l’ospedale con le attrezzature di questo;
c) che neppure sussiste l’asserita disparità di trattamento a
seconda che l’ospedale abbia o non predisposto le attrezzature entro il
31 dicembre 1975, essendo evidente che tale circostanza non è
configurabile come vizio della previsione legislativa che ha, invece,
esplicitamente obbligato gli ospedali a predisporre le necessarie
attrezzature.
Conclude la difesa chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile e in subordine infondata.
10. – Nello stesso giudizio si sono anche costituiti il dott. Mario
del Grosso ed altri tredici ricorrenti, tutti rappresentati e difesi
dagli avvocati Bruno Guareschi e Giuseppe Guarino.
Rileva anzitutto la difesa che la facoltà di esercitare
l’attività libero professionale da parte dei sanitari ospedalierigia’ prevista nel precedente ordinamento dall’art. 19 del r.d. n. 1631
del 1938 e dall’art. 3 della legge n. 336 del 1964 è stata in linea di
principio confermata, sebbene con modificazioni e limitazioni, nella
nuova normativa, sicché il criterio generale è che l’esercizio
dell’attività libero-professionale rappresenti la regola ed il divieto
l’eccezione.
Passando all’esame delle varie censure di incostituzionalità la
difesa osserva:
a) che il denunciato contrasto tra l’art. 133 del d.P.R. n. 130 del
1969 e l’art. 42 della legge n. 132 del 1968 non sussisterebbe se
correttamente si ritenesse che il divieto di esercizio dell’attività
nelle case di cura private non si estende ai sanitari già in servizio;
b) che del pari non avrebbe ragion d’essere il dedotto contrasto
tra il vitato art. 133 del decreto e l’art. 43 lett. d) della legge di
delega se entrambe le norme venissero rettamente interpretate nel senso
che il dovere del sanitario di non svolgere attività nelle case di
cura private è strettamente correlato al diritto dello stesso
sanitario di esercitare la professione intramurale in quegli appositi
ambienti che l’amministrazione ospedaliera era tenuta a predisporre
entro la data del 31 dicembre 1975. Sarebbe ermeneuticamente scorretta
l’interpretazione che il legislatore abbia voluto porre un termine
perentorio all’esercizio dell’attività anche nell’ipotesi che gli
ospedali non si fossero organizzati, poiché, tanto dall’art. 43, lett.
d), quanto dall’art. 47 del d.P.R. n. 130 del 1969, letto in
connessione con il successivo art. 133, si desume che sussiste un
collegamento inscindibile tra divieto per i sanitari di lavorare nelle
case di cura private e diritto di svolgere attività intramurale; che
gli ospedali sono obbligati ad attrezzare entro il 31 dicembre 1975 gli
ambienti per consentire tale attività; che, conseguentemente, il
divieto scatta solo se gli ospedali abbiano adempiuto al loro obbligo,
mentre non diviene operante nel caso in cui siano rimasti inadempienti;
c) che, infine – ove si ritenga che il divieto in esame operi
indipendentemente dalla possibilità di svolgere la professione
nell’interno dell’ospedale – fondata sarebbe la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 43, lett. d), della legge n.
132 e 133 del d.P.R. n. 130, per contrasto con gli artt. 3 e 4 della
Costituzione, essendo palese la violazione del diritto al lavoro e del
principio di uguaglianza.
Né si comprenderebbe perché debba essere fatto divieto di
esercitare la professione in case di cura private, colpendo così solo
quei sanitari che hanno necessità di particolari attrezzature di
lavoro (chirurghi, anestesisti), e debba, invece, essere consentito
l’esercizio professionale negli studi privati.
Di particolare considerazione, poi, la posizione di quei sanitari a
tempo definito – che hanno quindi un orario di lavoro ridotto e una
retribuzione inferiore a quella dei sanitari a tempo pieno – i quali,
operando in settori che richiedono una indispensabile organizzazione,
non possono nelle ore libere svolgere attività né all’interno
dell’Ospedale (se questo non abbia attrezzato idonei ambienti) né
all’esterno (poiché è loro inibito di operare in case di cura
private).
Evidente anche la disparità di trattamento tra sanitari che
operano in enti ospedalieri che hanno predisposto la necessaria
organizzazione per lo svolgimento dell’attività intramurale e sanitari
in servizio presso ospedali inadempienti.
Sul rilievo che l’art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969 non abbia
esteso il divieto ai sanitari universitari, la difesa ravvisa, infine,
disparità di trattamento tra questa categoria e quella dei medici
ospedalieri, ritenendo che nessuna differenza, sotto i profili che
vengono in considerazione, può riscontrarsi tra medici ospedalieri e
professori universitari che svolgano funzioni di sanitari in ospedale.
11. – Nel giudizio relativo all’ordinanza emessa dal TAR per il
Lazio si è costituito l’Ospedale generale provinciale di S. Sebastiano
Martire di Frascati, rappresentato e difeso dall’avv. Guido Cervati.
Nella memoria depositata dalla difesa dell’Ospedale si afferma
anzitutto che il divieto di esercizio di attività libero-professionale
nelle case di cura private, ora sancito dalla legge ospedaliera, è
diverso dal potere di divieto dell’esercizio professionale in
concorrenza con gli interessi dell’ospedale contemplato dalla
precedente normativa.
Il nuovo divieto è dettato dall’interesse della collettività ad
un diverso tipo di impegno del medico ospedaliero nell’attività
interna dell’ospedale. Con esso si è inteso vietare un’attività in
case di cura, la quale contrasta non solo con l’interesse
dell’ospedale, ma, in primo luogo, con la nuova concezione del servizio
pubblico ospedaliero, che deve consentire al malato la tutela della
salute come diritto fondamentale dell’individuo e deve assicurare tale
tutela come interesse della collettività.
Passando, quindi, all’esame delle varie censure
d’incostituzionalità prospettate, la difesa osserva:
a) che non può accedersi alla tesi difensiva dei sanitari secondo
cui la nuova normativa sarebbe applicabile soltanto ai medici
ospedalieri assunti in servizio dopo l’entrata in vigore della legge.
Questa tesi non considera che l’art. 42 della legge n. 132 del
1968, all’uopo, si applica al personale ospedaliero e non a quello
sanitario, per il quale vi è apposita norma, e cioè il successivo
art. 43, nel cui testo avrebbe dovuto trovare collocazione la tutela di
particolari situazioni giuridiche del sanitario.
Ma a parte ciò, è da rilevare che il riferimento a posizioni
giuridiche ed economiche acquisite riguarda soltanto le specifiche
carriere di appartenenza e non si estende a facoltà ad esse estranee
ed accessorie;
b) non fondata sarebbe l’eccezione d’incostituzionalità dell’art.
133 del d.P.R. n. 130 del 1969, in relazione all’articolo 43, lett. d),
della legge 132 del 1968.
Rientrava nell’ambito della delega e dei criteri e principi in essa
fissati l’indicazione di un termine di cessazione dell’attività
libero-professionale anche nel caso di mancata costruzione di speciali
locali all’interno dell’ospedale;
c) infondati sarebbero i motivi d’incostituzionalità in
riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione. Né vale addurre
l’irrazionalità della normativa in relazione a quelle attività che
possono esercitarsi solo in cliniche, poiché è evidente che alcune
attività richiedono attrezzature scientifiche e specializzate che si
trovano appunto nei vari istituti che assumono chi vuole esercitarle.
12. – Nello stesso giudizio si è anche costituito il dott.
Savignoni, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Sorrentino,
Aldo Sandulli e Giuseppe Guarino, con deposito di deduzioni nelle quali
la difesa sostiene l’incostituzionalità delle norme denunciate sulla
base degli stessi argomenti svolti dalla difesa di Del Grosso ed altri,
nel giudizio inerente all’ordinanza del TAR per la Lombardia.
A sostegno delle conclusioni formulate nei due giudizi,
rispettivamente per Del Grosso ed altri, e per Savignoni, la stessa
difesa ha depositato un’ampia memoria, nella quale riafferma che il
divieto dell’attività libero-professionale nelle case di cura private
è correlato e fatto dipendere dalla messa a disposizione da parte
degli ospedali degli “appositi ambienti” per l’attività intramurale.
La conseguenza di ciò è che il divieto dell’attività libera scatta
alla data di riferimento del 31 dicembre 1975 (o anche prima) solo a
condizione che sia stato assolto il correlativo onere dell’ospedale
dell’apprestamento degli “appositi ambienti”.
È chiaro quindi che, interpretato l’art. 133 nei sensi anzidetti,
le questioni sollevate sono da considerarsi infondate, o, almeno allo
stato, irrilevanti, potendo i giudici a quibus senz’altro decidere i
ricorsi ad essi sottoposti, ed accoglierli.
Nella ipotesi, invece, si ritenesse perentorio il termine del 31
dicembre 1975 indicato dall’art. 133, i motivi d’incostituzionalità
prospettati sarebbero rilevanti e fondati in quanto:
a) sussisterebbe il vizio dell’eccesso di delega (art. 76 Cost.)
dell’art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969 in relazione all’art. 42,
ultimo comma, della legge 132 del 1968, per non aver fatto salve le
posizioni giuridiche acquisite dal personale già in servizio;
b) sussisterebbe l’eccesso di delega dell’art. 133 in relazione
all’art. 43, lett. d) della legge di delegazione, in quanto si è
fissato un termine perentorio per la cessazione di una attività
libero- professionale che è in rapporto di dipendenza e
conseguenzialità col rispetto del correlativo obbligo
dell’amministrazione di apprestare “appositi ambienti” nell’ospedale,
facendo così derivare dall’inadempimento di quest’ultima il venir meno
di un diritto dei sanitari;
e) sussisterebbero le violazioni degli artt. 3 e 4 della
Costituzione per la disparità di trattamento e la violazione del
diritto al lavoro che la normativa denunciata determina: perché
preclude qualsiasi attività a taluni sanitari che hanno una
particolare specializzazione (chirurghi, anestesisti, ecc.); perché
ammette la libera professione in studi privati e la vieta, invece, se
esercitata in case di cura; perché fissa limitazioni al diritto al
lavoro che non trovano fondamento nell’esigenza di tutelare interessi
effettivi ed inderogabili; perché, ai fini dell’esercizio
dell’attività professionale intramurale, privilegia i sanitari a tempo
pieno rispetto a quelli che hanno optato per il tempo definito; perché
dà luogo a disparità di trattamento tra sanitari operanti in ospedali
che hanno attrezzato gli “appositi ambienti” e altri sanitari che non
possono svolgere la libera professione in quanto dipendenti da ospedali
inadempienti.
Conclude pertanto la difesa insistendo per la dichiarazione
d’incostituzionalità delle norme impugnate.
13. – Da ultimo va ricordato che, nel giudizio inerente
all’ordinanza idei TAR per la Lombardia, i professori Eros Benedini e
Mario Gandolfi primari chirurghi presso gli Istituti ospedalieri “Carlo
Poma” di Mantova, entrambi rappresentati e difesi dall’avvocato Emilio
Pario, si sono costituiti con atto pervenuto in cancelleria il 14
ottobre 1976, e quindi da considerarsi fuori termine in relazione alla
pubblicazione dell’ordinanza medesima sulla Gazzetta Ufficiale n. 253
del 22 settembre 1976.
14. – All’udienza pubblica il sostituto avvocato generale dello
Stato e i difensori delle parti hanno oralmente illustrato i motivi
delle rispettive tesi difensive.
1. – Le ordinanze in epigrafe sollevano le seguenti questioni:
A) se siano costituzionalmente illegittimi-per violazione dell’art.
3 della Costituzione – l’art. 43, lett. d), della legge 12 febbraio
1968, n. 132, “nella parte in cui afferma, tra l’altro, che le norme
concernenti i rapporti di lavoro a tempo pieno ed a tempo definito,
propri dello stato giuridico dei sanitari ospedalieri con funzioni di
diagnosi e cura, valgono anche per il personale sanitario degli
ospedali clinicizzati o convenzionati”, e l’art. 3 del d.P.R. 27 marzo
1969, n. 129, “per la parte in cui fa applicazione di tale principio”
(ordinanza del 26 novembre 1975 del tribunale amministrativo regionale
per l’Emilia-Romagna);
B) se siano costituzionalmente illegittimi-per violazione dell’art.
3 della Costituzione – il citato art. 43, lett. d), della legge n. 132
del 1968, “nella parte in cui afferma, tra l’altro, che la norma
relativa all’incompatibilità dell’attività libero- professionale in
case di cura private, propria dello stato giuridico dei sanitari
ospedalieri con funzioni di diagnosi e cura, vale anche per il
personale sanitario degli ospedali clinicizzati o convenzionati”, e,
per estensione, “sotto lo stesso aspetto”, il citato art. 3 del d.P.R.
n. 129 del 1969, e gli artt. 24 e 133 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130
(ordinanza dell’11 dicembre 1975 del tribunale amministrativo regionale
per l’Emilia- Romagna);
C) se sia costituzionalmente illegittimo – in quanto eccedente dai
limiti della delega (art. 76 della Costituzione) – il citato art. 133
del d.P.R. n. 130 del 1969, interpretato nel senso di attribuire
carattere perentorio al termine di decorrenza del divieto, per i
sanitari ospedalieri con rapporto di lavoro a tempo definito, di
esercizio libero- professionale in case di cura private, in contrasto
con la legge di delega n. 132 del 1968, che, all’art. 43, lett. d),
avrebbe condizionato L’operatività di siffatto divieto alla messa a
disposizione, da parte dell’ente ospedaliero, di appositi ambienti
qualitativamente idonei per l’esercizio dell’attività medesima
all’interno dell’ospedale (ordinanza del 7 aprile 1976 del tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia);
D) se sia costituzionalmente illegittimo – in quanto eccedente dai
limiti della delega (art. 76 della Costituzione)- il citato art. 133
del d.P.R. n. 130 del 1969, nella parte in cui non prevede
l’esclusione dal divieto di esercizio libero- professionale in case di
cura private, dei sanitari ospedalieri già in servizio, in contrasto
con l’art. 42 della legge di delega n. 132 del 1968, secondo il quale
in ogni caso devono esistere riconosciute le posizioni giuridiche
acquisite dal personale già in servizio (ordinanze del 7 aprile 1976
del tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, e dell’8
settembre 1976 del tribunale amministrativo regionale per il Lazio);
E) se siano costituzionalmente illegittimi – per violazione degli
artt. 3 e 4 della Costituzione – i citati artt. 43, lett. d), della
legge n. 132 del 1968, e 133 del d.P.R. n. 130 del 1969, interpretati
nel senso che il divieto da essi disposto per i sanitari ospedalieri a
tempo definito, di esercitare, dopo il 31 dicembre 1975, attività
libero professionale presso case di cura private, abbia carattere
perentorio ed operi comunque, a prescindere dalla concreta
disponibilità di appositi idonei ambienti nell’interno dell’ospedale,
determinando disparità di trattamento:
a) rispetto a sanitari dipendenti da enti ospedalieri che abbiano
apprestato ambienti idonei all’esercizio dell’attività
libero-professionale intramurale, e sanitari dipendenti da enti
ospedalieri che non abbiano potuto o voluto attrezzare tali ambienti;
b) in seno alla categoria dei sanitari ospedalieri, in quanto il
divieto – non estendendosi agli studi privati – viene a colpire solo
quelli (come chirurghi, anestesisti, ecc.) che abbiano necessità di
operare in apposita organizzazione;
c) nell’ambito degli stessi ospedali attrezzati, tra sanitari con
rapporto di servizio a tempo pieno – cui la legge riconosce un diritto,
di preferenza ad esercitare all’interno la libera professione – e
sanitari a tempo definito, che, specie se chirurghi, difficilmente
potrebbero aver modo di operare in concomitanza con i primi (ordinanze
del 7 aprile 1976 del tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, e dell’8 Settembre 1976 del tribunale amministrativo
regionale per il Lazio).
2. – I giudizi, avendo ad oggetto questioni in parte identiche ed
in parte connesse, vengono riuniti per essere decisi con unica
sentenza.
3. – Le questioni sollevate dal TAR per l’Emilia- Romagna, e
puntualizzate alle lettere A) e B) del precedente n. 1, non sono
fondate.
Va preliminarmente precisato che esse muovono dall’assunto, fatto
proprio dal giudice a quo, che il legislatore, con l’espressione
“personale sanitario medico dipendente dagli ospedali clinicizzati o
convenzionati”, adoperata nel denunciato art. 43, lett. d) della legge
n. 132 del 1968, abbia inteso riferirsi ai sanitari universitari che
operano in tali ospedali. Pur tacciando di scarsa proprietà la
locuzione (che qualifica come “dipendente”, personale legato agli
ospedali in argon mento, non da rapporto d’impiego ma da rapporto di
servizio), questa interpretazione, dalle ordinanze di rimessione, è
stata ritenuta logicamente preferibile ad altra, che individui il
personale medesimo in quello dipendente da enti ospedalieri, da questi
ultimi, per effetto delle convenzioni stipulate con le università,
messo a disposizione, a fianco del personale universitario, per il
funzionamento dei complessi convenzionati.
Invero, in questa seconda ipotesi – obietta il TAR per
l’Emilia-Romagna – non vi sarebbe stato motivo di estendere una
disciplina ed una incompatibilità, che già direttamente trovavano
collocazione nello stato giuridico proprio del personale sanitario
medico dipendente dagli enti ospedalieri, secondo quanto esplicitamente
prescritto dalla prima parte dello stesso art. 43, lett. d). A sostegno
della tesi accolta dal TAR merita di essere ricordato che, nel corso
dell’iter parlamentare della legge n. 132 del 1968, l’espressione
originaria (“personale sanitario dipendente dagli ospedali
clinicizzati”) era stata, innanzi alla Camera, sostituita, con
emendamento governativo, da altra inequivocabile (“personale sanitario
medico in servizio presso gli ospedali convenzionati o clinicizzati, da
qualunque amministrazione dipenda”). A sua volta quest’ultima fu
successivamente modificata nei termini attuali, ma, come risulta dalla
relazione della Commissione di igiene e sanità del Senato, “sono stati
così riprodotti i termini esatti di accordi a suo tempo intervenuti su
questa materia comune tra clinici universitari e medici ospedalieri,
per cui la modifica, nel pensiero del Ministro e della Commissione, è
di carattere formale e lascia inalterato il significato della norma
quale è stata approvata dalla Camera”. Non va da ultimo taciuto che
l’interpretazione fornita dal TAR è accolta anche dal decreto 24
giugno 1971 (in G.U. n. 182 del 20 luglio 1971), con il quale i
Ministri per la sanità e per la pubblica istruzione, di concerto con
quello per il tesoro, hanno approvato lo schema tipo di convenzione
previsto dall’art. 4 del citato d.P.R. n. 129 del 1969, per la
disciplina dei rapporti tra gli enti ospedalieri ed istituti pubblici
di ricovero e cura, di cui all’art. 1 della citata legge n. 132 del
1968, e le università. Ivi, infatti, si ribadisce, al quarto comma
dell’art. 7 dello schema, che i sanitari universitari addetti
all’assistenza nei complessi convenzionati, sono soggetti alle
disposizioni di legge sull’assistenza ospedaliera e devono osservare la
disciplina e le norme dei regolamenti dell’ente ospedaliero che stipula
la convenzione, in particolare per quanto attiene ai rapporti con la
sovraintendenza o la direzione sanitaria, all’osservanza degli orari di
lavoro, alle limitazioni dell’esercizio dell’attività libero-professionale presso case di cura private, analogamente a quanto
previsto per i medici ospedalieri.
4. – La prima delle due ordinanze del TAR per l’Emilia-Romagna, una
volta interpretato nei sensi sopra esposti l’articolo 43, lett. d),
della legge di delega n. 132 del 1968, ne fa conseguire
l’applicabilità ai sanitari universitari dei complessi clinicizzati o
convenzionati, dell’obbligo dell’orario di servizio, dettato per i
sanitari ospedalieri dall’art. 24 del citato d.P.R. n. 130 del 1969,
nei termini ivi previsti per il servizio a tempo pieno (40 ore
settimanali) e per quello a tempo definito (non inferiore alle 30 ore
settimanali e non superiore alle 36 ore). Applicabilità che trova
conferma nell’art. 3 del decreto delegato n. 129 del 1969, a tenore del
quale i professori universitari di ruolo ed incaricati, in quanto
responsabili di una divisione o di un servizio speciale di diagnosi e
cura, assumono, a tali effetti, la qualifica di primari ospedalieri e,
conseguentemente, nei confronti dell’ente ospedaliero, i diritti e i
doveri dei primari, in quanto applicabili (comma primo); e gli aiuti e
gli assistenti di ruolo delle stesse divisioni e sezioni, agli effetti
ed in relazione alle attività assistenziali svolte, sono considerati
rispettivamente aiuti ed assistenti ospedalieri (secondo comma). Ora,
la estensione di tale normativa, dettata per i sanitari ospedalieri, ai
sanitari universitari, aventi stato giuridico fondato su altri
presupposti, evidenzierebbe un principio di parificazione di due
diverse categorie di dipendenti pubblici, che al giudice a quo è
apparso “del tutto irragionevole”, inducendolo a sollevare la questione
di legittimità costituzionale tanto dell’art. 43, lett. d), della
legge di delega n. 132 del 1968, quanto dell’art. 3 del decreto
delegato n. 129 del 1969, in relazione al principio di eguaglianza
affermato dall’art. 3 della Costituzione.
