Sentenza N. 119 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
23/11/1967
Data deposito/pubblicazione
23/11/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/11/1967
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI –
Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO
MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott.
LUIGI OGGIONI, Giudici,
del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7 novembre
1941, n. 1360 (legge mineraria), promosso con ordinanza emessa il 14
giugno 1966 dal Tribunale di Montepulciano nel procedimento civile
vertente tra Rossi Galliano e la Società acque radioattive del Bagno
Santo di Sarteano, iscritta al n. 195 del Registro ordinanze 1966 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 12
novembre 1966.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione di Rossi Galliano;
udita nell’udienza pubblica del 18 ottobre 1967 la relazione del
Giudice Nicola Jaeger;
uditi l’avv. Ignazio Orecchio, per il Rossi, ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Piero Peronaci, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Con ordinanza emessa il 14 giugno 1966 dal Tribunale di
Montepulciano, nel procedimento civile vertente tra Rossi Galliano e la
Società acque radioattive del Bagno Santo di Sarteano, veniva rimessa
a questa Corte la questione di legittimità costituzionale degli artt.
10 e 19 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7
novembre 1941, n. 1360 (cosiddetta “legge mineraria”), limitatamente
alla parte in cui viene imposto un pati a carico dei proprietari dei
terreni compresi nel perimetro di ricerca e di concessione mineraria,
in relazione all’art. 42, terzo comma, della Costituzione.
L’ordinanza è stata notificata alle parti in causa ed è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica a norma di legge.
In detta ordinanza il Tribunale ha escluso che la causa ad esso
sottoposta, concernente i provvedimenti amministrativi con i quali era
stato concesso alla Società acque radioattive del Bagno Santo di
Sarteano il permesso di ricerca su un terreno di proprietà del
Rossi, potesse essere risolta alla stregua della legge 16 luglio 1916,
n. 947, e del relativo regolamento di esecuzione 28 settembre 1919, n.
1924, in quanto tale normativa darebbe disciplina unicamente alla
ipotesi di apertura, di esercizio di stabilimenti termali, nonché di
vendita delle acque minerali naturali ed artificiali, prescrivendo che
in tali casi è necessario, rispettivamente, un provvedimento
autorizzativo del prefetto e del Ministro dell’interno per l’esercizio
delle predette attività.
Il Tribunale ha ritenuto pertanto che il caso in questione rientri
nella disciplina normativa del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato
dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360, che ha quale oggetto, tra
l’altro, le concessioni di coltivazione e di ricerca delle acque
minerali o termali (art. 2, secondo comma, lett. E), ed ha sollevato la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 19 di tale
legge, i quali, rispettivamente, da un lato imporrebbero un pati ai
proprietari dei fondi compresi nel perimetro al quale si riferisce il
permesso di ricerca e la concessione di coltivazione, e quindi
comprimerebbero il diritto di proprietà dei terreni compresi nel
perimetro, dall’altro non prevederebbero per tale sacrificio alcun
indennizzo.
L’ordinanza aggiunge che la questione sollevata è rilevante agli
effetti della decisione della causa principale in corso, in quanto, ove
si ritenesse che è illegittima la mancata previsione dell’indennizzo
per la soppressione di una facoltà contenuta nel diritto soggettivo di
proprietà, verrebbe meno la norma che attribuisce al concessionario il
diritto di compiere lavori di ricerca e di coltivazione nel fondo
compreso nel perimetro di concessione. Sulla base di un confronto fra
le norme denunciate e l’art. 42, terzo comma, della Costituzione, il
Tribunale conclude infine che la questione non può considerarsi
manifestamente infondata.
Nel giudizio davanti a questa Corte si sono costituiti il signor
Galliano Rossi ed il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
Nelle deduzioni depositate in cancelleria la difesa del Rossi
premette di non condividere il convincimento del tribunale di
Montepulciano circa l’applicabilità al caso concreto della legge
mineraria, trattandosi di una sorgente, regolata “da secoli” come
acqua pubblica, che sarebbe divenuta oggetto di concessione mineraria,
con costituzione di un ampio comprensorio, ma sarebbe poi stata invece
utilizzata per alimentare uno stabilimento balneare, cioè per scopi
che nulla hanno a che vedere con la legge mineraria.
Condivide invece la conclusione, secondo la quale si è in presenza
di un caso di espropriazione, e si richiama ad una sentenza di questa
Corte (n. 6 del 20 gennaio 1966), nella quale venne chiarita l’ampiezza
di tale concetto.
Sostiene poi che, nel caso in questione, la limitazione alla
proprietà privata non deriverebbe soltanto dai due articoli denunciati
dal tribunale, perché questi si riconnetterebbero tanto alle norme che
istituiscono il comprensorio, quanto a quella che dichiara di pubblica
utilità tutte le opere successive. Conclude quindi augurandosi che, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 27 della legge n. 87 dell’11 marzo
1953, la Corte estenda la dichiarazione di illegittimità
costituzionale anche alle altre norme della legge mineraria da essa
citate (artt. 18, lett. C, e 32, primo comma).
L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato un atto di
intervento, nel quale si osserva che i limiti imposti alla proprietà
privata con gli artt. 10 e 19 della legge mineraria hanno lo scopo di
assicurare una funzione sociale, quale è la valorizzazione del
sottosuolo minerario, in armonia con il precetto sancito dal secondo
comma dell’art. 42 della Costituzione.
In quanto al disposto degli articoli citati, si rileva che la
limitazione alla proprietà privata nel corso della ricerca ha
carattere solo temporaneo, mentre nella ipotesi che occorra invece dar
corso ad opere permanenti, queste non si sottraggono alla regola della
dichiarazione di pubblica utilità ed alla conseguente procedura di
normale espropriazione ai sensi della legge 25 giugno 1865, n. 2359.
Infine, l’Avvocatura dello Stato richiama l’attenzione sul fatto
che l’art. 10 citato sopra stabilisce l’obbligo del ricercatore di
prestare cauzione e di risarcire i danni causati dai lavori di ricerca,
istituendo anche una rapida procedura per il deposito di una congrua
somma a titolo provvisorio, mentre l’art. 19 fa epressamente salvo il
diritto alle indennità spettanti ai proprietari per i danni subiti in
conseguenza della concessione.
Entrambe le parti hanno ribadito le proprie argomentazioni,
richiamando anche altre decisioni della Corte, e insistito nelle
conclusioni già formulate, tanto nelle rispettive memorie depositate
nella cancelleria della Corte il 5 ottobre 1967, quanto nella
discussione in pubblica udienza.
Come risulta dalla esposizione dei fatti della causa, il Tribunale
di Montepulciano ha ritenuto di dover fare richiamo alla disciplina
normativa contenuta nel R.D. n. 1443 del 29 luglio 1927, modificata
poi dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360, ed ha limitato l’ambito delle
questioni sottoposte al giudizio della Corte costituzionale agli artt.
10 e 19 della legge stessa, osservando che la mancata previsione di un
indennizzo, in relazione alla soppressione di una facoltà contenuta
nel diritto di proprietà, potrebbe importare la illegittimità
costituzionale della norma, la quale prevede il diritto di compiere
lavori di ricerca e di coltivazione nel fondo compreso nel perimetro di
concessione.
La Corte ha già avuto altre occasioni di pronunciarsi in materia
di legislazione mineraria, precisando gli aspetti di pubblico interesse
inerenti alla ricerca ed alla coltivazione delle cave e delle miniere,
in relazione ai quali aspetti essa ha affermato che, pur dovendosi
considerare sproporzionata una sottrazione originaria del bene al
proprietario del fondo, si deve ritenere congrua l’assegnazione di un
limite al diritto di questi, e che, mentre si può riconoscere che
l’iniziativa privata potrebbe bene attendere alla realizzazione
dell’interesse generale, tale diritto convive tuttavia con un potere
della pubblica amministrazione, così che la coltivazione delle cave è
assoggettata alla vigilanza di questa. Tale vigilanza, prescritta
rispetto alla coltivazione delle miniere (art. 29 della legge citata),
è infatti estesa anche alle cave (art. 45, ultimo comma), e può pure
importare un intervento diretto a tutela dell’interesse generale, senza
il tramite del procedimento tipico di espropriazione, qualora venga
meno la fiducia nel proprietario del fondo (sentenza n. 20 del 28
febbraio 1967).
In quanto alla salvaguardia dei diritti del proprietario stesso, la
Corte aveva pure avuto occasione di esprimere il proprio pensiero,
affermando che la legge può non disporre indennizzi quando i modi ed i
limiti che essa segna, nell’ambito della garanzia accordata dalla
Costituzione, attengano al regime di appartenenza o ai modi di
godimento dei beni in generale, o di intere categorie di beni, ovvero
quando essa regoli la situazione che i beni stessi presentino rispetto
a beni o ad interessi della pubblica amministrazione, sempre che la
legge sia destinata alla generalità dei soggetti, i cui beni si
trovino in date situazioni, e salva la possibilità di accertare con
singoli atti amministrativi l’esistenza di tali situazioni rispetto a
singoli soggetti ed a singoli beni.
La Corte stessa precisava però, che se le imposizioni non abbiano
carattere generale ed obiettivo, e comportino un sacrificio per singoli
soggetti e gruppi di soggetti, si prospetta il problema
dell’indennizzabilità; ed aggiungeva che si deve attribuire carattere
espropriativo anche all’atto, il quale imponga tali limitazioni da
svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo tanto
profondamente sul godimento del bene, da renderlo inutilizzabile in
rapporto alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una
penetrante incisione del suo valore di scambio (sentenza n. 6 del 19
gennaio 1966).
Tali principi fondamentali consentono di risolvere le questioni
sollevate dal tribunale di Montepulciano con l’ordinanza di rimessione
che ha dato luogo al presente giudizio, ove si interpretino le norme
contenute negli artt. 10 e 19 della legge mineraria alla stregua della
giurisprudenza della Corte.
È da escludere anzitutto che nella fase preliminare di ricerca,
regolata dagli articoli 10 e seguenti della legge, si attui una
espropriazione dei beni in questione, come ha sostenuto la difesa del
Rossi; e si deve ritenere esatta l’asserzione della Avvocatura generale
dello Stato, che le limitazioni alla proprietà privata stabilite dalle
citate disposizioni della legge mineraria hanno carattere non
permanente, ma temporaneo, posto che nella ipotesi in cui occorra dare
corso ad opere permanenti dovranno applicarsi le normali procedure
previste dalla legge di espropriazione 25 giugno 1865, n. 2359, la
quale è espressamente richiamata dall’art. 32, primo comma, del R.D.
29 luglio 1927, n. 1443, in questione.
È anche vero che il citato art. 10, dopo avere disposto che i
possessori dei fondi compresi nel perimetro al quale si riferisce il
permesso non possono opporsi ai lavori di ricerca, soggiunge che “è
fatto obbligo al ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori
di ricerca” e che “il proprietario del terreno soggetto alle ricerche
ha facoltà di esigere una cauzione”, la cui misura può essere
concordata fra le parti o, in mancanza di accordo, stabilita d’ufficio,
provvisoriamente dall’ingegnere capo del distretto minerario, sentito,
ove occorra, l’avviso di un perito; e in tal caso il ricercatore potrà
dare esecuzione ai lavori solo dopo avere eseguito il deposito.
In quanto all’art. 19 della suddetta legge mineraria si deve
osservare poi che esso, integrando le disposizioni del primo comma
dell’art. 10 per quanto concerne le attività successive al decreto di
concessione, stabilisce che “i possessori dei fondi non possono opporsi
alle operazioni occorrenti per la delimitazione della concessione, alla
apposizione dei termini relativi ed ai lavori di coltivazione, “salvo
il diritto alle indennità spettanti per gli eventuali danni”.
Si possono ricordare del resto anche altre disposizioni della
stessa legge, che offrono ulteriori garanzie agli interessati, come
l’art. 31, a norma del quale “il concessionario è tenuto a risarcire
ogni danno derivante dall’esercizio della miniera” e “per quanto
riguarda la prestazione di eventuale cauzione, si osservano le norme
stabilite nell’art. 10 (riferito sopra)”.
Se si confrontano poi le disposizioni vigenti in materia con i
principi generali definiti dalla Corte nelle sentenze sopra citate,
appare evidente che tali disposizioni non si possono considerare
costituzionalmente illegittime, in quanto risultano sufficienti a
contemperare l’interesse pubblico con quello dei privati.
L’obbligo del ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori
e, a garanzia della osservanza di tale dovere, di prestare una adeguata
cauzione prima ancora dell’inizio dei lavori stessi, sembra tutelare
sufficientemente il titolare del fondo, il quale deve pure ammettere
che la ricerca e la coltivazione di giacimenti, la cui scoperta
potrebbe recare notevoli utilità all’economia nazionale, non possono
essere rimesse esclusivamente alla sua discrezione. Si deve ricordare
infine che, a norma dell’art. 45 della citata legge mineraria, le cave
e le torbiere sono lasciate in disponibilità del proprietario del
suolo e che l’ingegnere capo del distretto minerario può dare ad altri
la concessione relativa solo quando il proprietario non intraprenda la
coltivazione e non vi dia sufficiente sviluppo, previa la prefissione
di un termine e la scadenza infruttuosa di questo. Contro tale
provvedimento è poi ammesso il ricorso gerarchico al Ministro per
l’industria, il commercio e l’artigianato, il quale decide sentito il
Consiglio superiore delle miniere.
Il fatto, infine, che al proprietario viene corrisposto il valore
degli impianti, dei lavori utilizzabili e del materiale estratto
disponibile presso la cava o la torbiera, conferma la conclusione che
il legislatore non ha inteso affatto trascurare gli interessi dei
titolari dei fondi, ma solo contemperarli con quelli generali, che non
possono evidentemente essere del tutto subordinati ai primi.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 10 e 19 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla
legge 7 novembre 1941, n. 1360 (legge mineraria), in riferimento
all’art. 42, terzo comma, della Costituzione, proposta dal Tribunale
di Montepulciano con ordinanza 14 giugno 1966.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 novembre 1967.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.