Sentenza N. 119 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
08/07/1969
Data deposito/pubblicazione
08/07/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
30/06/1969
MICHELE FRAGALI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ –
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO –
Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA –
Prof. VINCENZO MICHELE TRTMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott.
NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
comma, del Codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il
18 aprile 1968 dal pretore di Livorno nel procedimento penale a carico
di Lottini Luana ed altri, iscritta al n. 95 del Registro ordinanze
1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del
13 luglio 1968.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 3 giugno 1969 la relazione del
Giudice Ercole Rocchetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Pretore di Livorno, con decreto penale 10 febbraio 1968,
condannava Lottini Luana, Sammuri Mario e Baldi Giovanna alla pena di
lire 10.000 di ammenda ciascuno perché colpevoli della contravvenzione
prevista dall’art. 731 del Codice penale, in relazione all’art. 175 del
regio decreto 5 febbraio 1928, n. 577 per avere, i primi due, quali
genitori esercenti la patria potestà, e la terza, quale datrice di
lavoro, del minore Sammuri Roberto, omesso di far frequentare allo
stesso la scuola d’obbligo.
I tre imputati proponevano opposizione, limitando ogni loro
richiesta alla sola concessione dei benefici di legge. Espletato il
dibattimento, il pretore, con ordinanza 18 aprile 1968, dopo aver
osservato che, all’esito di esso, si profilava la concreta possibilità
della affermazione della responsabilità penale degli imputati, con
l’accoglimento però della loro unica istanza relativa alla concessione
dei suddetti benefici, rilevava che, nonostante tale pronunzia a loro
favorevole, essi avrebbero dovuto essere tuttavia condannati anche alle
spese successive alla opposizione, ai sensi dell’art. 510, comma
secondo, ultima parte. E poiché ciò non gli sembrava né logico né
equo, egli proponeva d’ufficio, ritenendola rilevante e non
manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale
di tale norma, con riferimento agli artt. 24, comma secondo, e 3 della
Costituzione.
In relazione al primo profilo di legittimità il giudice a quo
osserva che la norma impugnata costituisce un grave ostacolo
all’estrinsecazione del diritto di difesa, in quanto, relativamente
alle opposizioni che non si risolvono nella richiesta di una totale
assoluzione, il condannato ha la certezza, anche nel caso di totale
accoglimento dei motivi di opposizione, di dover subire la sanzione
della condanna al pagamento delle ulteriori spese del procedimento.
Circa la violazione del principio di eguaglianza, nell’ordinanza si
afferma che la opposizione al decreto penale, sebbene non possa
considerarsi in senso stretto una forma di impugnazione, presenta la
stessa ratio legis delle impugnazioni propriamente dette, per le quali
vige una regola ben diversa, in quanto è per esse sufficiente una
qualsiasi reformatio in melius del provvedimento impugnato per
escludere la condanna alle spese.
L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, veniva pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del 13 luglio 1968.
Si costituiva in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato che, con deduzioni
depositate in cancelleria il 31 luglio 1968, chiedeva che venisse
dichiarata insussistente la dedotta illegittimità costituzionale.
In ordine alla violazione dell’art. 24, l’Avvocatura, dopo aver
richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale per quanto
concerne il diritto di difesa e l’istituto del giudizio per decreto,
rileva che la struttura del procedimento di opposizione rende
impossibile qualsiasi raffronto del dispositivo della sentenza con
quello del decreto, perché, proposta che sia l’opposizione, seguita
dalla comparizione dell’opponente, il decreto e la pena con esso
irrogata cessano di esistere e quindi di produrre qualsiasi effetto
giuridico: di guisa che il giudice, nell’emanare la sentenza, non è
vincolato ai motivi della opposizione e all’opposizione stessa perché,
con la decisione, egli non accoglie o rigetta l’opposizione proposta,
ma decide semplicemente in via ordinaria il processo.
Quanto alla violazione del principio di eguaglianza, l’Avvocatura
osserva che, sia o non sia la opposizione a decreto penale un mezzo di
impugnazione, – il che, nel caso non occorre risolvere – è certo che
sussiste una netta differenziazione nella disciplina positiva dei due
istituti che denunzia la mancanza del presupposto della identità delle
situazioni giuridiche, e quindi la insussistenza di qualsiasi
giustificazione alla pretesa esigenza costituzionale della parità di
trattamento.
Secondo il pretore di Livorno, la norma contenuta nell’art. 510,
comma secondo, ultima parte, del Codice di procedura penale sarebbe
costituzionalmente illegittima perché pone a carico dell’opponente a
decreto penale le spese del giudizio di opposizione anche quando la
sentenza che conclude quel giudizio con la condanna dell’imputato,
contenga statuizioni per lui più favorevoli di quelle del decreto
opposto. In particolare, per quanto attiene al contrasto con l’art. 24
della Costituzione, la certezza della condanna alle spese
determinerebbe “un’ingiustificata compressione del diritto di difesa
dell’imputato”, il quale ritenga di opporsi solo parzialmente alle
sanzioni comminate nel decreto penale; questa situazione violerebbe
altresì il principio costituzionale di eguaglianza, in quanto porrebbe
in evidenza la disparità di trattamento cui, per la norma impugnata,
è sottoposto l’opponente, rispetto a quello riservato all’imputato che
propone impugnazione il quale, invece, ai sensi dell’art. 213 del
Codice di procedura penale, è esonerato dal pagamento delle spese nel
caso di parziale accoglimento di essa.
Tutto il ragionamento del pretore di Livorno si fonda sulla
ritenuta equivalenza tra l’opposizione al decreto e le impugnazioni in
genere “stante la eadem legis ratio”, secondo si legge nell’ordinanza.
Per giungere a quelle conclusioni, il giudice a quo si ispira
evidentemente a una delle teoriche espresse dalla dottrina sulla natura
giuridica dell’opposizione a decreto penale, che si discute se sia
mezzo d’impugnazione, o di gravame, o sia mezzo volto soltanto alla
ricusazione di un giudizio sommario.
La Corte considera invece irrilevante, ai fini della risoluzione
della questione di legittimità proposta dal pretore di Livorno, ogni
indagine volta ad accertare la natura giuridica dell’opposizione a
decreto penale, ritenendo del tutto sufficiente (per concludere in
merito ad essa) l’esame delle disposizioni del codice di procedura
penale relative alla struttura del giudizio di opposizione.
Risulta dagli artt. 509 e 510 del Codice di procedura penale che
l’opposizione, seguita dalla comparizione dell’imputato, produce la
“revoca” del decreto. Dal che risulta altresì, secondo la Corte ebbe
già a rilevare nelle sentenze nn. 170 del 1963 e 27 del 1966, che il
giudizio che segue all’opposizione è giudizio che si svolge in primo
grado di giurisdizione.
E sembra ovvio alla Corte che, se il giudizio di opposizione,
revocato che sia il decreto, si svolge in primo grado, debbano ad esso
applicarsi tutte le regole proprie di quel grado, compresa quella sulla
condanna nelle spese che, per l’art. 488, comma primo, del Codice di
procedura penale, consegue in ogni caso alla condanna dell’imputato.
Perciò la sentenza in giudizio di opposizione a decreto penale,
anche se contiene statuizioni più favorevoli di quelle del decreto
revocato, ma al quale ogni riferimento, stante l’avvenuta revoca, non
può aver più luogo, purché non termini con la totale assoluzione
dell’imputato, è sentenza di condanna che, ai sensi del già citato
art. 488, primo comma, importa appunto la condanna alle spese.
Queste considerazioni risolvono entrambe le questioni proposte
nell’ordinanza, senza che occorra aggiungere altro, almeno per quanto
riguarda il secondo motivo, che solleva l’eccezione di
incostituzionalità, con riferimento all’art. 3 della Costituzione,
bastando per esso osservare che il giudizio sulla situazione ed
equivalenza circa le norme sulle spese, va effettuato raffrontando
l’art. 510, comma secondo, ultima parte, con l’art. 488, comma primo, e
non già, come nell’ordinanza, con l’art. 213, comma primo del codice
di procedura penale.
Quanto all’altra questione, sollevata con riferimento all’art. 24,
comma secondo, della Costituzione, alla considerazione, già di per sé
rilevante, attinente al grado del giudizio, può aggiungersi che la
previsione della condanna nelle spese non può per l’opponente
rappresentare una forma di coercizione che renda per lui oltremodo
gravoso l’esercizio di quel diritto. Egli sa che, come penalmente
responsabile, una condanna nelle spese dovrà pur sopportare, perché
essa consegue naturalmente alla condanna cui dà luogo il suo illecito
comportamento. E se è vero che la legge (arg. art. 510, comma secondo,
ultima parte, del cod. proc. pen.) addossa a lui, oltre a quelle del
giudizio di opposizione, anche (in parte) le spese dei decreto
revocato, eliminata la tassa di decreto non più percepibile a causa
della revoca di esso; è altresì vero che nel complesso trattasi di
oneri la cui modestia non può incidere sulle decisioni che egli
intenda assumere in merito alla sua difesa più di quanto, almeno, ciò
non accada in ogni altro tipo di giudizio.
E va ricordato che la Corte, nelle sentenze 113 del 1963 e 80 del
1966, sul problema delle spese giudiziali in rapporti al diritto di
difesa, ha escluso che tali oneri possano rappresentare un ostacolo
all’esercizio di quel diritto, ove essi siano, come nel caso,
razionalmente collegati al processo e siano di tale misura da non
rendere oltremodo gravoso lo svolgersi delle attività processuali.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
proposta con l’ordinanza 18 aprile 1968 del pretore di Livorno e
relativa all’art.510, comma secondo, ultima parte, del Codice di
procedura penale, in riferimento agli artt. 24, comma secondo, e 3
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 30 giugno 1969.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – ANGELO DE
MARCO – ERCOLE ROCCHETTI – ENZO
CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – PAOLO ROSSI.