La Corte, però, non ravvisa nella denunciata normativa l’asserita
violazione del richiamato principio, violazione che si concreterebbe
nell’avere il legislatore disciplinato in maniera eguale situazioni
diverse.
In proposito giova ricordare che i rapporti tra le facoltà mediche
e gli enti di assistenza ospedaliera sono di antica data, pressoché
coevi all’instaurarsi e al diffondersi del moderno sistema di
insegnamento della medicina, basato sull’osservazione clinica. In
Italia, alla libera iniziativa delle istituzioni universitarie ed
ospedaliere, realizzata per lo piu secondo tradizionali schemi
privatistici, seguì una prima disciplina in materia con la legge 17
luglio 1890, n. 6972, sulle istituzioni pubbliche di assistenza e di
beneficenza, che, all’art. 98, faceva obbligo agli ospedali (in essi
compresi i manicomi ed ogni altro istituto pubblico di beneficenza
diretto alla cura di qualsiasi malattia: art. 124 del regolamento
amministrativo approvato con r.d. 5 febbraio 1891, n. 99), nelle
città sedi di facoltà medico-chirurgiche, di “fornire il locale e
lasciare a disposizione i malati e i cadaveri occorrenti per i diversi
insegnamenti”. Si veniva così a sancire, al fine di conseguire il
necessario coordinamento fra l’esigenza dell’assistenza ospedaliera e
l’esigenza didattico- scientifica, una collaborazione, le cui forme e
modalità, peraltro, erano lasciate al sistema contrattualistico.
Nuova disciplina viene successivamente dettata dal r.d.l. 10
febbraio 1924, n. 549 (di poi trasfuso negli artt. 27-35 del testo
unico delle leggi sulla istruzione superiore, approvato con r.d. 31
agosto 1933, n. 1592), e dal regolamento per la sua esecuzione,
approvato con r.d. 24 maggio 1925, n. 1144. Gli ospedali delle città
sedi di facoltà medico-chirurgiche, ricorrendo determinati presupposti
ed a seconda dei bisogni dell’insegnamento, vengono trasformati in
“ospedali clinici”: essi funzionano a totale carico delle istituzioni
cui appartengono, ma le università provvedono al personale sanitario
direttivo ed alle spese per trattamenti speciali, mettendo a
disposizione i propri mezzi diagnostici e terapeutici. Il personale
sanitario universitario, cui è affidata ex lege la direzione tecnica
dei singoli reparti, viene così ad essere incardinato
nell’organizzazione ospedaliera, continuando, peraltro, a dipendere
dalla amministrazione universitaria. La collaborazione non è più,
dunque, circoscritta all’apprestamento dei locali ed alla messa a
disposizione degl’infermi e dei cadaveri ritenuti necessari agli scopi
dell’insegnamento, ma investe gli aspetti più salienti
dell’organizzazione e dell’attività degli ospedali clinicizzati, sui
quali viene ad esplicarsi una spiccata ingerenza universitaria. In
altri termini, nelle sedi di facoltà medico-chirurgiche il fine
didattico-scientifico dell’università attrae il fine assistenziale
dell’ente ospedaliero: l’ospedale clinicizzato si trasforma in
strumento dell’attività universitaria, la quale, dal suo canto, si
estende all’ambito assistenziale, per la stretta connessione tecnica
fra insegnamento clinico e cura degli ammalati. Del che è conferma la
fattispecie, correlativamente disciplinata, della c.d. “clinica
ospedalizzata”, e cioè della clinica universitaria, dotata di propri
locali, chiamata a funzionare come reparto ospedaliero, alle condizioni
convenute tra amministrazione universitaria e pubblica istituzione di
assistenza ospedaliera. Conclusivamente, ai fini che qui interessano,
va sottolineato che già vigendo tale normativa i sanitari
universitari, obbligatoriamente investiti della direzione e della
responsabilità reparti clinico-ospedalieri, sono tenuti a prestare in
essi servizio per la realizzazione dei congiunti fini
didattico-scientifici ed assistenziali.
Sugl’indicati rapporti hanno ora sensibilmente inciso la legge n.
132 del 1968, avente ad oggetto gli enti ospedalieri e l’assistenza
ospedaliera, e i decreti emanati in attuazione della delega con essa
conferita al Governo. Cardine della riforma, che con la richiamata
normativa si è inteso attuare, appare la posizione profondamente
diversa dal passato, riconosciuta all’infermo, cittadino o straniero,
che abbisogni di ricovero e cure. L’ammalato, invero’ non è più
accolto nel nosocomio sotto il segno di un’assistenza
filantropico-caritativa, che ha pure le sue storiche benemerenze, ma
nella cui prospettiva trova collocazione, quasi come doverosa
contropartita delle elargite cure, anche la sua eventuale
utilizzazione, da vivo o da morto, ad oggetto di osservazione
scientifica e didattica. In attuazione del principio del supremo
interesse della collettività alla tutela della salute, consacrata come
fondamentale diritto dell’individuo dall’art. 32 della Costituzione
(sentenze n. 21 del 1964 e n. 149 del 1969), l’infermo assurge, nella
novella concezione dell’assistenza ospedaliera, alla dignità di
legittimo utente di un pubblico servizio, cui ha pieno e incondizionato
diritto, e che gli vien reso, in adempimento di un inderogabile dovere
di solidarietà umana e sociale, da apparati di personale e di
attrezzature a ciò strumentalmente preordinati, e che in ciò trovano
la loro stessa ragion d’essere. All’assolvimento del servizio, in cui
si concreta l’assistenza ospedaliera pubblica, il legislatore ha inteso
mobilitare non soltanto tutti gli enti ospedalieri, ma anche
gl’istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, le cliniche e
gl’istituti universitari, dichiarandoli soggetti, per la parte,
appunto, assistenziale, alla disciplina unitaria della stessa legge di
riforma (art. 1, comma secondo e terzo, legge n. 132 del 1968), e
prevedendo l’emanazione di norme delegate per la disciplina
dell’ordinamento interno dei servizi di assistenza delle cliniche e
degl’istituti universitari di ricovero e cura (art. 40, n. 2, della
legge n. 132 del 1968). L’università, dunque, in ragione dell’alto
livello di preparazione scientifica e tecnica dei suoi docenti, è
stata chiamata ad assicurare, con le sue cliniche, con i suoi istituti,
con il suo personale sanitario addetto agli ospedali totalmente o
parzialmente clinicizzati, un prezioso apporto al più efficace
perseguimento di quella finalità assistenziale curativa, additata dal
ricordato precetto costituzionale, ed alla quale va riconosciuto
rilievo non inferiore a quello emergente dall’art. 33 della stessa
Carta costituzionale per la finalità didattico-scientifica, che
l’università è istituzionalmente tenuta a perseguire.
Correlativamente, agli enti ospedalieri regionali, sia generali che
specializzati, sono stati assegnati come compiti istituzionali, oltre
quello precipuo dell’assistenza ospedaliera, quello di contribuire alla
preparazione professionale ed all’aggiornamento del personale medico,
nonché quello di collaborare nella ricerca scientifica (combinato
disposto degli artt. 2, comma secondo; 23, comma terzo, e 24, comma
secondo, della citata legge n. 132 del 1968). Il tutto si compendia in
una positiva evoluzione ed intensificazione della pregressa
cooperazione, esplicitamente sottolineata in sede parlamentare con
l’indicare tra gli obiettivi essenziali della riforma ospedaliera “la
promozione della massima integrazione e collaborazione, nel rispetto
reciproco, dell’ospedale con l’università, nell’interesse supremo del
malato, per l’esigenza della salute pubblica e per il progresso della
medicina”. Ed appunto in tale prospettiva enti ospedalieri ed
università vengono chiamati dal citato decreto interministeriale 24
giugno 1971 a stipulare nuove convenzioni, secondo uno schema tipo
dallo stesso decreto approvato, per disciplinare in modo uniforme i
relativi rapporti, onde rendere “operativo un complesso funzionale
universitario ospedaliero, rispondente in modo unitario ai fini
istituzionali così dell’ente ospedaliero come delle università
contraenti” (art. 3).
5. – Nel delineato contesto, approdo di una scelta politica che ha
inteso adeguarsi al precetto costituzionale, non appare certo
irrazionale che al personale sanitario universitario (docenti, aiuti ed
assistenti), chiamato a compiti di assistenza ospedaliera e, a tali
effetti, assimilato nelle qualifiche al personale sanitario degli enti
ospedalieri con funzioni di diagnosi e cura (primari, aiuti,
assistenti), siano state estese con le denunciate norme le modalità di
prestazione del servizio dettate per questi ultimi, offrendo anche ai
primi la opzione tra il servizio “a tempo pieno” e quello “a tempo
definito”. Non si nega che il personale universitario anzidetto debba
nel contempo assolvere compiti, di non minor rilievo, ad esso
istituzionalmente assegnati per il perseguimento della concomitante
finalità didattico-scientifica, e che a ciò debba in conseguenza
dedicare parte della sua attività. Ma in proposito va innanzi tutto
osservato trattarsi di funzioni fra loro nient’affatto incompatibili,
sibbene, al contrario, suscettibili di ottimale collegamento o
addirittura compenetrazione, come reso palese dalla stessa
strutturazione della clinica universitaria, e come può del resto
desumersi anche dalla normativa sullo stato giuridico dei professori e
degli assistenti universitari. Ed infatti, la legge 18 marzo 1958, n.
311, prevede, all’art. 6, per i professori l’esercizio
dell’insegnamento, in relazione alla sua natura ed alla sua estensione,
anche sotto forma di esercitazioni cliniche, nonché l’obbligo
aggiuntivo di attendere alla direzione, o alla esplicazione della
propria attività di collaborazione, negl’istituti, cliniche e simili;
correlativamente la coeva legge n. 349, per gli assistenti, all’art. 3,
prevede anch’essa l’obbligo di coadiuvare il professore con particolare
riguardo alle esercitazioni, e, ove rivestano la qualifica di aiuto, di
collaborare anche nella direzione dell’istituto, venendo preposti, di
regola, alla direzione dei reparti o servizi nei quali l’istituto sia
suddiviso. Ma ciò che va soprattutto sottolineato, onde escludere che
il legislatore abbia inteso disciplinare in modo eguale situazioni
almeno parzialmente diverse, è che l’osservanza dei doveri, dettati
per i sanitari ospedalieri, da parte dei corrispondenti sanitari
universitari, non è sancita per questi ultimi in forma assoluta, ma
è, dalla denunciata normativa, subordinata alla loro “applicabilità”
(art. 3, comma primo, del citato d.P.R. n. 129 del 1969): sì che, in
un ipotetico conflitto tra doveri assistenziali e doveri didattici o
accademici, dovrà pervenirsi in concreto ad un ragionevole
contemperamento degli uni e degli altri, da ricercarsi con appropriate
forme e nelle competenti sedi. Siffatta esigenza, del resto, è stata
tenuta presente anche dal ricordato schema- tipo di convenzione,
prevedendosi ivi, all’art. 7, comma quinto, che “dell’osservanza degli
orari di lavoro nello svolgimento delle proprie mansioni didattiche, di
ricerca ed assistenziali – globalmente considerate – i medici
universitari dovranno rispondere alla direzione dell’unità di
appartenenza”; ed al successivo comma sesto, che “per quanto riguarda,
in particolare, le mansioni assistenziali prestate in unità a
direzione universitaria, il personale medico universitario –
globalmente considerato – deve garantire all’amministrazione
ospedaliera un numero di ore lavorative pari a quello che sarebbe
fornito da una dotazione organica minima ospedaliera di unità
corrispondente”.
Per quanto in particolare concerne il servizio assistenziale “a
tempo pieno” la sua compatibilità con il servizio universitario è
confermata dall’art. 54 della legge 13 aprile 1975, n. 148, a mente del
quale anche i medici ospedalieri a tempo pieno possono espletare
incarichi di insegnamento universitario. In concreto, va poi rilevato
che, secondo l’art. 24 del citato d.P.R. n. 130 del 1969, la
prestazione di tale servizio ha carattere volontario, presupponendo una
esplicita richiesta da parte dell’interessato, che a siffatta scelta,
rispetto al servizio “a tempo definito”, siasi ovviamente determinato
avendo liberamente valutato la propria disponibilità; mentre, d’altro
canto, il necessario imprescindibile rispetto dei concomitanti doveri
inerenti all’insegnamento ed alla ricerca scientifica, comporta che il
sanitario universitario possa sempre, per tali comprovati motivi,
recedere dall’effettuata opzione; e che, a fortiori, la prestazione del
servizio a tempo pieno non possa essergli imposta in carenza di una
specifica richiesta, secondo quanto previsto, invece, dal menzionato
art. 54 della legge n. 148 del 1975 per il personale sanitario
ospedaliero.
6. – Ad eguale conclusione di infondatezza delle mosse censure deve
pervenirsi in ordine all’altra questione, sollevata con la seconda
delle due ordinanze del TAR per l’Emilia-Romagna, e relativa – nei
termini di cui alla lett. B) del precedente n. 1, e nella
interpretazione della denunciata normativa, esposta al successivo n. 3-
alla estensione ai sanitari universitari addetti all’assistenza nei
complessi clinicizzati o convenzionati, della incompatibilità
dell’esercizio professionale in case di cura private, sancita per i
medici ospedalieri.
Rinviando al prosieguo della motivazione la trattazione delle
questioni, sollevate dalle ordinanze dei TAR per la Lombardia e per il
Lazio in ordine a tale incompatibilità e puntualizzate alle lettere
C), D) ed E) del precedente n. 1, va qui preliminarmente precisato che
il TAR per l’Emilia-Romagna accusa di violazione dell’art. 3 della
Costituzione, non la norma che stabilisce la incompatibilità, ma
soltanto la norma che la estende al personale universitario sopra
indicato. L’art. 43, lett. d) della citata legge n. 132 del 1968,
infatti, avrebbe sotto tale profilo, a detta del giudice a quo, leso il
principio di eguaglianza per aver stabilito una parificazione
“irragionevole” in relazione a condizioni diseguali.
La questione evidentemente può essere prospettata soltanto nei
confronti dei sanitari universitari che prestino servizio assistenziale
“a tempo definito”, perché coloro che abbiano chiesto ed ottenuto di
prestare servizio “a tempo pieno”, hanno con ciò stesso rinunciato a
qualsiasi attività liberopro-fessionale extra- ospedaliera, a mente
dell’art. 24, comma terzo, lett. A), del citato d.P.R. n. 130 del 1969.
I sanitari universitari “a tempo definito”, invece, secondo la
successiva lett. B) del richiamato art. 24, hanno, alla stessa stregua
dei sanitari ospedalieri, per effetto del citato art.3 del d.P.R. n.
129 del 1969, la facoltà del libero esercizio professionale entro e
fuori dell’ospedale, ma non presso le case di cura private. La Corte
nella estensione di tale divieto non ravvisa segni di irrazionalità.
Trattasi di scelte discrezionali riservate al legislatore, e valgono al
riguardo le considerazioni esposte nei precedenti numeri 4 e 5;
soggiungendo, peraltro, che sotto il profilo in esame non si pone
nemmeno il problema, dianzi toccato, della compatibilità temporale tra
le due funzioni (didattico-scientifica ed assistenziale), al cui
congiunto esercizio i sanitari universitari sono chiamati, in quanto il
divieto in parola certamente non ostacola, ma anzi agevola l’esercizio
medesimo.
Né maggior pregio può riconoscersi all’assunto che in tal guisa,
legiferando sullo stato giuridico dei medici ospedalieri con funzioni
di diagnosi e cura, si sarebbe inciso surrettiziamente anche sullo
stato giuridico dei docenti universitari. Premesso che, come già
ricordato, fin dal 1924 nello stato giuridico del personale sanitario
universitario era compresa la possibilità di esser tenuto a prestare
servizio negli ospedali clinicizzati o nelle cliniche ospedalizzate,
non può non riconoscersi al legislatore, in sede di riforma
dell’assistenza ospedaliera pubblica, la potestà di ampliare e
potenziare l’apporto, in tale ambito, delle università, e di
disciplinare all’uopo in modo unitario l’omogeneo rapporto di servizio
assistenziale del personale sanitario ospedaliero ed universitario,
fatto salvo per quest’ultimo l’adempimento dei compiti didattici e di
ricerca scientifica.
Vero, altresì, che, pur in mancanza di specifica norma
autorizzativa, i professori universitari di materie mediche o
chirurgiche possono, ai sensi dell’art. 10 del d.lg.vo C.P.S. 13
settembre 1946, n. 233, iscriversi all’albo professionale ed
esercitare la libera professione. Ma questa loro facoltà non è stata
certamente soppressa dalla denunciata normativa, la quale ha con il
divieto dell’esercizio nelle case di cura private, fatto venir meno
soltanto uno dei possibili modi di attività professionale, disponendo
in sua vece, con l’art. 133 del citato d.P.R. n. 130 del 1969, che
all’interno dell’ospedale siano apprestati appositi ambienti
qualitativamente idonei per l’esercizio di una attività professionale
che può appunto considerarsi equivalente a quella non più esperibile
presso le case di cura private. Né può in questa sede essere
apprezzato l’asserito danno economico che gl’interessati risentirebbero
per il minor guadagno professionale derivante dall’anzidetto divieto
anche se non va taciuto che al personale medico universitario svolgente
attività assistenziale, spetta, ai sensi dell’art. 4 della legge 25
marzo 1971, n. 213, in aggiunta allo stipendio, una indennità non
superiore a quella necessaria per equiparare il trattamento economico a
quello del personale medico ospedaliero di pari funzioni ed anzianità;
e che, per l’attività libero-professionale esplicata nell’ambito
ospedaliero, gl’interessati percepiscono i compensi stabiliti nel
tariffario previsto dall’art. 47 del citato d.P.R. n. 130 del 1969.
7. – Passando alle rimanenti questioni, va innanzi tutto esaminata
l’eccezione di inammissibilità, opposta – come indicato in narrativa –
dalla difesa degli Istituti ospedalieri di Cremona, per irrilevanza
delle questioni proposte con l’ordinanza del TAR per la Lombardia,
avendo gl’istituti medesimi apprestato sin dal 1970 appositi ambienti
onde consentire a tutti i medici dipendenti di svolgere entro
l’ospedale la loro attività professionale. In proposito va osservato
che il giudice a quo con provvedimento non sindacabile in questa sede,
ha disposto, “ai fini della risoluzione unitaria delle sollevate
questioni di legittimità costituzionale”, la riunione di vari ricorsi
innanzi ad esso pendenti, tra cui quelli proposti contro gli Istituti
anzidetti. Secondo il disposto dell’art. 23 della legge
L’11 marzo 1953, n. 87, si richiede che “il giudizio non possa
essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di
legittimità costituzionale”; ma, nella fattispecie, il giudizio a quo,
per effetto della disposta riunione dei ricorsi, va considerato
unitariamente, e in esso le norme, della cui costituzionalità si
dubita, debbono essere certamente applicate, quanto meno nei confronti
delle altre parti (altri ricorrenti ed altri resistenti) del giudizio
medesimo. Il che è da ritener sufficiente per considerare sussistente
la necessaria rilevanza.
8. – Delle questioni anzidette va innanzi tutto presa in esame
quella sollevata soltanto dal TAR per la Lombardia, e già enunciata
alla lett. C) del precedente n. 1. Si assume dal giudice a quo che
l’art. 43 della citata legge n. 132 del 1968, nel dettare i principi e
criteri direttivi per lo stato giuridico ed il trattamento economico
del personale sanitario medico dipendente dagli enti ospedalieri, cui
dovevano ispirarsi le norme delegate previste dal precedente art. 40,
n. 3, avrebbe, alla lett. d), subordinato l’operatività delle norme
limitative dell’esercizio dell’attività professionale nelle case di
cura private, all’apprestamento, da parte dell’amministrazione
ospedaliera, di appositi ambienti qualitativamente idonei per il libero
esercizio dell’attività professionale all’interno dell’ospedale. La
norma delegata all’uopo emanata (art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1968)
ha, invece, posto un termine perentorio (31 dicembre 1975),
oltrepassato il quale il divieto opera anche nella ipotesi che non
siano stati apprestati gli ambienti in parola: il che, secondo il
giudice a quo, concreterebbe un eccesso dai limiti della delega, in
violazione dell’art. 76 della Costituzione.
La questione non è fondata, in quanto muove da una interpretazione
della norma delegante, che non può condividersi. L’art. 43, lett. d),
nella parte che ne occupa, ha inteso configurare una situazione di
incompatibilità tra il rapporto di servizio “a tempo definito” del
medico ospedaliero, e l’esercizio professionale in case di cura
private. Giova ricordare che già la preesistente normativa (art. 19
r.d.30 settembre 1938, n. 1631; art. 13 bis d.lg.vo 3 maggio 1948, n.
949, ratificato con modificazioni ed aggiunte dalla legge 4 novembre
1951, n. 1188; art. 3 legge 10 maggio 1964, n. 336) vietava al
personale sanitario ospedaliero ogni forma di esercizio professionale
esterno in concorrenza con gl’interessi dell’ospedale; ma essa veniva
“non di rado elusa”, come fu riconosciuto in sede parlamentare, nella
quale fu appunto dichiarato il “chiaro intendimento del legislatore” di
apprestare all’uopo “nuove disposizioni tassative”. Ecco perché, pur
facendo nello stesso art. 43, lett. d), “salva l’applicazione per tutti
i sanitari delle disposizioni di cui all’art. 3 della legge 10 maggio
1964, n. 336”, si volle, nel contempo, trasformare, per quanto concerne
specificamente le case di cura private, quello che era un divieto
generico, attualizzabile solo mediante accertamento caso per caso, in
un divieto puntuale e predeterminato. Tale incompatibilità trova poi
la sua fondamentale ratio, più che nella difesa di interessi
concorrenziali dell’ospedale, soprattutto nella tutela degli stessi
principi posti a base della riforma ospedaliera, che ha inteso
potenziare su nuove strutture l’organizzazione del servizio pubblico di
assistenza ospedaliera; sulla cui efficienza, secondo la discrezionale
valutazione del legislatore, avrebbe spiegato effetti negativi ed
impeditivi, il consentire alla collaterale organizzazione
dell’assistenza sanitaria privata, di assorbire, con impegni quasi
sempre non accidentali, il personale sanitario ospedaliero, lasciando
oltretutto gravare sugli enti pubblici da cui esso dipende, i non
indifferenti oneri derivanti dal relativo stato giuridico e trattamento
economico, ed attuando così, in termini economici, un sostanziale
trasferimento di costi.
Questa consapevole rilevante svolta rispetto al passato è stata
dal legislatore volutamente improntata ad opportuna gradualità,
essendo già scontata la resistenza che avrebbe incontrato l’attuazione
del divieto, in ragione dei precostituiti interessi sui quali avrebbe
sensibilmente inciso. Fu, pertanto, la stessa norma di delega a
predisporre un ampio intervallo temporale (oltre sette anni), indicando
un termine (31 dicembre 1975), decorso il quale la incompatibilità
avrebbe spiegato la sua generale operatività; e prevedendo nel
contempo che il divieto potesse anticipare i suoi effetti solo ove si
fosse riscontrata la disponibilità dei cennati ambienti. Protrarre
sine die la possibilità della inosservanza avrebbe significato non
soltanto vanificare il termine stesso, ma soprattutto subordinare la
precettività della norma alla discrezionalità delle singole
amministrazioni, che più difficilmente in tal caso avrebbero potuto
superare le previste resistenze.
Il termine, adunque, è perentorio tanto nella norma di delega
quanto nella norma delegata, e va perciò disattesa la mossa censura.
9. – Del pari non fondata è la seconda questione per eccesso dai
limiti della delega, sollevata con le loro ordinanze sia dal TAR per la
Lombardia che dal TAR per il Lazio, e puntualizzata alla lett. D) del
precedente n. 1. Lo stesso art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969 vien
adesso posto in riferimento con l’art. 42 della legge n. 132 del 1968,
e si assume che il primo (norma delegata), nella parte in cui non
prevede che la incompatibilità con l’esercizio professionale in case
di cura private non possa operare nei confronti dei sanitari
ospedalieri già in servizio all’atto della sua emanazione, contrasti
con il secondo che, nel dettare i principi direttivi per lo stato
giuridico del personale dipendente dagli enti ospedalieri, cui dovevano
ispirarsi le norme delegate previste dal precedente articolo 40, n. 3,
aveva, all’ultimo comma, prescritto che in ogni caso fossero
riconosciute “le posizioni giuridiche ed economiche acquisite dal
personale già in servizio”.
Anche in tale caso la questione poggia su una interpretazione della
norma delegante, che va disattesa. La Corte ha già avuto occasione
(sentenza n. 131 del 1974) di fermare la sua attenzione proprio
sull’ultimo comma del richiamato articolo 42, osservando che la formula
in esso usata ha un proprio significato tecnico, circoscritto alle
posizioni qualificanti lo stato giuridico ed economico del personale in
servizio. In altri termini, essa è volta esclusivamente alla
salvaguardia di posizioni, a contenuto patrimoniale o di carriera,
acquisite dai singoli dipendenti in relazione al loro rapporto
d’impiego, e non può essere dilatata sino a precludere la introduzione
di nuove (o parzialmente nuove) figure d’incompatibilità. Pertanto, il
denunciato art. 133, che ha dato puntuale attuazione ad uno dei
principi e criteri direttivi fissati dal successivo art. 43, lett. d)
della stessa legge, specificamente per il personale sanitario medico,
non appare alla Corte in contrasto con il richiamato principio,
enunciato per tutto il personale ospedaliero dal precedente art. 42.
10. – I più volte citati articoli, 43, lett. d), della legge n.
132 del 1968 e 133 del d.P.R. n. 130 del 1969, vengono, infine,
denunciati dalle due ordinanze del TAR per la Lombardia e del TAR per
il Lazio, per violazione degli artt. 3 e 4 della Costituzione, nei
termini già indicati alla lett. E) del precedente n. 1.
Un primo profilo dell’asserita disparità di trattamento – una
volta riconosciuta la perentorietà del termine iniziale per la
generale operatività del divieto di esercizio dell’attività
professionale nelle case di cura private – si concreterebbe,
nell’ambito dei medici ospedalieri, fra coloro per i quali sussista la
disponibilità degli ambienti idonei all’esercizio dell’attività
professionale intramurale, e gli altri, per i quali gli enti da cui
dipendono non abbiano potuto o voluto attrezzare tali ambienti.
A questo proposito, richiamando quanto già osservato al precedente
n. 8, in merito alla perentorietà del termine, va, peraltro, osservato
che aver riconosciuto non subordinata alla disponibilità degli
ambienti la operatività del divieto, non sta certo a significare che
per le amministrazioni ospedaliere non sussistesse, puntuale e cogente,
l’obbligo di apprestare gli ambienti medesimi entro lo stesso termine.
Il diritto all’esercizio professionale nell’ambito dell’ospedale, già
enunciato dall’articolo 43, lett. d), della legge n. 132 del 1968, è
stato, infatti, esplicitamente sancito dalla norma delegata (art. 47
del d.P.R. n. 130 del 1969), che, al comma terzo, fa obbligo “a tutti
gli enti ospedalieri” di predisporre, entro lo stesso termine del 31
dicembre 1975, “sale separate qualitativamente idonee per il ricovero
di malati paganti in proprio con un numero di letti variabile dal
quattro al dieci per cento del totale, dove i medici, nel rispetto
della competenza nosologica attribuita alla divisione o al servizio, e
delle attribuzioni inerenti alla qualifica rivestita da ciascun
sanitario, possono esercitare la loro attività professionale”.
Un obbligo così esplicito e tassativo, posto a carico di tutte le
amministrazioni ospedaliere, presuppone da parte del legislatore la
valutazione politica della sua generale concreta realizzabilità: sul
piano razionale, dunque, non sussiste la lamentata discriminazione, in
quanto, nella previsione normativa, tutti i medici ospedalieri, a far
tempo dal 1 gennaio 1976, dovevano essere messi in grado di esercitare,
volendo, la professione all’interno dei rispettivi ospedali. Che ciò
non si sia ancora verificato, in quanto non tutti gli enti ospedalieri
avrebbero ottemperato all’obbligo (che la scadenza del termine non ha
certo fatto venir meno, ma anzi ha reso ancor più cogente), è un
fatto accidentale, che inerisce all’attuazione della legge, ed è
cagione di una disparità di mero fatto. Ad essa può e deve porsi
riparo nelle competenti sedi, con il necessario intervento degli organi
di vigilanza sull’inadempienti enti ospedalieri, e con i possibili
rimedi giurisdizionali. Che se poi il legislatore avesse a constatare
di aver errato nella previsione circa la concreta realizzabilità
dell’obbligo posto a carico di tutte le amministrazioni ospedaliere, ad
esso spetterebbe di intervenire nei più opportuni modi.
11. – Altri due profili vengono prospettati dalle stesse ordinanze
a sostegno della dedotta disparità di trattamento. Per il primo di
essi, questa sussisterebbe, come effetto del divieto di esercizio
professionale in case di cura private, tra sanitari che, in ragione
della loro specializzazione, possono esercitare la libera professione
al di fuori dell’ospedale, nel loro studio privato, e sanitari, come ad
esempio chirurghi o anestesisti, che possono esercitare solo
nell’ambito di strutture complesse, con il supporto di idonea
organizzazione, quali, al di fuori dell’ospedale, possono offrire solo
le cliniche private.
La Corte ritiene non sussistere sul piano normativo la prospettata
discriminazione. Invero, il legislatore offre a tutta la categoria dei
sanitari “a tempo definito” (per quelli “a tempo pieno” ovviamente il
problema non si pone) la possibilità di esercitare dentro e fuori
dell’ospedale, ferma per tutti la preclusione dell’esercizio in case di
cura private, la quale indubbiamente incide su tutte o quasi tutte le
specializzazioni, in quanto l’assistenza dalle case di cura esplicata
non si limita certo al solo settore chirurgico. Una volta che
l’amministrazione ospedaliera abbia adempiuto all’obbligo di apprestare
i prescritti ambienti, appare chiaro che ciascun sanitario, in ragione
della propria specializzazione, opererà una concreta scelta; e così,
chi può esercitare nello studio privato o a domicilio dell’ammalato,
avvertirà minor bisogno di adoperare le apposite sale dell’ospedale,
mentre il contrario si verificherà per chi abbisogni di complesse
strutture e di un lavoro di equipe. Anche qui può riscontrarsi una
eventuale disparità di mero fatto, che non assurge a violazione del
principio di eguaglianza.
Lo stesso è a dirsi per l’altra dedotta disparità di trattamento,
in seno agli ospedali attrezzati per l’esercizio intramurale della
libera professione da parte dei loro dipendenti, tra sanitari “a tempo
pieno” e sanitari “a tempo definito”, essendo ai primi, a mente del
penultimo comma dell’art. 47 del d.P.R. n. 130 del 1969 (che, peraltro,
non viene denunciato), riconosciuta una “priorità per l’esercizio
dell’attività professionale nell’ambito dell’ospedale”. In proposito
non può non considerarsi che la differenza tra le due categorie è
frutto normalmente di una libera scelta dell’interessato (salva la
prescrizione, a mente dell’art. 54 della citata legge n. 148 del 1975,
della prestazione del servizio “a tempo pieno” anche in carenza di
specifica richiesta, nel qual caso, peraltro, il sanitario verrebbe ad
appartenere obbligatoriamente proprio alla categoria che, sotto il
profilo qui considerato, si asserisce essere privilegiata); che il
sanitario “a tempo definito” può esercitare anche fuori dell’ospedale,
mentre ciò è inibito al sanitario “a tempo pieno”; infine, che ove il
sanitario “a tempo definito” (ed in particolare il chirurgo) ritenga di
non trarre vantaggio alcuno dalla riconosciutagli facoltà di esercizio
fuori dell’ospedale, l’apprestata normativa gli consente comunque di
optare per il “tempo pieno”, e in tale guisa non vedersi posposto ai
colleghi che appartengono a quest’ultima categoria.
Per tutte le considerazioni esposte in questo e nel precedente
numero, ritiene la Corte non sussistere contrasto tra la denunciata
normativa e l’art. 3 della Costituzione, sotto alcuno dei dedotti
profili.
12. – Del pari non sussiste la dedotta violazione, ad opera della
stessa normativa, del diritto al lavoro sancito dall’art. 4 della
Costituzione, per essere inibito ai medici ospedalieri “a tempo
definito” l’esercizio professionale in case di cura private.
In proposito va ricordato quanto la stessa Corte ha già avuto
occasione di affermare (sentenza n. 102 del 1968), e cioè che dal
riconoscimento sul piano costituzionale della importanza sociale del
lavoro “non consegue l’impossibilità, per il legislatore ordinario, di
dettare disposizioni che specifichino limiti o condizioni inerenti
all’esercizio del diritto… a tutela di altri interessi e di altre
esigenze sociali ugualmente fatti oggetto di protezione
costituzionale”.
Alla luce di siffatta considerazione non può ritenersi violata la
invocata norma costituzionale, per avere il legislatore stabilito, nei
confronti di soggetti cui il lavoro è già assicurato in quanto
fruenti di un rapporto di pubblico impiego, una incompatibilità volta
ad assicurare – come dianzi osservato – la maggiore possibile
efficienza all’assistenza pubblica ospedaliera, in attuazione del
principio sancito dall’art. 32 della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 43, lett. d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132
(enti ospedalieri e assistenza ospedaliera) e dell’art. 3 del d.P.R. 27
marzo 1969, n. 129 (ordinamento interno dei servizi di assistenza delle
cliniche e istituti universitari di ricovero e cura), sollevata, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, dall’ordinanza del tribunale
amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna del 26 novembre 1975;
b) dell’art. 43, lett. d ), della citata legge n. 132 del 1968,
dell’art. 3 del citato d.P.R. n. 129 del 1969, degli articoli 24 e 133
del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (stato giuridico dei dipendenti degli
enti ospedalieri), sollevata, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, dall’ordinanza del tribunale amministrativo regionale per
l’Emilia-Romagna dell’11 dicembre 1975;
c) dell’art. 133 del citato d.P.R. n. 130 del 1969 in relazione
all’art. 43, lett. d), della citata legge n. 132 del 1968, sollevata,
in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dall’ordinanza del
tribunale amministrativo regionale per la Lombardia del 7 aprile 1976;
d) dell’art. 133 del citato d.P.R. n. 130 del 1969 in relazione
all’art. 42 della citata legge n. 132 del 1968, sollevata, in
riferimento all’art. 76 della Costituzione, dall’indicata ordinanza del
tribunale amministrativo regionale per la Lombardia e dall’ordinanza
del tribunale amministrativo regionale per il Lazio dell’8 settembre
1976;
e) dell’art. 43, lett. d) della citata legge n. 132 del 1968, e
dell’art. 133 del citato d.P.R. n. 130 del 1969, sollevata in
riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione, dalle indicate
ordinanze del tribunale amministrativo regionale per la Lombardia e del
tribunale amministrativo regionale per il Lazio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 maggio 1977.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
VEZIO CRISAFULLI – NICOLA REALE –
LEONETTO AMADEI – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – ANTONINO DE STEFANO –
LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO ROEHRSSEN –
ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere