Sentenza N. 153 del 1977
Corte Costituzionale
Data generale
22/12/1977
Data deposito/pubblicazione
22/12/1977
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/12/1977
OGGIONI – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof.
LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE, Giudici,
10, 11, 12, 14 e 15 della legge 11 febbraio 1971, n. 11 e degli artt.
1, 2, 3 e 4 della legge 10 dicembre 1973, n. 814 (nuova disciplina
dell’affitto dei fondi rustici e relative modifiche), promossi con le
seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 20 febbraio 1973 dal tribunale di Ravenna,
nella controversia agraria vertente tra l’Ordine della Casa Matha e la
Federazione delle cooperative della provincia di Ravenna, iscritta al
n. 189 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 183 del 18 luglio 1973;
2) ordinanza emessa il 4 dicembre 1973 dal tribunale di Brescia,
nella controversia agraria vertente tra Manfredi Ida e Molinari
Umberto, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 1974 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 69 del 13 marzo 1974;
3) ordinanza emessa il 20 febbraio 1973 dal Consiglio di Stato –
sezione VI, nella controversia agraria vertente tra Siciliani Mario e
l’Ispettorato provinciale dell’agricoltura di Catanzaro, iscritta al n.
123 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 133 del 22 maggio 1974;
4) ordinanza emessa il 26 febbraio 1974 dal tribunale di Mantova,
nella controversia agraria vertente tra Pavesi Valentina e Lugli
Attilio ed altro, iscritta al n. 206 del registro ordinanze 1974 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 167 del 26
giugno 1974;
5) ordinanza emessa il 16 aprile 1974 dal tribunale di Mantova,
nella controversia agraria vertente tra Cimarosti Paola ed altri e
Algisi Giuseppe ed altri, iscritta al n. 252 del registro ordinanze
1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 180 del
10 luglio 1974;
6) ordinanza emessa il 4 luglio 1974 dal tribunale di Santa Maria
Capua Vetere, nella controversia agraria vertente tra Acquaviva
Francesco e Zarone Bruno ed altri, iscritta al n. 495 del registro
ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 14 del 15 gennaio 1975;
7) ordinanza emessa il 22 ottobre 1974 dal tribunale di Brescia,
nella controversia agraria vertente tra Marini Giovanni ed altro e
Rolli Giuseppe, iscritta al n. 51 del registro ordinanze 1975 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 77 del 20 marzo
1975;
8) ordinanza emessa il 20 novembre 1974 dal tribunale di Modena,
nella controversia agraria vertente tra Poppi Giuseppina e Severi
Luigi, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 1975 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 166 del 25 giugno 1975;
9) ordinanza emessa il 3 dicembre 1974 dal tribunale di Agrigento,
nella controversia agraria vertente tra Dall’Asta Eletta ed altri e
Caudiano Orazio, iscritta al n. 237 del registro ordinanze 1975 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 195 del 23
luglio 1975;
10) ordinanza emessa il 28 giugno 1975 dal tribunale di San Remo
nella controversia agraria vertente tra Tardio Marco e Capponi Rodolfo
ed altra, iscritta al n. 362 del registro ordinanze 1975 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 268 dell’8 ottobre 1975;
11) ordinanza emessa il 17 giugno 1975 dal tribunale di Sassari,
nella controversia agraria vertente tra Sechi Antonio e Fancellu
Pietro, iscritta al n. 402 del registro ordinanze 1975 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 288 del 29 ottobre 1975.
Visti gli atti di costituzione dell’Ordine della Casa Matha, di
Siciliani Mario, di Pavesi Valentina, di Cimarosti Paola ed altri, di
Zarone Bruno e Giuseppe, di Poppi Giuseppina, di Dall’Asta Eletta ed
altri, della Federazione delle cooperative della Provincia di Ravenna,
di Algisi Giuseppe e Marino, di Fancellu Pietro, e dell’Ispettorato
provinciale dell’agricoltura di Catanzaro, nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 1977 il Giudice relatore
Guido Astuti;
uditi l’avv. Salvatore Orlando Cascio per l’Ordine della Casa
Matha, l’avv. Carlo Selvaggi per Siciliani Mario, l’avv. Aldo Sandulli
per Pavesi Valentina, Cimarosti Paola ed altri e per Dall’Asta Eletta
ed altri, l’avv. Gino Mori per Poppi Giuseppina, gli avv.ti Emilio
Romagnoli e Giuseppe Di Stefano per la Federazione delle cooperative
della Provincia di Ravenna, l’avv. Emilio Romagnoli per Algisi
Giuseppe e Marino, l’avv. Guido Cervati per Fancellu Pietro, ed il
sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa per l’Ispettorato
provinciale dell’agricoltura di Catanzaro e per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Il tribunale di Ravenna nel corso di una controversia agraria
vertente tra l’Ordine della Casa Matha e la Federazione delle
cooperative della Provincia di Ravenna ha sollevato, accogliendo
l’eccezione di parte attrice, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 15, primo ed ultimo comma, e 4, terzo comma, della legge 11
febbraio 1971, n. 11, in relazione agli artt. 3 e 42 Cost., nonché
degli artt. 10, 11, 12 e 14 della stessa legge, in relazione agli artt.
3, 41, 42 e 44 della Costituzione.
Si afferma nell’ordinanza di rinvio che gli artt. 4 e 15 cit., nel
disciplinare la determinazione del canone per l’affitto dei fondi
rustici non darebbero adeguato rilievo ai miglioramenti eseguiti dal
proprietario, con conseguente violazione del principio di eguaglianza,
in quanto la posizione del proprietario che esegue miglioramenti
sarebbe uguale a quella di un proprietario assenteista, che possa già
godere del canone massimo per l’esistenza di colture di pregio,
consentite dalla fertilità del terreno, o per l’adozione da parte
della competente Commissione tecnica provinciale di un minimo o di un
massimo molto elevato. Inoltre le norme impugnate non tenendo conto dei
miglioramenti eseguiti prima della loro entrata in vigore,
determinerebbero un esproprio senza indennizzo dei capitali investiti
per tale esecuzione, per i quali non sarebbe previsto alcun adeguato
corrispettivo. Ciò in violazione dell’art. 42 Cost., che, in materia
di espropriazioni, fissa anche il principio della riserva di legge, con
cui sarebbe incompatibile il sistema previsto dalle norme impugnate, le
quali introdurrebbero una forma di espropriazione occulta, anche per
l’assenza di elementi e criteri idonei a delimitare la discrezionalità
della pubblica amministrazione.
Quanto agli artt. 10, 11, 12 e 14 della stessa legge, si osserva
nell’ordinanza che tali norme – tutte riguardanti il regime dei
miglioramenti del fondo locato – determinerebbero notevoli
discriminazioni tra proprietario e affittuario che eseguono
miglioramenti, con palese violazione del principio di eguaglianza e del
precetto costituzionale che impone al legislatore di agevolare la
formazione della proprietà contadina. Il principio di eguaglianza e
l’art. 42 Cost. sarebbero violati anche sotto altri aspetti: in materia
di miglioramenti il proprietario – locatore sarebbe discriminato
rispetto a qualsiasi altro proprietario di fondi rustici che possa
condurre direttamente il proprio fondo, ovvero sia titolare di rapporti
agrari di diversa natura, quale quello di mezzadria; i proprietari di
fondi rustici sarebbero posti in una posizione assolutamente ed
ingiustificatamente deteriore rispetto ai proprietari di altri beni
immobili.
Analoghe questioni, relativamente agli artt. 11, 12, primo e quarto
comma, e 14 della stessa legge, ha sollevato, in riferimento agli artt.
3, 41, 42 e 44 Cost., il Consiglio di Stato, sul ricorso proposto da
Siciliani Mario contro l’Ispettorato provinciale dell’agricoltura di
Catanzaro.
Anche il tribunale di Brescia, nelle controversie vertenti tra
Manfredi Ida e Molinari Umberto, e tra Marini Giovanni e Rolli
Giuseppe, ha dedotto la illegittimità del citato art. 14 della legge
n. 11 del 1971, per violazione del principio di eguaglianza in
relazione alla disparità di trattamento fatta al proprietario rispetto
all’affittuario coltivatore diretto, e al proprietario di fondo
affittato a coltivatore diretto rispetto al proprietario di fondo
affittato a conduttore non coltivatore.
In tutti i giudizi è intervenuto, a mezzo dell’Avvocatura generale
dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, osservando che
le censure mosse agli artt. 15 e 4 riguarderebbero, in realtà, il
meccanismo di determinazione del canone, già disciplinato dall’art. 3
della stessa legge e dichiarato incostituzionale con sentenza n. 155
del 1972, onde le censure stesse andrebbero dichiarate manifestamente
infondate.
Gli artt. 10, 11, 12 e 14 non violerebbero, a loro volta, i
precetti costituzionali invocati dalle ordinanze, sia per la diversità
di posizione oggettivamente esistente tra proprietario ed affittuario e
sia per la funzione sociale della proprietà, che importa, per la
proprietà terriera, l’imposizione di vincoli e di obblighi per
conseguire il razionale sfruttamento del suolo e stabilire equi
rapporti sociali. A tali principi intenderebbero appunto dare adeguata
attuazione le norme impugnate.
Si è costituito in giudizio l’Ordine della Casa Matha, affermando
la fondatezza delle questioni proposte sulla base di argomentazioni
simili a quelle svolte nell’ordinanza del tribunale di Ravenna.
Analoghe considerazioni ha svolto Siciliani Mario.
La Federazione delle cooperative, anch’essa costituitasi in
giudizio, ha eccepito la irrilevanza, e, comunque, la manifesta
infondatezza delle questioni sollevate. In ordine alla rilevanza si è
osservato che, vertendo il giudizio a quo sulla risoluzione del
contratto esistente tra le parti, nessuna influenza sulla sua
definizione potrebbe avere la impugnata disciplina dei miglioramenti.
Nel merito, poi, le questioni sarebbero del tutto infondate,
essendo in ogni caso assicurata al proprietario che esegua
miglioramenti un’adeguata remunerazione.
Analoghe considerazioni, per sostenere la infondatezza delle
questioni sottoposte all’esame della Corte, sono state svolte anche
dall’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di Catanzaro.
Nel corso di una controversia agraria tra Sechi Antonio e Fancellu
Pietro, durante la quale il giudizio era già stato sospeso una prima
volta essendo stata sollevata questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3 della legge n. 11 del 1971, decisa in senso positivo con
sentenza n. 155 del 1972, il tribunale di Sassari, accogliendo la nuova
eccezione proposta dall’attore, ha ritenuto non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto
con gli artt. 42, secondo e terzo comma, 44 e 3 Cost., degli artt. 1,
2, 3 e 4, terzo comma, della legge 10 dicembre 1973, n. 814, emanata a
seguito della indicata declaratoria di incostituzionalità.
Anche la nuova disciplina sarebbe illegittima, e contrasterebbe con
i principi enunciati nella sentenza n. 155 del 1972 di questa Corte,
continuando a prevedere coefficienti del tutto incongrui di
moltiplicazione del reddito dominicale (art. 3), comportando la
corresponsione della quota del canone relativa alla svalutazione
monetaria solo in epoca successiva al momento in cui la svalutazione si
è verificata (art. 1), stabilendo un coefficiente massimo di
moltiplicazione del reddito dominicale per l’annata 1970-1971, senza
una effettiva possibilità di adeguamento alla svalutazione monetaria
(art. 4, terzo comma, e non prevedendo una situazione di pariteticità
delle categorie interessate nella composizione della Commissioni
tecniche provinciali (art. 2).
Tale complesso normativo urterebbe contro il principio di
eguaglianza, per il deteriore trattamento riservato ai proprietari,
nonché contro i precetti costituzionali che riconoscono e garantiscono
la proprietà privata, non ammettendo l’esproprio senza indennizzo e
prescrivendo incentivi per la piccola e media proprietà.
Analoga questione relativamente all’art. 3 della legge citata ha
sollevato il tribunale di San Remo nella controversia tra Tardio Marco
e Capponi Rodolfo e altri, rilevando, altresì, che la norma impugnata
disconoscerebbe il diritto del locatore a ricevere una giusta
remunerazione per i miglioramenti apportati, mentre tali miglioramenti
sarebbero ampiamente compensati se apportati dal conduttore.
Argomentazioni simili a quelle sin qui esposte sono state invocate:
dal tribunale di Agrigento, che, nella controversia vertente tra
Dall’Asta Eletta ed altri e Candiano Orazio, ha denunciato la
illegittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 4 cit. in riferimento
agli artt. 3 e 42 Cost., nonché dell’art. 136 per la sostanziale
inosservanza della sentenza, emessa in materia dalla Corte
costituzionale, n. 155 del 1972; dal tribunale di Modena, che, nella
controversia vertente tra Poppi Giuseppina e Severi Luigi, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dei cit. artt. 3, secondo e
sesto comma, e 4, secondo e terzo comma, in riferimento agli artt. 3,
42 e 44 Cost.; dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che, nel
procedimento vertente tra Acquaviva Francesco e Vittorio e Zarone Bruno
e Giuseppe, ha dedotto il contrasto degli artt. 1 e 3 della cit. legge
n. 814 del 1973 con gli artt. 3,41 e 42 Cost.; dal tribunale di
Mantova, che, nella controversia vertente tra Cimarosti Paola, Teresa e
Cornelia e Algisi Giuseppe, ha prospettato la illegittimità dei cit.
artt. 1, 2 e 3 per contrasto con gli artt. 3, 41,42,44 e 47 Cost., e,
nella controversia vertente tra Pavesi Valentina e Lugli Attilio, ha
prospettato la illegittimità dell’art. 4, secondo e terzo comma, della
stessa legge, per contrasto con gli artt. 3,42 e 44 della Costituzione.
In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, deducendo, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, la
infondatezza delle questioni proposte. La normativa impugnata, da un
lato non violerebbe il principio di eguaglianza per la obiettiva
diversità delle situazioni confrontate, e dall’altro costituirebbe un
efficace strumento di realizzazione dei precetti costituzionali in
materia di vincoli, obblighi e funzione sociale della proprietà. Al
titolare del diritto di proprietà sarebbe, poi, assicurato un congruo
meccanismo di calcolo del canone.
Alla stregua di considerazioni simili è stata affermata da
Fancellu Pietro e Algisi Giuseppe la infondatezza delle questioni
sollevate nei rispettivi giudizi.
A loro volta, Pavesi Valentina, Dall’Asta Eletta, Poppi Giuseppina,
Zarone Bruno e Giuseppe, e Cimarosti Paola, Teresa e Cornelia hanno
sostenuto la illegittimità delle norme denunziate nei rispettivi
giudizi, con argomentazioni analoghe a quelle contenute nelle ordinanze
di rimessione.
Le indicate questioni sono state tutte congiuntamente discusse
all’udienza del 12 febbraio 1976.
Con ordinanza 6 maggio 1976, n. 113, i giudizi sono stati riuniti
per la loro connessione oggettiva ed è stata richiesta la produzione
di alcuni documenti al Ministero dell’agricoltura e foreste e al
Ministero delle finanze.
I giudizi riuniti, acquisiti gli atti richiesti, sono stati
nuovamente trattati all’udienza del 19 ottobre 1977.
1. – Le undici ordinanze elencate in epigrafe propongono, sotto
diversi profili, un duplice ordine di questioni di legittimità
costituzionale, concernenti rispettivamente:
a) le disposizioni sui poteri degli affittuari di fondi rustici in
ordine alla esecuzione dei miglioramenti, contenute negli artt. 4,
terzo e quarto comma, 10, 11, 12,14,15, primo e sesto comma, della
legge 11 febbraio 1971, n. 11, in riferimento agli artt. 3, 41, 42 e
44 della Costituzione;
b) le disposizioni sulla determinazione, l’adeguamento e la
corresponsione dei canoni di affitto rustico, contenute negli artt. 1,
quarto e quinto comma, 2, primo comma, 3, secondo, terzo, quarto, sesto
e undicesimo comma, 4, secondo e terzo comma, della legge 10 dicembre
1973, n. 814, in riferimento agli artt. 3, 41, 42,44,47 e 136 della
Costituzione.
Con ordinanza 6 maggio 1976, n. 113, la Corte ha riunito i giudizi
per la loro connessione oggettiva, e, ritenuto comune a tutti,
direttamente e indirettamente, il controllo della rispondenza ai suoi
fini funzionali del meccanismo di determinazione e di aggiornamento dei
canoni, ha disposto la produzione di una serie di atti e documenti da
parte del Ministero dell’agricoltura e delle foreste e del Ministero
delle finanze.
Nel giudizio promosso dal tribunale di Ravenna con ordinanza n. 189
del 1973, la parte convenuta ha eccepito il difetto di rilevanza delle
questioni di costituzionalità, assumendo che la contestata disciplina
dei miglioramenti non avrebbe alcuna influenza sulla definizione della
causa, concernente una domanda di risoluzione di contratto di affitto.
Ma l’eccezione deve essere respinta, perché, come ha osservato
l’ordinanza rimessione motivando espressamente sulla rilevanza, le
disposizioni denunciate sono state richiamate proprio dalla parte
convenuta, per giustificare il proprio rifiuto di adempiere le
obbligazioni contrattuali.
2. – Ovvie considerazioni di ordine logico inducono ad esaminare
per prime le questioni concernenti le nuove disposizioni della legge n.
814 del 1973 circa la determinazione, l’adeguamento e la corresponsione
dei canoni.
La legge 11 febbraio 1971, n. 11 aveva apportato profonde
innovazioni rispetto alla previdente disciplina dell’affitto di fondi
rustici, contenuta nella legge 12 giugno 1962, n. 567, disponendo, tra
l’altro, che il canone è sempre determinato e corrisposto in denaro
(art. 1); che le tabelle dei canoni minimi e massimi di equo affitto,
determinate ogni quattro anni dalle commissioni tecniche provinciali
per zone agrarie omogenee di ciascuna provincia, debbono essere formate
prendendo a base i redditi dominicali dei terreni risultanti in catasto
a norma del regio decreto- legge 4 aprile 1939, n. 589, convertito
nella legge 29 giugno 1939, n. 976, e stabilendo, per ogni qualità di
coltura ed eventuali gruppi di classi, individuati in catasto,
coefficienti di moltiplicazione compresi tra un minimo di 12 volte ed
un massimo di 45 volte, in conformità alle direttive della commissione
tecnica centrale (art. 3); che conseguentemente i canoni di affitto
sono determinati moltiplicando il reddito dominicale dei fondi per i
coefficienti stabiliti dalle commissioni (art. 4).
Questa Corte, con sentenza 27 luglio 1972, n. 155, ha ritenuto non
fondata la questione di legittimità dell’art. 3, secondo comma, della
citata legge, nella parte in cui dispone che per la formazione delle
tabelle per i canoni di equo affitto sono presi a base i redditi
dominicali; ma ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli
artt. 3 e 4, primo comma, “nella parte in cui non limitano
l’applicazione delle norme in essi contenute ai soli affittuari che
coltivano il fondo col lavoro proprio e dei propri familiari, e non
escludono gli affittuari imprenditori”, nonché dell’art. 3, secondo e
sesto comma, “nella parte in cui fissa tra 12 e 45, e con riferimento a
un caso particolare in 36, i coefficienti di moltiplicazione del
reddito dominicale ai fini della determinazione del canone”; ed ha
inoltre dichiarato l’illegittimità dell’art. 1 della stessa legge
“nella parte in cui non prevede alcuna forma di periodica rivalutazione
del canone in denaro”.
Per eliminare le lacune normative conseguenti alla decisione di
questa Corte, e sanare gli accertati vizi di legittimità della nuova
disciplina dell’affitto rustico, la legge n. 814 del 1973 ha disposto
all’art. 1 la determinazione da parte delle commissioni tecniche
provinciali, ogni due anni e per le singole zone agrarie, di
coefficienti di adeguamento dei canoni in aumento o in diminuzione, da
applicarsi sui valori monetari dei canoni stabiliti sulla base delle
tabelle formate dalle commissioni stesse; ed ha d’altra parte dettato,
all’art. 3, una serie di disposizioni relative alla determinazione
delle tabelle per i canoni di equo affitto, consentendo l’adozione di
coefficienti di moltiplicazione dei redditi dominicali compresi tra un
minimo di 24 ed un massimo di 55 volte; l’applicazione di coefficienti
aggiuntivi fino a otto punti in più per i fondi rustici dotati di
fabbricati colonici o aziendali, e fino a sette punti in più per i
fondi dotati di efficienti investimenti fissi, non valutati in catasto;
nonché di un ulteriore coefficiente di maggiorazione da un minimo di
cinque a un massimo di dieci punti per la determinazione dei canoni
dovuti dagli affittuari che non siano coltivatori diretti.
3. – Il nuovo sistema di determinazione e aggiornamento dei canoni,
quale risulta fondamentalmente dalle disposizioni degli artt. 3,
secondo comma, e 1, quarto e quinto comma, della legge n. 814 del 1973,
è denunciato dalle ordinanze dei tribunali di Mantova (n. 252/1974),
Santa Maria Capua Vetere (n. 495/1974), Agrigento (n. 237/1975),
Sassari (n. 402/ 1975), e Modena (n. 117/1975: quest’ultima,
limitatamente all’art. 3, secondo comma). Si osserva nelle ordinanze,
con motivazioni sostanzialmente conformi che i coefficienti di
moltiplicazione dei redditi dominicali stabiliti per la formazione
delle tabelle sono del tutto inidonei ad un’equa determinazione dei
canoni, risultando non solo nettamente inferiori a quelli indicati da
questa Corte con riguardo al 1971, ma altresì incongrui per effetto
dell’ulteriore svalutazione della moneta; che d’altra parte anche le
disposizioni dell’art. 1 sui coefficienti di adeguamento dei valori
monetari dei canoni in denaro sono inidonee allo scopo, per la
complessità del procedimento di determinazione e per il costante
ritardo nella applicazione.
La questione, per quanto concerne i coefficienti applicazione dei
redditi catastali, è fondata. Occorre ricordare, al riguardo, che i
redditi imponibili dominicali risultanti dal catasto terreni in seguito
alla revisione generale degli estimi disposta dal r.d.l. 4 aprile 1939,
n. 589, convertito nella legge 29 giugno 1939, n. 976, furono stabiliti
sulla base della media dei prezzi correnti dei prodotti e dei mezzi di
produzione nel triennio 1937-1939; e che, d’altra parte, il nuovo
catasto, formato a norma del t.u. 8 ottobre 1931, n. 1572, e oggi in
larga misura inidoneo a rispecchiare l’effettiva realtà dei fondi
rustici sia per quanto concerne le qualità di coltura e le classi di
produttività, sia per la consistenza dei fabbricati, impianti ed
investimenti fissi, non valutati in catasto, anche a causa della
notoria lentezza e difficoltà delle operazioni di revisione del
classamento dei terreni migliorati di qualità di coltura o di classe,
e di variazione, in aumento o in diminuzione, dell’estimo catastale. Di
questa situazione obiettiva il legislatore è ben consapevole, e nella
stessa legge n. 814 ha dettato speciali disposizioni perché, nelle
zone e nei casi in cui il canone risulti gravemente sperequato rispetto
al livello medio, gli uffici tecnici erariali, secondo le indicazioni
della commissione tecnica centrale, pongano in essere con precedenza
assoluta le procedure di legge per la revisione di ufficio dei dati
catastali, autorizzando la commissione stessa a determinare, in via
provvisoria e salvo conguaglio, coefficienti di moltiplicazione diversi
da quelli previsti dall’art. 3, secondo, terzo e quarto comma. Ma
queste disposizioni di carattere eccezionale, per la cui attuazione è
stato emanato il d.m. 19 gennaio 1974 (che tra l’altro impegna le
commissioni tecniche provinciali a riferire prontamente sulle
denunciate situazioni di grave sperequazione dei canoni ed a promuovere
i relativi accertamenti), non hanno potuto avere finora apprezzabile
applicazione, secondo quanto risulta dagli atti prodotti dal Ministero
dell’agricoltura e delle foreste, anche per il rilievo fatto dalla
commissione tecnica centrale che “soltanto la legge può stabilire i
limiti minimi e massimi dei canoni”.
Anche prescindendo dai casi marginali di grave sperequazione dei
canoni, si deve riconoscere che la misura dei coefficienti di
moltiplicazione dei redditi dominicali, stabilita tra un minimo di 24
volte ed un massimo di 55 volte, è assolutamente inidonea a consentire
alle commissioni tecniche provinciali la formazione di tabelle che
conducano alla determinazione di canoni equi, tali da assicurare,
accanto alla giusta remunerazione del lavoro, una remunerazione non
irrisoria del capitale fondiario e degli investimenti effettuati dai
proprietari. La nuova misura dei canoni, rispetto a quelli praticati
come equi in base alla disciplina vigente prima della legge 11 febbraio
1971, n. 11, risulta generalmente ridotta ad un livello tanto basso da
rendere, in taluni casi, addirittura onerosa la proprietà della terra,
o da ridurre il relativo reddito, considerati anche gli oneri fiscali,
a valori privi di corrispondenza con l’effettiva produttività dei
fondi.
Alle considerazioni già svolte a questo riguardo dalla precedente
decisione di questa Corte, di cui l’ulteriore svalutazione della moneta
ha notevolmente accresciuto la gravità, deve aggiungersi la
constatazione che il nuovo regime dei canoni, lungi dal promuovere
l’auspicata valorizzazione del contratto di affitto, ritenuto oggi lo
strumento più idoneo per lo sviluppo, in Italia come negli altri paesi
della Comunità economica europea, di moderne imprese agricole, capaci
di alta produttività per dimensioni economiche, organiche strutture
aziendali ed efficienza tecnica, ha determinato una seria crisi dei
rapporti contrattuali tra proprietà ed impresa, con una accresciuta
conflittualità ed una stabilizzazione di situazioni spesso
antieconomica e non soddisfacente né per i concedenti né per gli
affittuari o aspiranti ad ottenere terre in affitto. La conferma di
questa crisi è offerta dagli accordi sindacali prodotti in giudizio,
stipulati negli anni 1976 e 1977 tra le federazioni nazionali della
proprietà fondiaria e degli affittuari conduttori (con l’adesione, da
ultimo, anche della federazione provinciale dei coltivatori diretti di
Milano), nel dichiarato fine di pervenire, di là dalle stesse
disposizioni di legge, ad una congrua disciplina del contratto di
affitto, “come strumento insostituibile ed in ogni caso più idoneo e
flessibile per la necessaria ristrutturazione agricola”, con una giusta
correlazione tra lunga durata del rapporto e aggiornamento del valore
del canone.
4. – La illegittimità dell’art. 3, secondo comma, è denunciata
dalle ordinanze in riferimento agli artt. 3, 42, secondo e terzo
comma, 44 Cost., nonché agli artt. 41 e 47. Il terzo comma dell’art.
42 non può costituire parametro idoneo, perché la inadeguatezza dei
canoni di affitto, pur rappresentando una menomazione dei poteri
attuali di godimento, non integra una fattispecie espropriativa in
senso proprio; non pertinente, e comunque non determinante, appare
anche il richiamo ai principi enunciati dagli artt. 41 e 47 della
Costituzione sulla libertà dell’iniziativa economica e sulla tutela
del risparmio. Deve invece riconoscersi il contrasto sia con l’art. 3
Cost., per le gravi disparità di trattamento determinate
dall’applicazione delle tabelle, anche tra i proprietari di terreni
appartenenti a zone agrarie omogenee d’una stessa provincia, secondo
quanto risulta dagli atti e documenti prodotti in giudizio, sia con le
fondamentali disposizioni dell’art. 42, secondo comma, e dell’art. 44,
primo comma. La legge riconosce e garantisce la proprietà privata, e
in particolare aiuta la piccola e media proprietà terriera, alla quale
può bensì imporre obblighi e vincoli, ma per il duplice fine del
razionale sfruttamento del suolo e del conseguimento di equi rapporti
sociali, senza incidere eccessivamente sulla sostanza del diritto di
proprietà, a beneficio di altri soggetti privati, pur meritevoli di
speciale tutela.
Questa Corte non intende fornire nuove indicazioni, oltre quelle
già date in via esemplificativa nella precedente sentenza, circa la
congruità dei coefficienti di moltiplicazione minimo e massimo, che
spetta al legislatore di stabilire nella sua ampia discrezionalità di
valutazione politica; ma ritiene di dover esprimere l’esigenza che,
volendosi tener fermo il sistema di determinazione dei canoni sulla
base dei redditi dominicali, nel periodo che sarà necessario per
l’attuazione della nuova revisione generale degli estimi e del
classamento del catasto terreni disposta dal d.P.R. 29 settembre 1973,
n. 604, i coefficienti di moltiplicazione dei redditi riferiti al
triennio 1937-1939 vengano fissati in misure più congrue, e con più
ampio divario tra il coefficiente minimo ritenuto idoneo a garantire ad
ambo le parti l’equità del canone di affitto, e quello massimo
consentito dalla produttività dei migliori terreni, sì da permettere
alle commissioni tecniche provinciali di procedere alla formazione
delle tabelle, in conformità alle direttive della commissione tecnica
centrale, con una maggiore elasticità di apprezzamento, aderente alla
multiforme varietà delle situazioni caratteristiche delle diverse zone
agrarie.
5. – In correlazione con l’accertata illegittimità dell’art. 3,
secondo comma, nella parte in cui stabilisce tra un minimo di 24 e un
massimo di 55 volte i coefficienti di moltiplicazione dei redditi
dominicali, occorre considerare le disposizioni dell’art. 1 della
stessa legge, dirette a consentire l’applicazione, sui valori monetari
dei canoni stabiliti sulla base delle tabelle formate ogni quattro anni
dalle commissioni tecniche provinciali, di coefficienti di adeguamento
in aumento o in diminuzione. Anche queste disposizioni sono state
denunciate dalle stesse ordinanze dei tribunali di Mantova, Santa Maria
Capua Vetere, Agrigento e Sassari, rilevando che sarebbero inidonee ad
assicurare una forma di rivalutazione periodica dei canoni in denaro,
corrispondente alle variazioni di valore della moneta, secondo il
principio enunciato da questa Corte nella sentenza n. 155 del 1972.
Al riguardo si deve riconoscere che il meccanismo di formazione di
questi coefficienti non ha finora funzionato in modo soddisfacente, sia
per la complessità del procedimento nelle sue diverse fasi, sia per le
difficoltà di attuazione delle relative operazioni, e anzitutto delle
rilevazioni statistiche. Di fatto, la determinazione delle zone agrarie
omogenee da parte delle commissioni tecniche provinciali, secondo le
direttive della commissione centrale, è stata effettuata non solo con
ovvio ritardo rispetto al termine ordinatorio di tre mesi, ma anche con
sorprendente difformità di risultati: dai prospetti riassuntivi
forniti dalla commissione tecnica centrale nella relazione 22 marzo
1976, si rileva che in alcune province è stata individuata una sola
zona, in altre un numero variabile da due a cinque, o da sei a dieci,
ed in altre ancora un numero maggiore, fino a ventisei e trentadue zone
omogenee; che in qualche caso, rispetto alla suddivisione già
effettuata a norma della legge n. 11 del 1971, il numero delle zone è
stato aumentato da uno a ventisei, ovvero diminuite da trentanove a
nove. E agevole comprendere le difficoltà incontrate dall’Istituto
centrale di statistica nella rilevazione (annuale), per le singole zone
agrarie, dei dati relativi ai prezzi dei prodotti agricoli, ai costi di
produzione ed alla remunerazione del lavoro. Di fatto, nel corso del
primo biennio di applicazione della legge n. 814 del 1973, le
commissioni tecniche provinciali non hanno potuto provvedere alla
determinazione dei coefficienti di adeguamento dei canoni, in quanto la
commissione centrale, non disponendo dei necessari dati, non era stata
in grado di impartire le direttive previste dalla legge; ed anche per
il secondo biennio, secondo la documentazione prodotta dal Ministero
dell’agricoltura, risulta che solo le commissioni di Mantova e Sassari
hanno determinato coefficienti percentuali di adeguamento (nella misura
del 15 e rispettivamente del 20-25%), mentre quelle delle altre
province interessate non hanno applicato alcun coefficiente.
Altri inconvenienti dipendono dalla difficoltà di coordinamento
tra le disposizioni dell’art. 1 e dell’art. 3 per quanto attiene ai
tempi di applicazione dei coefficienti di adeguamento. Questi debbono
essere determinati ogni due anni, ed applicati sui valori monetari dei
canoni “a far tempo dall’annata agraria successiva alla
determinazione”; pertanto, posto che nel primo biennio di applicazione
delle tabelle quadriennali non v’è stato luogo ad alcun adeguamento, i
coefficienti di adeguamento avrebbero dovuto essere stabiliti prima del
terzo anno, sì da poter operare regolarmente a cominciare dal secondo
biennio, sopra i valori monetari dei canoni stabiliti ogni quattro
anni, evitandone l’applicazione su valori non omogenei, nella ipotesi
normale di modificazione delle tabelle ogni quadriennio.
Tutti questi inconvenienti dovranno essere eliminati con un
migliore coordinamento delle disposizioni sotto il profilo
tecnico-normativo, e con l’avvio d’un regolare ciclo di adempimento
delle diverse operazioni amministrative. Essi non sono tuttavia tali, a
giudizio di questa Corte, da comportare allo stato una declaratoria di
illegittimità dell’art. 1, le cui disposizioni non confliggono con
alcuno dei parametri costituzionali indicati, ed appaiono, nel
complesso, idonee, se puntualmente e tempestivamente applicate in
conformità alla ratio che ne ha dettato l’introduzione, ad assicurare
il periodico adeguamento del valore monetario dei canoni, in rapporto
alle variazioni del valore della lira.
Il dubbio sulla costituzionalità dell’art. 1 è stato prospettato
dal tribunale di Agrigento anche sotto il particolare profilo che il
legislatore avrebbe omesso di fissare criteri in ordine alla emanazione
delle direttive da parte della commissione tecnica centrale, ciò che
integrerebbe violazione della riserva di legge per l’imposizione di
limiti alla proprietà privata. Ma anche sotto questo aspetto la
questione è infondata, perché i criteri per l’esercizio delle
funzioni attribuite alla competenza della commissione tecnica centrale,
in ordine alla determinazione dell’equo canone, sono indicati con
chiarezza dall’art. 6 della legge 11 febbraio 1971, n. 11, e d’altra
parte le direttive previste dall’art. 1 della legge 10 dicembre 1973,
n. 814 concernono operazioni di carattere prevalentemente tecnico, che
non comportano imposizione di limiti alla proprietà, ed anzi tendono
al fine di adeguare la misura dei canoni in denaro alle variazioni di
valore della moneta.
6. – L’ordinanza del tribunale di Modena (n. 117/1975) solleva
questione di legittimità anche per le disposizioni dell’art. 3, sesto
comma, e dell’art. 4, secondo e terzo comma, della legge n. 814 del
1973, in riferimento agli artt. 3, 42 e 44 della Costituzione. Le
disposizioni dell’art. 4, secondo e terzo comma, sono altresì
denunciate dalle ordinanze dei tribunali di Mantova (n. 206/1974),
Agrigento (n. 237/1975) e Sassari (n. 402/1975).
Per quanto concerne il sesto comma dell’art. 3, che fissa in via
provvisoria l’equo canone nell’ammontare corrispondente a 42 volte il
reddito dominicale per i casi in cui le tabelle non vengano
tempestivamente determinate, o siano annullate o sospese,
l’accoglimento della questione consegue come logico corollario, alla
declaratoria di illegittimità del secondo comma dello stesso art. 3.
La questione è fondata anche rispetto alle disposizioni del
secondo e terzo comma dell’art. 4, che regolano il conguaglio dei
canoni già corrisposti in via provvisoria ai sensi dell’art. 3 della
legge 11 febbraio 1971, n. 11 per le annate agrarie 1971-72 e 1972-73,
e di quelli ancora dovuti per l’annata agraria precedente (1970-71),
nella misura prevista dalla nuova legge e, rispettivamente, di 40 volte
il reddito dominicale per gli affittuari coltivatori diretti e di 45
volte per gli affittuari non coltivatori. Queste norme di diritto
transitorio sono necessariamente travolte dalla accertata
illegittimità dell’art. 3, secondo comma, per le stesse ragioni già
indicate e in riferimento ai medesimi parametri costituzionali. Quanto
al terzo comma dell’art. 4 è inoltre palese il contrasto con l’art.
136 Cost., puntualmente richiamato dall’ordinanza del tribunale
Agrigento, essendo stata confermata una misura dei canoni già
dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 155 del 1972 di questa
Corte.
L’ordinanza del tribunale di Mantova prospetta un ulteriore profilo
di illegittimità per la mancata previsione dell’obbligo di
corrispondere interessi in sede di conguaglio dei canoni, “con
ipotizzabile violazione dell’art. 42 Cost.”. Ma la questione non è
fondata: l’omessa imposizione d’uno speciale obbligo di pagare
interessi non integra violazione dell’art. 42, e gli effetti delle
decisioni di questa Corte rispetto ai rapporti obbligatori pendenti
(anche in relazione a quanto disposto dalle leggi 8 agosto 1972, n.
462,23 dicembre 1972, n. 844 e 9 agosto 1973, n. 508), sono regolati
dalla legge comune.
7. – L’ordinanza del tribunale di Agrigento (n. 237/1975) solleva,
in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost., questione di legittimità della
disposizione dell’art. 3, undicesimo comma, per cui i canoni di affitto
stabiliti ai sensi della legge n. 814 del 1973 “non potranno essere
superiori all’ottanta per cento di quelli risultanti dalla tabella
determinata in base alle disposizioni della legge 12 giugno 1962, n.
567, vigente nell’annata agraria anteriore all’entrata in vigore della
legge 11 febbraio 1971, n. 11” (ossia nell’annata 1969-70). Si osserva
nella ordinanza di rimessione che questa norma preclude
illegittimamente un ulteriore adeguamento dei canoni nel prossimo
futuro, e costituisce ostacolo insormontabile all’effettiva
rivalutazione dei canoni prevista dall’art. 1 della stessa legge.
E stato sostenuto nella discussione davanti a questa Corte che il
limite massimo dei canoni nella misura dell’ottanta per cento di quelli
stabiliti per l’annata agraria 1969-70 dovrebbe intendersi applicabile
solo nella prima attuazione della legge, e tale interpretazione è
stata suffragata col richiamo alla circolare della commissione tecnica
centrale 20 luglio 1974, n. 14, ove si afferma che “naturalmente,
decorso il primo biennio di applicazione della legge, entrerà in
funzione il criterio di adeguamento di cui all’art. 1 della legge n.
814 del 1973 e questo potrebbe portare al superamento del tetto come
sopra determinato”. Ma questa interpretazione, pur dettata
dall’apprezzabile intento d’una ragionevole applicazione, non è
consentita dal chiaro tenore letterale della norma, che fissa quel
limite inderogabile in termini generali per “i canoni di affitto ai
sensi della presente legge”, senza alcun riferimento temporale; e
pertanto deve dichiararsi la illegittimità della norma stessa, in
correlazione con quella del secondo comma dello stesso art. 3, e come
sua logica conseguenza.
8. – L’ordinanza del tribunale di San Remo (n. 362/ 1975), solleva
questione di legittimità della disposizione dell’art. 3, terzo comma,
lett. b. della legge n. 814 del 1973, in riferimento agli artt. 3,42 e
44 Cost., denunciando la insufficienza del coefficiente aggiuntivo
“fino a sette punti in più”, previsto per la determinazione dei canoni
di fondi rustici dotati di efficienti investimenti fissi che rechino un
diretto apporto alle condizioni di produttività. La questione concerne
una fattispecie paradigmatica: il proprietario d’un fondo destinato
alla redditizia coltivazione floreale, che aveva eseguito investimenti
fissi prima dell’entrata in vigore delle nuove leggi del 1971-1973
nella legittima previsione di adeguata remunerazione, e aveva pattuito
un canone di lire 800.000 annue, riceve ora un canone di sole lire
120.360, di fronte ad oneri, accertati da consulenza tecnica di
ufficio, di circa lire 400.000 annue, mentre il conduttore ricava un
reddito netto, depurato anche dell’importo del canone legale, di lire
5.394.760. La sperequazione, in questo caso particolare, è aggravata
dal fatto che gli investimenti effettuati non hanno ancora dato luogo a
revisione del classamento del fondo migliorato ed alla conseguente
variazione dell’estimo catastale (la quale consentirà peraltro solo
una parziale remunerazione del capitale investito nei miglioramenti);
ma si tratta precisamente d’un caso tipico di grave sperequazione del
canone rispetto al livello medio dei canoni stabiliti per la provincia
di Imperia, che dovrebbe essere regolato a norma dell’art. 3, ottavo
comma, e del d.m. 19 gennaio 1974. Nonostante la peculiarità della
fattispecie, questa Corte ritiene che la questione di legittimità
dell’art. 3, terzo comma, lett. b. non possa dichiararsi fondata,
perché, in linea generale, i coefficienti aggiuntivi previsti dalle
lett. a e b di detto comma non possono essere ritenuti assolutamente
incongrui o irrisori, se applicati ad integrazione di canoni-base
stabiliti in misura rispondente ad equità.
Naturalmente, il giudice a quo nella sua decisione potrà tener
conto delle declaratorie di questa Corte relative alla illegittimità
dell’art. 3, secondo comma, della legge n. 814 del 1973, nonché degli
artt. 4, terzo comma, e 15 della legge n. 11 del 1971, di cui si dirà
più oltre.
9. – L’ordinanza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (n.
495/1974), solleva questione di legittimità della disposizione
dell’art. 3, quarto comma, per cui nella determinazione del canone
dovuto dall’affittuario coltivatore diretto è previsto un coefficiente
di maggiorazione da un minimo di cinque ad un massimo di dieci punti.
La disposizione configgerebbe con gli artt. 3, 41 e 42 Cost., per
la insufficiente misura della maggiorazione consentita nei confronti
dell’affittuario imprenditore, che non gode della speciale tutela
garantita dagli artt. 35 e 36 Cost. all’affittuario coltivatore, e non
potrebbe ricevere un trattamento privilegiato rispetto al proprietario,
assistito da pari garanzia costituzionale.
La questione, proposta da quest’unica ordinanza in connessione a
quella delle disposizioni degli artt. 1 e 3, secondo comma, non è
fondata. Il coefficiente di maggiorazione, eliminata la inadeguatezza
del canone-base, non può ritenersi assolutamente inidoneo a
differenziare la posizione dell’affittuario imprenditore rispetto a
quella del coltivatore diretto. La distinzione tra le due categorie è
oggi assai meno rilevante che nel passato, sia perché la qualifica di
coltivatore diretto (proprietario o conduttore) non comprende solo i
più modesti lavoratori manuali che coltivano un piccolo fondo con il
lavoro proprio e dei familiari, ma, secondo la vigente legislazione, è
riconosciuta anche ad imprenditori che conducono aziende meccanizzate
di notevole estensione e produttività, ricorrendo a salariati per i
due terzi della mano d’opera occorrente; sia perché, d’altronde,
accanto ai grossi affittuari conduttori di imprese capitalistiche v’è
un cospicuo numero di medi e piccoli imprenditori agricoli che, pur
senza essere lavoratori manuali della terra, vi svolgono una quotidiana
attività di lavoro. La misura della maggiorazione discrezionalmente
stabilita dal legislatore per gli affittuari non coltivatori sfugge
pertanto alla proposta censura di incostituzionalità.
10. – Le ordinanze dei tribunali di Mantova (n. 252/1974) e Sassari
(n. 402/1975) sollevano la questione di legittimità della disposizione
dell’art. 2, primo comma, nella parte in cui non prevede per la
composizione delle commissioni tecniche provinciali, una rappresentanza
paritetica dei proprietari che affittano fondi rustici a coltivatori
diretti, rispetto a quella di questi ultimi. Secondo l’ordinanza del
tribunale di Mantova, la norma confligge con gli artt. 3 e 44 Cost.,
per difetto di ragionevolezza, lesivo del principio della equità dei
rapporti sociali; secondo l’ordinanza del tribunale di Sassari essa
contrasta con l’art. 3 Cost., perché disconosce il principio della
rappresentanza paritetica delle categorie controinteressate, a cui già
si ispirava l’art. 2 della legge 12 giugno 1962, n. 567 e nel quale
anche la relazione di maggioranza della commissione agricoltura del
Senato sulla legge n. 814 aveva ravvisato “la più solida garanzia di
una obbiettiva applicazione delle norme”.
La questione è fondata. Già nella legge 18 agosto 1948, n. 1140
la composizione delle commissioni tecniche provinciali incaricate della
valutazione dell’equità dei canoni era stata disposta su base
paritetica, e la pariteticità delle rappresentanze dei contrapposti
interessi era stata confermata ancora dalla legge 12 giugno 1962, n.
567. Essa era stata alterata, dopo oltre vent’anni, solo con l’art. 2
della legge 11 febbraio 1971, n. 11; ma il disegno governativo di
legge presentato dopo la sentenza n. 155 del 1972 di questa Corte
l’aveva ripristinata, e la relazione ministeriale dichiarava al
riguardo che “si rende necessario modificare la composizione della
commissione tecnica provinciale, assicurando la rappresentanza
paritetica di tutte le categorie”.
A difesa della non pariteticità della commissione è stato
osservato che essa costituisce un collegio le cui deliberazioni possono
essere validamente adottate con l’intervento della metà più uno dei
componenti ed a maggioranza assoluta dei presenti; ma l’obiezione non
appare pertinente, proprio perché trattasi di una commissione tecnica
amministrativa, tipicamente caratterizzata dalla rappresentanza degli
interessi delle diverse categorie di proprietari e di affittuari, per
cui nulla può giustificare, nella sua composizione, una disparità di
trattamento tra le categorie stesse.
Questa Corte, chiamata a giudicare della legittimità della legge
12 giugno 1962, n. 567, sotto il profilo della denunziata violazione
del principio della riserva di legge attraverso il deferimento alle
commissioni tecniche provinciali del potere di stabilire i limiti
minimi e massimi della misura dei canoni di affitto rustico, nelle
sentenze n. 40 e 80 del 1964 aveva già avuto occasione di osservare
che le commissioni, non senza ragione definite dalla legge come
“tecniche” in quanto chiamate alla redazione delle tabelle attenendosi
essenzialmente alle regole tecniche dell’economia agraria, offrivano
garanzia di imparzialità grazie alla rappresentanza paritetica delle
categorie interessate. Per vero, non si comprende perché con la
disposizione denunciata si sia voluto disattendere, proprio in ordine
alla determinazione delle tabelle di “equo canone”, questo requisito
che costituisce presupposto essenziale per un imparziale e giusto
regolamento dei contrapposti interessi; e ciò anche in relazione
all’esigenza enunciata dall’art. 97 Cost., che dalle leggi siano
assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Appare pertanto palese la violazione del principio di eguaglianza.
11. – Quattro ordinanze, del tribunale di Ravenna (n. 189 /1973),
del tribunale di Brescia (nn. 15/1974 e 51/1975), e del Consiglio di
Stato (n. 123/1974), propongono questioni di legittimità delle
disposizioni circa l’esecuzione dei miglioramenti e la loro incidenza
sulle obbligazioni contrattuali e sulla misura dei canoni, introdotte
dalla legge 11 febbraio 1971, n. 11. Il tribunale di Ravenna solleva un
duplice ordine di questioni, denunciando la illegittimità degli artt.
15, primo e ultimo comma, e 4, terzo comma, in riferimento agli artt. 3
e 42 Cost., nonché degli artt. 10, 11, 12 e 14, in riferimento agli
artt. 3, 42 e 41 Cost. L’ordinanza, con riguardo ad un caso di specie
in cui proprietario concedente e affittuario risultano entrambi
esecutori di rilevanti miglioramenti apportati al fondo, osserva che
per effetto delle disposizioni degli artt. 15 e 4 il proprietario il
quale abbia eseguito miglioramenti prima dell’entrata in vigore della
legge n. 11 del 1971, sarebbe praticamente espropriato dei capitali
investiti nei miglioramenti stessi, senza il previsto corrispettivo,
rappresentato dal canone anteriormente pattuito; e d’altra parte, ove
già percepisca il nuovo canone nella misura massima di legge, o in
base a un coefficiente tale misura, non avrebbe alcuna possibilità di
ottenere un aumento, a remunerazione di nuovi miglioramenti, mentre la
stessa legge riconosce all’affittuario miglioratore il diritto ad
indennità, senza revisione del canone, e altri diritti. Anche le
disposizioni degli artt. 10, 11, 12 e 14 attribuirebbero nel loro
complesso all’affittuario una posizione privilegiata, nel palese
intento di favorire l’esecuzione dei miglioramenti ad opera dei
conduttori di fondi altrui, e di ostacolare invece, mortificandola,
l’analoga iniziativa dei proprietari, posti in condizione di assoluta
inferiorità: esse confliggerebbero pertanto con quanto disposto dagli
artt. 3, 42 e 41 della Costituzione.
Anche il Consiglio di Stato denuncia, sotto profili in parte
diversi, gli artt. 14, 11, 12, primo comma, e 4, quarto comma, della
stessa legge, in riferimento agli artt. 3, 41, 42 e 44 Cost.
L’ordinanza rileva la disparità di trattamento riservata
all’affittuario coltivatore diretto dall’art. 14, con disposizioni
diverse e più favorevoli di quelle dell’art. 11, e la menomazione dei
poteri di iniziativa e di controllo del proprietario; denuncia l’art.
11, in quanto attribuirebbe solo in apparenza ad entrambe le parti il
potere di eseguire miglioramenti, mentre la legge pone sotto più
aspetti in posizione di vantaggio le iniziative degli affittuari;
osserva infine che il combinato disposto dell’art. 12, primo comma, e
dell’art. 4, quarto comma, assicura all’affittuario miglioratore la
proroga del contratto per almeno dodici anni oltre la scadenza e la
facoltà di cessione del contratto ai propri familiari, escludendo per
il proprietario ogni possibilità di revisione del canone fin quando
non sia stata corrisposta l’indennità prevista dalla legge per la fine
del rapporto, sicché l’affittuario acquisisce l’intero profitto dei
miglioramenti.
A sua volta, il tribunale di Brescia denuncia con entrambe le
ordinanze, in riferimento al solo art. 3 Cost., l’illegittimità delle
disposizioni dell’art. 14, primo e secondo comma, rilevando la
disparità di trattamento fatta al proprietario rispetto
all’affittuario coltivatore diretto per quanto concerne il potere di
iniziativa dei miglioramenti, e la disparità di trattamento tra il
proprietario di fondo affittato a coltivatore diretto e il proprietario
di fondo affittato a conduttore non coltivatore, sia per
l’ingiustificata preclusione al proprietario di fondo affittato a
coltivatore diretto del potere di eseguire miglioramenti, riconosciuto
dall’art. 11, sia per l’adozione di diverse procedure di controllo,
quali previste dall’art. 11 e dal primo combina dell’art. 14, sia
infine per il potere attribuito dal secondo comma all’affittuario
coltivatore diretto di eseguire senza alcun controllo i miglioramenti
che possano essere compiuti con il lavoro proprio e della famiglia.
12. – Le questioni sono solo in parte fondate. Con le norme del
tit. II, “sui poteri dell’affittuario e sulla esecuzione dei
miglioramenti”, la legge n. 11 del 1971 ha chiaramente inteso
attribuire anche agli affittuari di fondi rustici il potere di
promuovere ed eseguire miglioramenti, assumendo l’iniziativa nel caso
di inerzia o impossibilità dei proprietari. Questo fine della riforma
legislativa è pienamente legittimo: la Corte ha già avuto occasione
di affermare al riguardo che “l’istanza del miglioramento è oggi
intrinseca a tutte le forme di gestione dell’impresa agricola, e
giustamente la nuova disciplina dell’affitto di fondi rustici
introdotta con la legge 11 febbraio 1971, n. 11 in considerazione
dell’interesse pubblico allo sviluppo quantitativo e qualitativo della
produzione agraria, ha attribuito anche all’affittuario le più ampie
iniziative di organizzazione e di gestione richieste dalla razionale
coltivazione del fondo, dall’allevamento di animali, o dall’esercizio
delle attività connesse, indipendentemente dall’esistenza di clausola
migliorataria, anzi comminando la nullità di ogni clausola
convenzionale limitatrice dei poteri riconosciuti all’affittuario per
l’esecuzione dei miglioramenti” (sentenza n. 53 del 1974).
È, d’altra parte, fuori discussione la pienezza dei poteri che, in
materia di miglioramenti, competono ai proprietari, anche per i terreni
concessi ad altri in conduzione, salvo il rispetto delle iniziative e
responsabilità di gestione dell’impresa agricola: l’art. 41 Cost.
tutela l’iniziativa economica di tutti gli operatori privati; l’art. 42
consente limiti alla proprietà privata proprio per assicurarne la
funzione sociale; l’art. 44 pone in risalto il duplice fine di
conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi
rapporti sociali, comune alla proprietà e all’impresa. Con sentenza n.
107 del 1974, questa Corte, dichiarando l’illegittimità dell’art. 32
della legge n. 11 del 1971, ha riconosciuto il diritto del proprietario
concedente di riacquistare la disponibilità del fondo locato, per
compiervi opere di radicale trasformazione agraria la cui esecuzione
sia incompatibile con la prosecuzione del rapporto, previo controllo
dell’Ispettorato agrario sulla loro utilità.
Ciò premesso, occorre accertare se, e in quale misura, le
disposizioni denunciate dalle ordinanze di rimessione abbiano
determinato ingiusta disparità di trattamento tra affittuari e
proprietari, o lesione dei diritti garantiti a questi ultimi dagli
artt. 41, 42 e 44 della Costituzione.
13. – L’art. 10 è richiamato dalla sola ordinanza del tribunale di
Ravenna, in connessione con gli articoli successivi e senza speciale
indicazione di motivi d’incostituzionalità. Il riconoscimento agli
affittuari delle iniziative di organizzazione e di gestione richieste
dalla razionale coltivazione dei fondi o dall’esercizio delle attività
connesse, specie in relazione alle direttive di programmazione
economica stabilite dalle competenti autorità, corrisponde ai poteri
ed alle responsabilità proprie d’ogni imprenditore agricolo (cfr. art.
2135 codice civile); ed anche la facoltà consentita agli affittuari di
partecipare ad organismi associativi risponde a fini di promozione
della cooperazione tra gli agricoltori, di incontestabile legittimità.
Può sorprendere, nel secondo comma dell’art. 10, il richiamo congiunto
alla trasformazione e al miglioramento dei terreni, posto che l’intero
tit. II della legge ha ad oggetto unicamente i miglioramenti (e le
addizioni), e non contiene alcuna disposizione in ordine all’esecuzione
di opere di trasformazione fondiaria o agraria in senso proprio, che la
legge civile non consente nemmeno all’usufruttuario: ma tale questione
non è stata specificamente sottoposta all’esame di questa Corte. È,
d’altra parte, ovvio il rilievo che tutte le iniziative in ordine a
miglioramenti da parte di affittuari singoli o associati sono soggette
alle procedure di controllo stabilite dall’art. 11.
14. – La questione non è fondata nemmeno per quanto concerne le
disposizioni dell’art. 11, le quali espressamente riconoscono a
ciascuna delle parti il potere di eseguire miglioramenti dei fondi e
dei fabbricati rurali, “purché corrispondenti ai programmi regionali
di sviluppo o, in difetto, alle tendenze di sviluppo delle zone in cui
essi ricadono”, nonché addizioni relative alla utilizzazione agricola,
ossia migliorative, che non alterino la destinazione economica dei
fondi. Anche il procedimento assicura alle parti una effettiva parità
di condizioni, con eguali garanzie di controllo del progetto tecnico e
di contraddittorio davanti all’Ispettorato agrario. Dopo il parere
tecnico favorevole dell’Ispettorato l’affittuario proponente è tenuto
ad invitare il proprietario a far conoscere se egli stesso intenda
eseguire i miglioramenti, e soltanto in caso di risposta negativa o di
silenzio o di inosservanza del termine indicato dall’Ispettorato per
l’esecuzione dei lavori, l’affittuario è autorizzato a procedervi
direttamente. Appare dunque del tutto ingiustificata l’affermazione
che l’articolo 11 attribuisca alle parti solo in apparenza un eguale
potere In ordine all’esecuzione dei miglioramenti. Al contrario, la
parità è sostanziale quanto alle iniziative, e il procedimento
conserva al proprietario la priorità per l’esecuzione, attribuendo
giustamente all’affittuario il potere di provvedervi solo dopo avere
accertato il rifiuto o l’inerzia del proprietario: talché queste
disposizioni non possono considerarsi lesive né del principio di
eguaglianza, né delle garanzie costituzionali della proprietà.
L’ordinanza del tribunale di Ravenna lamenta la imposizione al
proprietario dei miglioramenti proposti dall’affittuario “per effetto
di un provvedimento amministrativo assunto discrezionalmente
dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura”; e quella del Consiglio
di Stato fà richiamo ai contributi, agevolazioni e garanzie che l’art.
13 accorda, per l’esecuzione dei miglioramenti, agli affittuari,
singoli o associati, con esclusione dei proprietari. Ma entrambe le
osservazioni sono carenti di fondamento: il parere vincolante
dell’Ispettorato agrario provinciale sui progetti tecnici di massima
delle opere di miglioramento è atto di controllo tecnico, soggetto al
normale sindacato di legittimità degli atti amministrativi, n regime
di contraddittorio tra le parti interessate; e d’altra parte l’art. 13
non riserva ai soli affittuari, bensì estende ad essi le provvidenze
accordate dalle leggi statali o regionali ai proprietari, ammettendone
la concessione direttamente agli affittuari che eseguano i
miglioramenti.
15. – Le ordinanze del tribunale di Brescia e del Consiglio di
Stato denunziano le disposizioni del primo comma dell’articolo 14, nel
presupposto che esse precludano ai proprietari di fondi concessi in
affitto a coltivatori diretti l’iniziativa e l’esecuzione di
miglioramenti, e rilevando la diversità della procedura di controllo
preventivo all’esecuzione delle relative opere, che integrerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento. Ma il presupposto appare
erroneo, perché la facoltà di eseguire miglioramenti è riconosciuta
ai proprietari dall’articolo 11 in termini generali, senza alcuna
limitazione all’ipotesi di affitto non coltivatori, sicché la prima
disparità di trattamento denunciata dalle ordinanze non sussiste.
L’art. 14 non consente all’affittuario coltivatore diretto altro
beneficio che quello di una semplificazione del procedimento per i
miglioramenti di cui assuma l’iniziativa, e sotto questo unico profilo
deve essere valutata la legittimità delle sue disposizioni.
Indubbiamente il primo comma dell’art. 14, a differenza da quanto
disposto dall’art. 11, non richiede la preventiva presentazione d’un
progetto tecnico di massima, ma una semplice comunicazione al locatore;
l’Ispettorato agrario provinciale può essere chiamato ad esercitare il
proprio controllo sulle iniziative dell’affittuario solo sull’eventuale
ricorso del proprietario; il silenzio dell’Ispettorato nel termine di
legge equivale a rigetto del ricorso, e rende senz’altro possibile
l’esecuzione dei miglioramenti. L’opportunità di questa diversa
disciplina può essere opinabile, anche per le considerazioni già
sopra svolte circa una troppo netta distinzione tra affittuari
coltivatori ed affittuari non coltivatori; ma questa Corte ritiene
peraltro che le disposizioni del primo comma dell’articolo 14 non
integrino una disparità di trattamento lesiva del principio di
eguaglianza, data la posizione di privilegio, differenziata rispetto a
quella degli altri imprenditori agricoli, che la legislazione vigente
accorda, sotto molteplici aspetti, ai coltivatori diretti, posizione
che può giustificare un diverso regime quanto all’esecuzione dei
miglioramenti, nel fine di esonerare questa categoria di
lavoratori-imprenditori da più complessi e costosi adempimenti
amministrativi, salva sempre la facoltà dei proprietari concedenti di
ricorrere all’Ispettorato contro eventuali iniziative non rispondenti
alle esigenze tecnico-economiche della conduzione aziendale. Anche il
codice civile, del resto, dettava per i miglioramenti norme speciali
nel caso di affitto a coltivatore diretto (cfr. artt. 1632 e seguenti
– 1651).
Fondata è invece la questione di costituzionalità rispetto al
secondo comma dell’art. 14 che attribuisce all’affittuario coltivatore
diretto la facoltà di esecuzione dei miglioramenti che sia in grado di
compiere col lavoro proprio e della famiglia, “senza dover seguire le
procedure previste dal precedente comma e dall’art. 11”, ossia senza
nemmeno darne comunicazione al proprietario del fondo. Ora, è vero che
l’art. 1651 del codice civile prevede l’eventualità che l’affittuario
abbia eseguito miglioramenti senza essere autorizzato dal locatore, ma
in tale ipotesi il giudice può attribuirgli una equa indennità solo
quando trattasi di miglioramenti di durevole utilità per il fondo, che
non siano il risultato dell’ordinata e razionale coltivazione; l’art.
14, invece, non pone alcun limite o requisito, salvo quello della
capacità di esecuzione diretta, escludendo qualsiasi possibilità di
divieto o di controllo, mentre altre norme della stessa legge accordano
all’affittuario, anche per tali modesti lavori di miglioramento, una
serie di diritti di grande importanza. Si impone pertanto la
dichiarazione di illegittimità dell’art. 14, secondo comma, per
contrasto con l’art. 3 in relazione agli artt. 41 e 42 Cost., per
l’irrazionale disparità di trattamento che, consentendo l’esecuzione
di migliorie anche inscio o invito domino, sacrifica oltre ogni giusta
misura i diritti del proprietario concedente.
16. – L’art. 12 della legge n. 11 del 1971 dispone che qualora
l’affittuario abbia eseguito a sue spese i miglioramenti con le
procedure di cui agli artt. 11 e 14, il contratto di affitto è
prorogato, alla scadenza, per un periodo non inferiore ad anni dodici,
e può altresì essere ceduto dall’affittuario ad uno o più componenti
della propria famiglia, anche senza il consenso del locatore; e d’altra
parte preclude al proprietario sia la possibilità di vendere il fondo,
con effetto risolutivo del rapporto, anche per la formazione della
proprietà coltivatrice, sia di riacquistare la disponibilità del
fondo per condurlo personalmente, quando abbia la qualifica di
coltivatore diretto. L’ordinanza del tribunale di Ravenna denunzia la
violazione degli artt. 3 e 42 Cost., ravvisando nelle disposizioni
dell’art. 12 “il tentativo di attribuire all’affittuario che abbia
eseguito i miglioramenti un diritto reale sul fondo stesso, che mal si
concilia con la specifica natura del rapporto di affitto”, ed
osservando che “tanto più grave appare l’incidenza sul diritto del
proprietario di disporre del proprio fondo, quando nello stesso art. 12
si prevede proprio contro il proprietario coltivatore diretto il
divieto di condurre direttamente il suo fondo”, ostacolando la
formazione della proprietà diretto coltivatrice a favore
esclusivamente degli affittuari.
Le illazioni del giudice a quo circa gli scopi perseguiti dal
legislatore sono ingiustificate, perché le disposizioni dell’art. 12
ricollegano all’esecuzione dei miglioramenti da parte degli affittuari
conseguenze giuridiche di notevole importanza, ma non comportano
tuttavia l’attribuzione, formale o sostanziale, d’un diritto reale sui
terreni migliorati. Nella ricordata sentenza n. 53 del 1974, la Corte
ha già avuto occasione di constatare che “negli sviluppi anche recenti
del nostro ordinamento positivo, l’iniziativa e l’esecuzione di opere
di trasformazione fondiaria come di miglioramento agrario, da parte dei
concessionari di fondi rustici altrui in base a contratti di tipo
associativo o commutativo, non hanno mai costituito titolo per
l’acquisto della proprietà, ma unicamente per la riduzione dei canoni,
per la proroga dei rapporti, per la corresponsione di una giusta
indennità”; e in applicazione di questi principi è stata dichiarata
la illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 18 dicembre
1970, n. 1138, che modificava la disciplina dei contratti di colonia e
di affitto con clausola migliorataria quando il colono o l’affittuario
avessero eseguito “opere di trasformazione fondiaria e agraria di
carattere sostanziale e permanente di qualunque tipo”.
La questione è peraltro fondata, per irrazionale uniformità di
disciplina di situazioni anche profondamente diverse, e per aperta
violazione della garanzia offerta dall’art. 42 Cost. al diritto di
proprietà, in quanto l’art. 12 fa discendere limitazioni tanto
rilevanti ai poteri di godimento e di disposizione dei proprietari
concedenti dalla esecuzione di miglioramenti a spese dell’affittuario,
senza alcuna specificazione circa la loro importanza qualitativa e
quantitativa, in rapporto alla estensione del fondo, agli ordinamenti
colturali, alle esigenze d’una razionale coltivazione, all’effettivo
incremento della produttività dei terreni. Solo l’indennità spettante
all’affittuario è dall’art. 15 commisurata “all’aumento di valore
conseguito dal fondo e sussistente alla fine dell’affitto”; ma nulla è
stabilito invece dall’art. 12, e la lacuna appare tanto più grave in
quanto l’art. 11 non contiene indicazioni circa l’entità dei
miglioramenti, e dichiara altresì che “sono considerati miglioramenti
anche le addizioni”, senza nemmeno far salvo il caso della loro
separabilità (cfr. artt. 975, 986, 1593 codice civile). La norma deve
quindi essere dichiarata illegittima nella parte in cui non limita gli
effetti giuridici ivi previsti a favore dell’affittuario che abbia
eseguito a sue spese miglioramenti, in relazione alle sole opere di
miglioramento che determinino un sostanziale e permanente aumento di
valore del fondo ed un apprezzabile incremento della sua produttività.
17. – Gli artt. 15 e 4 della legge del 1971 disciplinano le
conseguenze dell’esecuzione dei miglioramenti con disposizioni che
fanno alle due parti un trattamento nettamente differenziato. Il
locatore che abbia eseguito i miglioramenti può richiedere
all’affittuario l’aumento del fitto corrispondente alla nuova
classificazione del fondo (art. 15, primo comma), e, qualora le
migliorie non giustifichino una modifica della qualità e della classe
catastale, le commissioni tecniche provinciali possono stabilire
criteri e misure di un aumento del canone, purché questo non venga a
superare il livello corrispondente al coefficiente massimo stabilito
dalla legge (art. 4, terzo comma). L’affittuario che abbia eseguito i
miglioramenti ha invece diritto ad una indennità corrispondente
all’aumento di valore conseguito dal fondo, sussistente alla fine
dell’affitto o alla data di anticipata risoluzione del rapporto (art.
15, secondo comma), e le migliorie da lui apportate non danno luogo a
revisione del canone fin quando non sia stata corrisposta l’indennità
(art. 4, quarto comma). Le disposizioni dell’art. 15 si applicano, a
norma del sesto comma, “anche per i miglioramenti previsti nel
contratto e concordati dalle parti, o comunque eseguiti in data
anteriore all’entrata in vigore della presente legge”.
È palese il vizio di illegittimità delle disposizioni
dell’articolo 4, terzo comma, e dell’art. 15, primo comma, che, quando
il canone già corrisponda o sia prossimo al limite massimo di legge
fissato dall’art. 3, secondo comma, con le maggiorazioni per
coefficienti aggiuntivi previste dallo stesso art. 3, terzo e quarto
comma, non consentono una adeguata revisione del canone a favore del
proprietario miglioratore. Sono queste disposizioni che, specie a
fronte di quelle dettate a favore dell’affittuario miglioratore,
introducono una profonda e immotivata sperequazione tra le parti,
lesiva non solo del principio di eguaglianza, ma anche, come ha notato
il tribunale di Ravenna, dei poteri di iniziativa, di godimento, di
disposizione dei proprietari, e, sotto questo profilo, rendono solo
apparente la pari facoltà di eseguire miglioramenti, togliendo al ogni
interesse a nuovi investimenti nelle loro terre, disincentivando e
mortificando la proprietà proprio nella sua funzione sociale e
produttiva, sancita dagli artt. 42 e 44 della Costituzione. Deve
pertanto dichiararsi la illegittimità dell’art. 4, terzo comma, e
dell’art. 15, primo comma, in quanto non prevedono un’adeguata
revisione del canone nel caso di migliorie eseguite dal proprietario.
È denunciata anche la disposizione del sesto comma dell’art. 15,
che attribuisce efficacia retroattiva alla disciplina stabilita dal
primo comma e dall’art. 4: ma la questione viene meno in conseguenza
della pronuncia di incostituzionalità di quelle norme, e pertanto deve
essere dichiarata non fondata.
Non fondata è infine la questione relativa all’art. 4, quarto
comma, sollevata dal Consiglio di Stato: quando l’affittuario abbia
eseguito a sue spese i miglioramenti, non v’è ragione perché debba
farsi luogo a revisione del canone a favore del proprietario.
L’affittuario miglioratore beneficerà del frutto dei miglioramenti,
senza danno per il proprietario che, non avendo effettuato nuovi
investimenti, continuerà a percepire lo stesso canone, e alla fine del
rapporto sarà tenuto a pagare una indennità corrispondente al solo
aumento di valore del fondo allora sussistente.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 4, terzo
comma, e 15, primo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, nella
parte in cui non prevedono un’adeguata revisione del canone per il caso
di migliorie eseguite dal proprietario;
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 12, primo
comma, della stessa legge, nella parte in cui non limita gli effetti
giuridici ivi previsti a favore dell’affittuario che abbia eseguito a
sue spese miglioramenti, in relazione alle sole opere di miglioramento
che determinino un sostanziale e permanente aumento di valore del fondo
ed un apprezzabile incremento della sua produttività;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, secondo
comma, della stessa legge;
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 14, primo comma, della stessa
legge, sollevata dalle ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli
artt. 3, 41, 42 e 44 della Costituzione;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 4, quarto comma, 10, 11 e 15, sesto comma, della stessa
legge, sollevate dalle ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli
artt. 3, 41, 42 e 44 della Costituzione;
2) dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 2, primo
comma, della legge 10 dicembre 1973, n. 814, nella parte relativa alla
composizione delle commissioni tecniche provinciali;
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 3, secondo e
sesto comma, della stessa legge, nella parte in cui fissa tra 24 e 55,
e, con riferimento a un caso particolare, in 42 volte, i coefficienti
di moltiplicazione del reddito dominicale ai tini della determinazione
del canone;
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 3, undicesimo
comma, e dell’art. 4, secondo e terzo Comma, della stessa legge;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 1 e 3, terzo comma, lett. b. e quarto comma, della stessa
legge, sollevate dalle ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli
artt. 3, 41, 42 e 44 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1977.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
LEONETTO AMADEI – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO –
ANTONINO DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere