Sentenza N. 109 del 1968
Corte Costituzionale
Data generale
19/07/1968
Data deposito/pubblicazione
19/07/1968
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/07/1968
ANTONIO MANCA – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof.
COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ –
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO –
Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI –
Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI, Giudici,
del Codice penale, promossi con ordinanze emesse il 28 novembre 1966
dal pretore di Francavilla al Mare in due procedimenti penali a carico,
rispettivamente, di Baldini Renzo e di Maiomascio Franco, iscritte ai
nn. 30 e 31 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 77 del 25 marzo 1967.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 20 giugno 1968 la relazione del
Giudice Costantino Mortati;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel corso di due distinti procedimenti penali pendenti avanti la
pretura di Francavilla al Mare contro Baldini Renzo e contro Maiomascio
Franco, imputati del reato di cui all’art. 341, primo e quarto comma,
del Codice penale, per avere offeso l’onore ed il prestigio di un
pubblico ufficiale a causa e nell’esercizio delle sue funzioni
(precisamente, di un sottufficiale dei vigili urbani, il primo, e di un
sottufficiale dei carabinieri, il secondo), il difensore dell’imputato
sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 341 del
Codice penale, in riferimento agli artt. 1 e 3 della Costituzione, ed
il pretore, ravvisatane la rilevanza e la non manifesta infondatezza,
la sottoponeva alla Corte con due ordinanze identiche pronunciate in
data 28 novembre 1966. Nel provvedimento si osserva che il fatto
costitutivo del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale consiste in
azioni lesive del decoro e della libertà morale della persona offesa
le quali, ove non fossero rivolte contro un soggetto così qualificato,
realizzerebbero i reati puniti con pene molto più lievi dagli artt.
594 e 612 del Codice penale. Ora la disparità di trattamento praticata
dal legislatore nei confronti di chi offende l’onore e il prestigio di
un pubblico ufficiale rispetto a chi offende l’onore o il prestigio di
qualunque persona che non rivesta tale qualità, appare al pretore
sproporzionata, pur tenuto conto dell’esigenza di difendere il bene
costituito dal prestigio e dall’efficienza della pubblica
Amministrazione, esigenza che di tale disparità dovrebbe costituire la
giustificazione razionale.
Specialmente ove si tenga conto dell’estendersi della qualifica di
pubblico ufficiale a categorie sempre più ampie di soggetti, in
conseguenza dell’assunzione da parte dello Stato di sempre più estese
e multiformi attività in ogni campo della vita nazionale, risulta
maggiormente evidente come tale forte disparità di sanzioni privi di
ragionevolezza la disciplina vigente, e pertanto concreti una
violazione del principio di eguaglianza espresso nell’art. 3, primo
comma, della Costituzione. Il pretore lamenta infine che l’unicità
della sanzione prevista dalla norma penale renda impossibile
distinguere la parte della pena riguardante la difesa della dignità
della parte offesa da quella relativa alla tutela della pubblica
Amministrazione.
Dopo che le ordinanze sono state regolarmente notificate,
comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 25 marzo
1967, è intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio
dei Ministri, rappresentato come per legge dall’Avvocatura generale
dello Stato, il quale ha concluso per la dichiarazione di infondatezza
della questione, sottolineando come l’ipotesi criminosa di cui all’art.
341 del Codice penale, rientri nella categoria dei reati contro la
Pubblica Amministrazione e sia diretta innanzi tutto alla difesa di
quest’ultima. Sussiste perciò una diversità delle sanzioni stabilite
per questo reato rispetto a quelle irrogate per il delitto di ingiurie.
A sostegno di questo assunto, l’Avvocatura osserva che alla maggior
tutela penale di cui i soggetti rivestiti della qualità di pubblico
ufficiale vengono a beneficiare per effetto di norme come quella in
esame, corrisponde un proporzionato aggravamento della responsabilità
penale per i casi di delitti eventualmente commessi da questi stessi
soggetti, e che, se dovesse accogliersi l’argomentazione del pretore,
dovrebbero essere aboliti tutti i c.d. “reati propri”, nei quali la
qualità di pubblico ufficiale è elemento costitutivo e rispetto ai
quali sussiste una disparità di trattamento in senso inverso. Esclusa
quindi ogni violazione dell’art. 3 della Costituzione (come pure
dell’art. 1), l’Avvocatura osserva che le ulteriori argomentazioni
contenute nell’ordinanza si risolvono in considerazione estrinseche e
di mero fatto.
1. – Le due cause, attinendo allo stesso oggetto, vanno riunite e
decise con unica sentenza.
2. – La censura di incostituzionalità dell’art. 341 del Codice
penale, che l’ordinanza fa derivare dalla violazione dell’art. 1 della
Costituzione, non è fondata, dato che questo, se riconosce al popolo
l’appartenenza della sovranità, ne consente poi l’esercizio solo
“nelle forme e nei limiti della Costituzione”, e pertanto nulla da esso
può desumersi in ordine alla concreta disciplina delle situazioni
giuridiche a favore o a carico dei singoli soggetti.
Ugualmente infondata la questione sollevata si palesa se
considerata con riferimento all’art. 3. Infatti la diversità delle
sanzioni disposte nei casi di offesa all’onore e al decoro di una
persona, nelle due ipotesi previste rispettivamente dagli artt. 341 e
594 del Codice penale, trova un’ovvia giustificazione nella
eterogeneità delle fattispecie criminose in essi considerate: una
riguardante l’offesa recata ai privati cittadini, l’altra, invece,
rivolta contro chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale, e
nell’atto dell’esercizio dei poteri a lui conferiti. È chiaro che in
questo secondo caso la tutela penale dell’onore della persona fisica
titolare del pubblico ufficio, è assorbita in quella del prestigio
della pubblica Amministrazione che in essa si incarna, che viene
colpito nel momento stesso in cui la sua autorità si fa concretamente
valere, e pertanto dà luogo ad una nuova e diversa fattispecie legale.
Così essendo, non sorge il problema prospettato nell’ordinanza della
difficoltà di discriminare fra parte e parte della sanzione prevista
dall’art. 341, allo scopo di stabilire quanto della medesima riguardi
l’interesse del singolo e quanto quello della pubblica Amministrazione.
Né può dirsi che il differente trattamento dell’oltraggio
rispetto all’altro proprio dell’ingiuria divenga irrazionale per
effetto dell’eccessiva sproporzione dell’entità delle sanzioni
irrogabili nei due casi, distintamente considerati, poiché la
valutazione della congruenza fra reato e pena appartiene alla politica
legislativa, e su di essa nessun sindacato si rende possibile in questa
sede, all’infuori dell’eventualità, non verificantesi nella specie,
che la sperequazione assuma dimensioni tali da non riuscire sorretta da
ogni, benché minima, giustificazione.
Manca pertanto di ogni fondamento l’affermazione del pretore,
secondo cui la rilevata sproporzione delle sanzioni nei due casi
darebbe vita ad una categoria di cittadini fruenti di una dignità
sociale qualificata, superiore a quella della restante parte della
popolazione. Infatti si è qui in presenza del conferimento ai
pubblici funzionari di uno speciale status, in considerazione delle
attribuzioni ad essi affidata, che, se da un lato, dà titolo ad una
maggiore protezione penale, è poi fonte, dall’altro di un aggravamento
di responsabilità, come nei casi in cui la qualità di pubblico
ufficiale viene assunta ad elemento costitutivo o a circostanza
aggravante dei reati commessi giovandosi della qualità stessa.
Nessuna influenza poi sulla questione può evidentemente esercitare
la circostanza dell’ampliamento del numero degli investiti di pubbliche
funzioni, verificatosi in conseguenza del progressivo estendersi del
campo di azione dei pubblici poteri. Questa circostanza assume senza
dubbio notevole rilevanza, ma solo in base a considerazioni affidate
alle valutazioni del legislatore. È noto come la norma impugnata sia
espressione della concezione autoritaria, che sta alla base del Codice
vigente, e si differenzi da quelle del Codice penale del 1889, sia per
l’aggravamento delle pene, e sia per la eliminazione, oltreché della
norma che faceva venir meno la punibilità dell’offensore allorché il
pubblico ufficiale avesse ecceduto i limiti delle proprie attribuzioni,
anche dell’altra dell’art. 194 che colpiva con pene minori che non nei
restanti casi l’oltraggio diretto contro un agente della forza
pubblica.
La commissione ministeriale, nominata nel 1945, per la riforma del
Codice penale, aveva proposto di fare rivivere la norma per ultimo
ricordata. La seconda Commissione ministeriale, nominata nel 1956,
lasciò cadere siffatta proposta, ma invece ne avanzò un’altra che,
più opportunamente, prevedeva, oltre all’eliminazione del minimo della
pena edittale, anche l’introduzione di una figura attenuata di reato
qualora il fatto oltraggioso risulti di lieve entità, così da
richiedere solo una pena pecuniaria. Norma questa che, ampliando il
potere discrezionale del giudice, renderebbe superflua ogni più
particolare statuizione legislativa perché consentirebbe all’organo
decidente di adeguare, di volta in volta, la sanzione alla grande
varietà dei casi che ad esso si presentano e lo sottrarrebbero così
all’imbarazzo, assai spesso determinato dalla rigidezza delle attuali
disposizioni.
Compete al legislatore decidere se non corrisponda all’attuale
stato della coscienza sociale ed allo spirito informatore della
Costituzione repubblicana l’esigenza di modificare nei sensi proposti
una disciplina legislativa, come quella in esame, che troppo risente
dell’ideologia del regime dal quale ebbe origine.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 341 del Codice penale, in riferimento agli artt. 1 e 3 della
Costituzione, sollevata con le ordinanze dal pretore di Francavilla al
Mare del 28 novembre 1966.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.
ALDO SANDULLI – ANTONIO MANCA –
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI.