Sentenza N. 125 del 1977
Corte Costituzionale
Data generale
04/07/1977
Data deposito/pubblicazione
04/07/1977
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/07/1977
OGGIONI – Dott. NICOLA REALE – Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO
GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott.
MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA –
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI, Giudici,
della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (Norme sui procedimenti e giudizi di
accusa), promosso con ordinanza emessa il 7 maggio 1977 dalla Corte
costituzionale, nel procedimento penale a carico di Gui Luigi ed altri,
iscritta al n. 248 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 134 del 18 maggio 1977.
Visti gli atti di costituzione di Vittorio Antonelli, Maria Fava,
A.L.D.O., Duilio Fanali. Camillo Crociani, Ovidio
Lefebvre d’Ovidio, Luigi Olivi, e del Collegio dei Commissari di
accusa, nelle persone del prof. avv. Alberto Dall’Ora, del prof.
Marcello Gallo e del prof. Carlo Smuraglia, nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 giugno 1977 il Giudice relatore
Leonetto Amadei;
uditi l’avv. Adolfo Gatti per Vittorio Antonelli, L’avv. Paolo
Barraco per Maria Fava, L’avv. Giuliano Vassalli per A.L.D.O., L’avv. Rinaldo Taddei per Duilio Fanali, gli avvocati
Giovanni Cassandro e Pietro Nuvolone per Camillo Crociani, l’avv.
Alfredo Angelucci per Luigi Olivi, il prof. Marcello Gallo per il
Collegio dei Commissari di accusa, e il sostituto avvocato generale
dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Con la relazione, approvata dalla Commissione inquirente per i
procedimenti di accusa il 10 febbraio 1977 e presentata al Parlamento
l’11 febbraio, veniva proposta allo stesso Parlamento in seduta comune
la messa in stato di accusa del senatore Luigi Gui e del deputato Mario
Tanassi nella loro qualità di Ministri della Difesa, nonché di Duilio
Fanali, Bruno Palmiotti, Ovidio Lefebvre d’Ovidio, A.L.D.O., Camillo Crociani, Vittorio Antonelli, Luigi Olivi, Maria
Fava, Victor Max Melca per i reati ad essi rispettivamente ascritti
commessi in relazione all’acquisto dalla Società americana Lockheed,
da parte del Governo italiano, di 14 aerei C-130 Hercules.
Nella seduta comune del Parlamento, iniziata il 3 e terminata l’11
marzo 1977 dopo l’esito della votazione, veniva approvata la messa in
stato di accusa dei due Ministri Luigi Gui e Mario Tanassi e,
successivamente, con altra votazione, la messa in stato di accusa di
tutti gli altri imputati. Infine il 14 marzo 1977 il Presidente della
Camera comunicava al Presidente della Corte costituzionale i capi di
imputazione per i singoli imputati posti in stato di accusa. E
precisamente:
a) Gui, Tanassi, Fanali e Palmiotti imputati del reato di cui agli
artt. 110 e 319 ultima parte cpv. n. 1 del codice penale.
b) Lefebvre d’Ovidio Ovidio e L.D.O.A. imputati
del reato di cui agli artt. 110 e 640 cpv. n. 1 del codice penale.
c) Lefebvre d’Ovidio Ovidio e L.D.O.A. imputati
del reato di cui agli artt. 110, 112, n. 1, e 321 in relazione all’art.
319, prima parte cpv. n. 1 del codice penale.
d) Crociani, Antonelli, Fava imputati di concorso nel reato di cui
al capo c).
e) Olivi e Melca imputati del reato di cui agli artt. 110, 112, n.
1, 321 in relazione all’art. 319, prima parte cpv. n. 1 del codice
penale.
Per tutti in Roma dal settembre 1968 al novembre 1971.
Contemporaneamente si procedeva alla nomina dei Commissari di
accusa.
Notificato l’atto d’accusa agli imputati veniva convocata per il
giorno 28 marzo la Corte costituzionale per l’estrazione a sorte dei
nomi dei 16 giudici aggregati e dei quattro supplenti ai sensi
dell’art. 135, ultimo comma, Cost. e degli artt. 6 e 7 delle Norme
integrative dei giudizi di accusa (27-11-1962. In questa sede, gli
avvocati di L.D.O.A. e Ovidio deducevano la
illegittimità costituzionale dell’art. 16 e, per riflesso, della
intera normativa contenuta nella legge 25 gennaio 1962, n. 20 in
riferimento agli artt. 3. 24, 25, 100, 101, 108 e 111 della
Costituzione.
La Corte costituzionale, con sua ordinanza, emessa nella stessa
udienza, rilevava che essa, in sede di sorteggio dei giudici aggregati,
era abilitata ad esaminare questioni di legittimità costituzionale di
norme regolanti le relative operazioni mentre le questioni proposte non
riguardavano questa materia per cui le dichiarava, allo stato,
inammissibili.
In seguito, nella riunione in camera di consiglio del 4 maggio
1977, le stesse ed altre questioni venivano proposte alla Corte
integrata che, uditi anche i Commissari di accusa, con l’ordinanza n. 2
del 7 maggio 1977 accoglieva parzialmente le istanze medesime
disponendo la remissione degli atti alla Corte costituzionale nella sua
composizione ordinaria per la decisione delle questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 16 e 27 della legge 26 gennaio 1962, n. 20,
per contrasto con gli artt. 90, 96, 134 Cost. in relazione anche agli
artt. 3, primo comma, 25, primo comma, e 102, commi primo e secondo,
della medesima Costituzione. Ordinava altresì la sospensione del
procedimento penale nei confronti di Luigi Gui ed altri.
L’ordinanza veniva regolarmente notificata a tutti gli imputati, ai
Commissari di accusa e al Presidente del Consiglio dei ministri e
veniva inoltre comunicata ai Presidenti della Camera e del Senato.
Nei vari atti di costituzione delle parti, dei Commissari d’accusa
e dell’Avvocatura dello Stato, venivano prospettate le seguenti tesi:
– l’avv. Vassalli sostiene che di fronte alla mera opportunità di
un simultanens processus si debbono opporre dei principi inviolabili
quali il diritto di difesa, l’indipendenza del giudice, il diritto ad
un controllo di legittimtà: tutti quanti, principi non solo
inviolabili ma preminenti che costituiscono la base dell’ordinamento
repubblicano.
Secondo lo stesso avv. Vassalli la competenza della Corte a
conoscere dei reati dei ministri è stata disposta esclusivamente
razione subjecti; si tratta di una giurisdizione privilegiata
giustificata dalla esigenza che i politici siano giudicati in sede
politica. E pertanto non possono essere sottoposti al giudizio della
Corte soggetti che politici non sono ed ai quali vengono così
sottratte inviolabili garanzie comuni a tutti gli altri cittadini.
– L’avv. Angelucci sostiene: a) che la giurisdizione penale
costituzionale non può essere esercitata altro che nei confronti dei
soggetti indicati tassativamente dagli artt. 90, 96, 134 Cost.; b)
L’art. 27 quando parla di reati connessi diversi da quelli previsti
negli artt. 90 e 96 Cost. e non compresi nell’atto di accusa, si
riferisce a reati commessi dal Presidente della Repubblica o dai
Ministri al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni. Ed infatti
l’art. 35 della legge n. 20 ha abrogato l’art. 43 della legge n. 87 del
1953 che parlava di reati connessi “da chiunque commessi” ed inoltre
l’art. 27 si riferisce certamente a soggetti politici perché, facendo
riferimento all’art. 1 della legge n. 20 non richiede la autorizzazione
necessaria per l’esercizio dell’azione penale; c) nessun rilievo poi ha
“il fatto che si tratti di reati bilaterali… poiché il principio
dell’ordine e della coerenza nelle decisioni di cause connesse non ha
carattere assoluto essendo non infrequentemente previsti i casi di
giudizi autonomi ed indipendenti (ad esempio giudizi in sede penale ed
in sede civile di un medesimo fatto)”; d) manca nella Corte
costituzionale integrata ogni garanzia di imparzialità essendo i suoi
componenti in maggioranza di estrazione politica.
– L’avv. Gatti sostiene: a) la violazione degli artt. 96 e 134
Cost. che soggettivamente ed oggettivamente sono limitati ad una
specifica categoria di fatti e di persone; b) l’istituto della
connessione non possiede la capacità di determinare l’effetto
processuale di estendere la competenza degli organi della giustizia
politica anche a soggetti privi della qualità ministeriale;
c) la riunione o la separazione dei procedimenti sono legate ad una
assoluta discrezionalità; d) la Corte costituzionale integrata è
giudice speciale e quindi la giustizia politica non può essere
ampliata suoi contenuti; e) gli artt. 16 e 27 contrastano anche con
l’art. 3 Cost. perché:
1) prevedono per situazioni identiche trattamenti difformi;
2) non sussistono motivi costituzionalmente apprezzabili che
giustifichino la attrazione dei laici nel giudizio contro politici.
– Gli avv.ti Cassandro, Nuvolone e Revel sostengono la violazione
degli artt. 90, 96 e 134 Cost. perché il contenuto di questi articoli
è perentorio sia per il carattere eccezionale dell’istituto sia
perché trattandosi di norme contenute in una Costituzione rigida, essa
pone al legislatore ordinario (come nella specie) limiti e confini
invalicabili.
– L’avv. Taddei lamenta la mancanza del doppio grado di
giurisdizione e della impugnabilità in Cassazione: inoltre la
violazione del principio del giudice naturale che, per i soli Ministri,
è rappresentato dal Parlamento e dalla Corte integrata. Sostiene
infine anche la incostituzionalità dell’art. 15 della legge n. 20.
– L’avv. Barraco sostiene sia la violazione degli articoli 96 e 134
Cost. sia quella dell’art. 25 Cost. non essendo, la Corte integrata,
il giudice naturale per gli imputati laici.
– L’avv. De Luca sostiene: a) la violazione dell’art. 25 Cost.
porche la giustizia politica si esplica da organi politici, in materia
politica e solo nei confronti di soggetti politicamente qualificati; b)
la violazione dell’art. 3 perche la estensione della giurisdizione
politica ai laici comporta un trattamento uguale per situazioni
differenziate; c) la Corte costituzionale integrata non è giudice
imparziale perché è un giudice speciale nel quale sussistono vincoli
di soggezione formale e sostanziale con altri organi; non sussiste la
inamovibilità dei giudici, non essendo predeterminata la durata
dell’ufficio e mancando la espressa previsione delle cause di
incompatibilità e non essendo prevista la ricusazione per i Commissari
della Commissione Inquirente; d) per quanto riguarda la connessione,
essendo questa facoltativa, la modificazione della competenza che ne
consegue viola il principio del giudice naturale.
– I Commissari di accusa nel loro intervento sostengono: a) che la
indicazione degli imputati laici deve considerarsi implicita negli
artt. 90, 96 e 134 Cost.; b) non si può parlare di violazione del
principio di indipendenza perché gli organi del giudizio di accusa
sono dotati di quella imparzialità che è richiesta dalla
Costituzione.
– Infine l’Avvocatura dello Stato nella sua memoria sostiene
anzitutto che ragioni storiche, letterarie e logiche fanno ritenere che
già gli artt. 96 e 134 abbiano attribuito al Parlamento e alla Corte
costituzionale integrata il potere di promuovere l’accusa e di
giudicare in materia di reati ministeriali, nei confronti non solo dei
Ministri ma anche dei loro presunti complici.
Venendo alle altre questioni di legittimità costituzionale
sollevate dall’ordinanza l’Avvocatura esclude anzitutto la violazione
dell’art. 3 perché, nella specie, l’istituto della connessione vale
proprio ad instaurare una qualche parità di trattamento tra il
Ministro accusato e gli altri imputati tenuto conto della larga
discrezionalità politica che caratterizza sia l’accusa parlamentare
sia il giudizio della Corte costituzionale.
Non si avrebbe poi violazione del diritto di difesa perché l’art.
34 della legge n. 20 del 1962, richiamando le norme del c.p.p. viene a
colmare tutti gli spazi vuoti tra le disposizioni dettate per il
procedimento di accusa: né d’altra parte il principio del doppio grado
di giurisdizione è costituzionalmente garantito.
Quanto alla indipendenza dei giudici della Corte costituzionale
integrata, essa è determinata puntualmente dagli articoli 5, 6 e 11
della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1.
Ed ancora, non può parlarsi di violazione dell’art. 111 perché la
non impugnabilità delle sentenze della Corte costituzionale trae la
sua ragion d’essere dalla posizione di sovranità che è propria della
Corte medesima ed è sancita nella Costituzione.
1. – A meglio chiarire la questione sottoposta alla Corte
costituzionale dall’ordinanza della Corte medesima nella composizione
integrata per i giudizi di accusa è da considerare, anzitutto, il
contenuto delle due norme impugnate.
L’art. 16 della legge n. 20 del 1962 stabilisce infatti che,
qualora nel corso del procedimento di accusa si abbia notizia di reati
connessi ai sensi dell’art. 45 del c.p.p., la Commissione inquirente o
il Parlamento in seduta comune possono disporre, se ritenuto
necessario, la riunione dei procedimenti (primo comma) e che
successivamente possono ordinarne la separazione qualora la ritengano
conveniente (secondo comma).
L’art. 27 della stessa legge contiene quattro diverse disposizioni:
la prima di esse è quella generale per cui “soltanto i reati compresi
nell’atto di accusa” formano oggetto di giudizio dinanzi alla Corte
costituzionale. La seconda stabilisce che, per connessione, la Corte
“può conoscere, se lo ritiene necessario, reati non compresi nell’atto
di accusa, diversi da quelli previsti dagli artt. 90 e 96 della
Costituzione”. La terza riguarda la possibilità che la Corte dichiari
la connessione per reati previsti dagli artt. 90 e 96: in tal caso deve
sospendere il procedimento e dare comunicazione della dichiarazione al
Presidente della Camera dei Deputati. Infine la quarta disposizione
stabilisce che la separazione dei procedimenti può essere ordinata
dalla Corte “in ogni momento qualora essa lo ritenga conveniente”.
La normativa così individuata viene sottoposta a giudizio di
legittimità costituzionale per la parte in cui prevede che le
competenze della Commissione inquirente, del Parlamento in seduta
comune e della Corte costituzionale nella composizione integrata si
estendano a soggetti diversi dai ministri i quali abbiano concorso nei
reati attribuiti a questi ultimi o abbiano commesso reati connessi.
Il quesito si puntualizza ulteriormente, tenendo conto che sotto il
profilo della rilevanza, non di tutte le ipotesi di connessione
previste dall’art. 45 c.p.p. interessa qui stabilire se possono
legittimamente determinare la detta estensione delle competenze della
Commissione, del Parlamento e della Corte sibbene di quelle ipotesi che
vengono in considerazione nel giudizio a quo.
2. – Fissato pertanto e individuato nei suoi limiti precisi il
quesito posto dalla ordinanza di rimessione, il primo punto da
esaminare è quello relativo alla portata e al significato degli artt.
96 e 134 della Costituzione: è evidente infatti che data la
fattispecie alla quale fa riferimento l’ordinanza, L’articolo 90 resta
estraneo alla presente questione.
Va altresì osservato che, mentre l’art. 96 specifica per quali
reati si deve procedere, l’art. 134 indica l’organo al quale è
affidato giudizio e la cui composizione è stabilita dall’ultimo comma
dell’art. 135 della Costituzione e che l’attività istruttoria che
precede, svolta dalla Commissione inquirente e dal Parlamento, ha il
suo fondamento oltre che nell’art. 96 Cost. anche e soprattutto negli
artt. 12 e 13 della legge costituzionale n. l del 1953.
3. – Una seconda osservazione che riguarda l’art. 96 è che,
contrariamente a quanto sostenuto dai difensori dei ricorrenti, in esso
prevale l’elemento oggettivo su quello soggettivo: il quale ultimo è
pur esso necessario ma non da solo sufficiente ad integrare le ipotesi
in considerazione (sent. numero 13/1975) ed infatti la messa in stato
di accusa da parte del Parlamento avviene “per reati commessi
nell’esercizio delle funzioni” proprie di un ministro o del Presidente
del Consiglio, mentre l’art. 47 dello Statuto stabiliva: “la Camera dei
Deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re”.
L’art. 96 esige cioè, per la sussistenza e la perseguibilità del
reato, non solo una determinata posizione giuridica dell’agente e in
particolare che esso sia ministro o Presidente del Consiglio, ma che
abbia commesso nell’esercizio delle funzioni ministeriali un fatto
previsto e punito dalla legge penale. Dal che discende che il processo
penale costituzionale non è strumento di garanzia personale dei
ministri ma, di più ampia ed oggettiva garanzia dell’ordinamento
costituzionale.
4. – Se è vero che la Costituzione non fa esplicito riferimento
all’istituto della connessione, ha comunque provveduto a mutarne la
efficacia per quanto riguarda quella che poteva legare reati comuni e
reati militari che, secondo l’art. 49 c.p.p., erano sempre sottoposti a
giudizio del Tribunale militare. Con la norma dell’ultimo comma
dell’art. 103 non potrà più valere quella competenza, tant’è che
con l’art. 8 della legge 23 marzo 1956, n. 167 si è sostanzialmente
modificato l’art. 264 del c.p.m.p. Non modificando invece, neppure
indirettamente, lo stesso art. 49 c.p.p. circa la connessione fra reati
di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria e quelli di
competenza dell’Alta Corte di Giustizia, ha mantenuto ferma la
attrazione da parte di quest’ultima e la sua competenza a giudicare se
pure con le precisazioni che verranno appresso indicate.
Del resto se un giudizio di accusa fosse stato promosso prima delle
leggi, costituzionale n. 1 del 1953 e ordinarie n. 87 del 1953 sulla
Corte costituzionale, e n. 20 del 1962 sui giudizi di accusa, avrebbe
la eventuale connessione di reati trovata la sua regola processuale
nell’art. 49 c.p.p. Le leggi menzionate hanno adeguato alla
Costituzione le norme sulla connessione e, seppure con espressioni
diverse, sostanzialmente esprimono lo stesso concetto.
Posto quindi che la Costituzione consente una attribuzione di
competenza per connessione, il legislatore ordinario si è orientato,
nella sua discrezionalità, a conferire agli organi della giurisdizione
penale costituzionale la competenza per connessione, sia per la
rilevanza costituzionale del bene tutelato attraverso la repressione
dei reati in esame, sia a causa delle difficoltà, a volte
irrisolubili, che comporterebbe un separato giudizio a carico dei soli
Ministri (per i quali la competenza del Parlamento e della Corte è,
ovviamente, indeclinabile).
5. – Da quanto sopra, consegue la razionalità di un meccanismo che
consenta un giudizio unitario nel caso in cui ciò sia richiesto dalla
fattispecie. Ed è ragionevole che il funzionamento di tale meccanismo
si ricolleghi non alla applicazione di una formula astratta, ma ad una
concreta scelta del giudice che valuti, caso per caso, la rispondenza o
meno della riunione ad esigenze processuali con riguardo anche a quella
della sollecita definizione del giudizio. Il che non si risolve in un
arbitrio ma rappresenta il connotato essenziale di un potere ritenuto
idoneo, se non indispensabile, alla realizzazione delle esigenze
predette.
D’altro canto è altrettanto ragionevole che, nel caso di
fattispecie plurisoggettiva, o allorché si renda altrimenti
indispensabile per l’accertamento dei reati o della responsabilità
degli imputati, la valutazione dei comportamenti con la loro verifica
processuale non sia scissa in due o più procedimenti.
6. – Non vi è dubbio quindi che la Commissione inquirente, il
Parlamento in seduta comune e la Corte costituzionale possano disporre
la riunione di procedimenti connessi e ciò a norma dell’art. 45
c.p.p. la cui operatività esplicitamente affermata dagli artt. 16 e 27
della legge n. 20 del 1962 è implicitamente presupposta, come già
innanzi detto, dallo stesso art. 96 della Costituzione.
In via generale sono da ricordare due affermazioni di questa Corte
in materia di connessione. Con la prima (sent. numero 130/1963) fu
affermato il principio che l’art. 45 c.p.p. non è da considerarsi
incostituzionale perché “la connessione è un criterio fondamentale di
attribuzione della competenza poiche provvede alla esigenza di evitare
che la cognizione distinta di più processi produca incoerenze di
decisioni o incompletezze di esame”. Con la seconda (sent. n. 10/1966)
si afferma che, nel caso della connessione “l’unicità del procedimento
è… giustificata dalla esigenza di uniformità nel giudizio
sull’accertamento del fatto e sulla sua valutazione; che è una regola
razionale di scelta legislativa, a preferenza dell’altra implicante la
separazione dei procedimenti la quale crea rischio di incoerenze e di
contrasto di decisioni, oppure soltanto di incompletezza nell’esame dei
fatti”.
7. – Osservato che l’istituto della connessione non contrasta con
l’art. 96 Cost. e seguendo l’ordine di esposizione della ordinanza di
rimessione, conviene ora esaminare se la attribuzione di giudizi alla
giurisdizione penale costituzionale per effetto di connessione violi il
precetto dell’art. 25, primo comma, Cost. e successivamente se il
simultanens processus sia tale da pregiudicare esigenze che
l’ordinamento considera preminenti.
La Corte, nell’esaminare il denunciato contrasto con l’articolo 25,
primo comma, Cost. rileva anzitutto che gli artt. 134, 135 e 137 Cost.
non prevedono una giurisdizione speciale bensì una giurisdizione
penale costituzionale esclusiva.
La Corte costituzionale integrata è, dunque, il giudice naturale
del reato di cui all’art. 96 e questo giudice precostituito per legge
ben può giudicare tutti coloro che, per il rapporto di connessione
innanzi precisato, sono legati ai soggetti indicati nel più volte
citato art. 96.
Questa Corte ha in numerose pronunce stabilito che il principio
della naturalità coincide con quello della precostituzione del giudice
che “deve ritenersi rispettato allorché l’organo giudicante sia stato
istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in
anticipo e non già in vista di singole controversie, ed altresì che
esso non risulta violato neppure nei casi per i quali la legge preveda
la possibilità di spostamenti di competenza da un giudice ad un altro,
purché anche esso precostituito, allorché siano resi necessari per
assicurare il rispetto di altri principi costituzionali, come quello
della indipendenza ed imparzialità o l’altro dell’ordine e coerenza
nella decisione di cause tra loro connesse” (sent. n. 21/1965).
Così essendo, quando sia necessaria la riunione dei procedimenti
(artt. 16 e 27) è da escludersi ogni contrasto delle citate norme con
il primo comma dell’art. 25 della Costituzione.
8. – Né profilo di contrasto con l’art. 25, primo comma, Cost. sta
nel fatto che, venuta a cadere la necessarietà della connessione, o
sopravvenute prevalenti esigenze di rapida definizione del processo,
venga restaurata la competenza del giudice originario, non sembrando
per nulla arbitrario il ripristino di quella giurisdizione, ma anzi
rispondente ai fini di giustizia.
9. – Altra perplessità espressa nel contesto dell’ordinanza
riguarda le possibili menomazioni di taluni principi costituzionali
come conseguenza della “atipicità dei giudizi di accusa” che
“costituzionalmente giustificate per i soggetti qualificati di cui agli
artt. 90, 96 e 134 della Costituzione”, con riferimento invece ad altri
soggetti “appaiono suscettibili di dare argomento per rendere più
consistente il dubbio sulla legittimità costituzionale degli artt. 16
e 27 della legge”.
Si fa riferimento agli artt. 24, secondo comma (e art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, in relazione all’art. 10, secondo comma, Cost.), 101,
secondo comma, 108, secondo comma, e 111 della Costituzione.
Per quanto riguarda l’art. 24 della Costituzione, con riferimento
all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ed in
relazione all’art. 10, secondo comma, Cost., la Corte rileva che esso
art. 6 è perfettamente rispettato sia dinanzi al Parlamento sia
dinanzi alla Corte per le norme procedurali che vengono applicate, né
d’altra parte sono state indicate una o più violazioni delle ipotesi
previste nel detto art. 6: vi è quindi piena osservanza della
Convenzione Europea.
Sulla adombrata violazione dell’art. 101, secondo comma, si osserva
che l’oggetto del giudizio di accusa contro i Ministri ed i correi può
solo riguardare “reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni”
(ministeriali), vale a dire, come già spiegato, fatti previsti e
puniti dalla legge penale comune e pertanto è solo la legge che
presiede alla sua attività.
Per quanto concerne la indipendenza (art. 108, secondo comma,
Cost.) occorre distinguere gli organi parlamentari dalla Corte
costituzionale integrata. Per i primi è da ricordare che anche la
Commissione inquirente valgono le norme che garantiscono l’assoluta
indipendenza dei membri del Parlamento: l’esercizio della funzione
senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.) e il divieto di perseguire
deputati e senatori “per le opinioni espresse e i voti dati
nell’esercizio delle loro funzioni” (art. 68 Cost.). In particolare,
poi, la legge n. 20 del 1962, mentre garantisce la rappresentanza
proporzionale dei vari gruppi parlamentari in seno alla Commissione
(art. 2), stabilisce che gli eletti possono rifiutare la nomina (art.
3) e indica le cause di incompatibilità e di astensione (art. 4). Per
quanto concerne la Corte integrata, posto che nessun dubbio viene
avanzato sulla indipendenza dei giudici costituzionali ordinari, i
giudici aggregati sono iscritti ogni nove anni in un elenco dal quale
vengono estratti a sorte i sedici che faranno parte della Corte
integrata e possono essere dichiarati decaduti qualora vengano meno i
requisiti della loro eleggibilità.
L’art. 11 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, poi,
estende ai giudici aggregati le norme sulla insindacabilità e non
perseguibilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio
delle loro funzioni (art. 5).
L’art. 25 della legge n. 20 del 1962 ha determinato anche per
questo giudizio (come per tutti gli altri giudizi penali) la facoltà
di astensione dei giudici e la possibilità che essi vengano ricusati.
La indipendenza dei giudici è quindi sotto ogni aspetto garantita
oltre che, ovviamente, affidata, come per tutti gli altri magistrati,
alla loro coscienza. Ed è appena il caso di rilevare che, nel giudizio
di accusa, è affidato alla Corte costituzionale integrata il compito
di giudicare in base alla legge. Con quanto precede è pertanto
verificata la rispondenza della normativa in esame in riferimento
all’art. 101, secondo comma, della Costituzione.
Per quanto infine riguarda l’art. 111 della Costituzione e la non
applicabilità dello stesso alle decisioni della Corte costituzionale
sia ordinaria che integrata, il principio e espressamente formulato
nell’art. 137 della Costituzione.
10. – Per quanto concerne le questioni relative agli articoli 3 e
102, primo e secondo comma, della Costituzione, è La respingere
innanzitutto la tesi che gli artt. 16 e 27 della legge n. 20 del 1962
siano in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
Infatti la Corte ha, con giurisprudenza ormai consolidata,
affermato che si ha violazione dell’art. 3 ogni qualvolta la legge,
senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini
che si trovino in eguali situazioni o eguale se in situazioni diverse.
Questa Corte ritiene di aggiungere che l’assoggettamento dei non
ministri alla giurisdizione penale costituzionale avviene dunque per le
particolarità oggettive della fattispecie ipotizzata da quella norma
(art. 96), e non può ravvisarsi disparità di trattamento purché per
i soggetti imputati di reati connessi a reati ministeriali, le norme
che disciplinano la materia vengono applicate nei confronti di tutti,
senza alcuna distinzione.
Né ha fondamento il dubbio circa la prospettata violazione del
primo e secondo comma dell’art. 102 della Costituzione.
Se è vero che “la funzione giurisdizionale è esercitata da
magistrati ordinari”, è altrettanto vero che la stessa Costituzione,
come già si è affermato nel precedente punto 7, istituisce con gli
artt. 134, 135 e 137 la giurisdizione penale costituzionale esclusiva.
Né il fatto della prevalenza numerica dei giudici aggregati
contrasta con l’art. 102, secondo comma, Cost., poiché anche nella
Corte integrata si attua la partecipazione diretta del popolo alla
amministrazione della giustizia che può richiedere, onde il suo
carattere non venga alterato, la predetta prevalenza numerica.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 16 e 27 della legge 25 gennaio 1962, n. 20, per contrasto
con gli artt. 90, 96, 134, in relazione anche agli artt. 3, primo
comma, 25, primo comma, e 102, commi primo e secondo, della
Costituzione, sollevata con l’ordinanza del 7 maggio 1977 dalla Corte
costituzionale integrata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1977.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
NICOLA REALE – LEONETTO AMADEI –
GIULIO GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO –
ANTONINO DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere