Sentenza N. 158 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
18/11/1970
Data deposito/pubblicazione
18/11/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/11/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promosso con ordinanza
emessa il 25 febbraio 1969 dal giudice istruttore del tribunale di Asti
nei procedimenti civili riuniti vertenti fra il fallimento Pompe
Anselmo – officine elettromeccaniche di Anselmo Alberto e f. – ed il
fallimento società Esercizio officine Giuseppe Anselmo, iscritta al n.
160 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 128 del 21 maggio 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 14 ottobre 1970 il Giudice relatore
Michele Fragali;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Il 25 febbraio 1969, il giudice istruttore del tribunale di Asti,
provvedendo sui procedimenti civili riuniti vertenti fra il fallimento
Pompe Anselmo, officine elettromeccaniche di Anselmo Alberto e f. e il
fallimento della società Esercizio officine Giuseppe Anselmo, emetteva
ordinanza con la quale denunziava di illegittimità costituzionale
l’art. 99 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) per
violazione degli artt. 3, 101, 104 e 108 della Costituzione.
Il giudice pronunziava in un procedimento di opposizione allo stato
passivo del fallimento Esercizio officine Giuseppe Anselmo e rilevava
che egli era istruttore della causa e nel tempo stesso delegato al
fallimento; che in questa seconda qualità aveva ampiamente discusso
l’ammissione dei crediti anche in contraddittorio col curatore e con i
creditori, ma non poteva astenersi dall’istruttoria della causa,
perché l’articolo denunciato demanda il relativo compito al giudice
delegato. Egli si trovava dunque in una ingiustificata posizione di
disuguaglianza rispetto agli altri giudici e in una corrispondente
posizione di disuguaglianza si trovano i cittadini, che sono costretti
a sottoporre l’accertamento dei loro crediti verso il fallito ad un
collegio di cui fa parte lo stesso giudice delegato; che perciò stesso
non si può ritenere giudice imparziale.
Interveniva, nel processo così instaurato, il Presidente del
Consiglio dei ministri il quale obiettava che non era leso nella specie
il principio di eguaglianza perché le diversità denunziate
dipendevano dalla necessità di dettare differenti regole processuali
per giudizi diversamente organizzati catione materiae; è regola
generale che partecipi al collegio anche il giudice dell’istruzione,
competente a prendere provvedimenti provvisori e quindi a conoscere e a
decidere sui vari punti della causa; perché il sospetto che il
giudice, il quale si è già espresso in un senso determinato,
difficilmente sarà indotto a mutare opinione muove da eventualità che
non impingono sul trattamento che la legge riserva ai cittadini;
perché la presenza nel collegio del giudice istruttore presenta il
vantaggio di poter disporre di un magistrato particolarmente informato
sulla vicenda del processo. Sul punto dell’imparzialità del giudice il
Presidente del Consiglio osserva che essa va intesa non in senso reale
ma in senso virtuale, e, per affermarla esistente, si deve tener conto,
non delle qualità personali del singolo magistrato e della sua
naturale tendenza a difendere ad oltranza le proprie opinioni, ma di
ogni circostanza obiettiva attinente alla alterità dell’affare, intesa
come assenza di qualsiasi interesse, diretto o indiretto, del giudice
nel processo. Gli artt. 101, 104 e 108 si riferiscono poi
all’indipendenza del giudice dagli altri poteri dello Stato; non cioè
ad un fatto della coscienza, ma all’esigenza obiettiva di sottrarre il
giudice ad ogni vincolo nei confronti di altri poteri.
All’udienza del 14 ottobre 1970 l’Avvocatura dello Stato ha
confermato le proprie tesi e conclusioni.
1. – Sostanzialmente l’ordinanza afferma che l’art. 99, primo
comma, della legge fallimentare, affidando allo stesso giudice che ha
approvato lo stato passivo l’istruttoria della causa di opposizione,
gli impedisce di adempiere all’obbligo di astensione di cui all’art.
51, n. 4, del codice di procedura civile e crea una sua diseguaglianza
con gli altri giudici che hanno conosciuto della causa in altro grado
del processo.
Senonché l’obbligo di astensione fatto al giudice nell’ipotesi
predetta si riferisce al caso in cui egli debba conoscere della stessa
causa in una sede di gravame, non ad una ipotesi, come quella di cui si
tratta, in cui il giudice è chiamato ad un riesame della sua pronuncia
in una fase ulteriore dello stesso grado di giudizio, a motivo di
opposizioni.
D’altro canto, con la norma impugnata, è la legge stessa che ha
escluso discrezionalmente l’esistenza di ragioni di convenienza tali da
impedire al giudice delegato di esplicare la funzione istruttoria: lo
ha escluso sul fondamento di criteri di evidente razionalità. Il
processo fallimentare è ispirato al principio della concentrazione
presso i suoi organi di ogni controversia che ne deriva; e ciò
determina collegamenti e interferenze processuali inevitabili, perciò
non rilevabili agli effetti della legittimazione del giudice, per la
prevalente apprezzabile esigenza di portare allo stesso organo
giurisdizionale tutto il procedimento e di ridurlo ad unità.
L’attività istruttoria relativa alla causa di opposizione allo
stato passivo non è, del resto, incompatibile con quella svolta in
precedenza dal giudice delegato, perché si rivolge al fine di
raccogliere elementi utili alla decisione del collegio con riguardo ai
motivi dell’opposizione, i quali possono portare nuovi elementi
decisivi per la pronunzia finale e nuovi profili: il giudice delegato
è il più idoneo a preparare il materiale probatorio necessario alla
pronuncia del tribunale, proprio perché ha diretto le operazioni
fallimentari ed è meglio in grado di acquisire conoscenze non falsate
circa i rapporti fra creditori e fallito. Non deve trascurarsi inoltre
il rilievo che talora l’attività del giudice istruttore si limita a
presiedere alle varie fasi di impulso del processo di opposizione e ad
indirizzarlo verso il più sollecito e leale svolgimento (art. 175,
primo comma, c.p.c.); e ciò non è certo incompatibile con l’attività
che egli ha precedentemente svolto per la formazione dello stato
passivo.
Il giudice delegato è competente ad apportare modificazioni allo
stato passivo da lui predisposto, a seguito delle contestazioni e delle
controversie dell’udienza di verificazione (art. 961. fall.);
cosicché, nella fase istruttoria della causa di opposizione, non fa
che continuare a ricercare ogni dato di controllo della situazione
creditoria. Ed è nella stessa condizione in cui si trova quando,
nell’udienza di verificazione, procede all’istruzione delle
contestazioni sullo stato provvisorio che egli aveva predisposto; con
la sola differenza che, in questo secondo caso, egli prepara una sua
pronuncia, mentre ex art. 99 avvia il processo verso la pronuncia del
tribunale.
2. – Quanto si è detto è rilevante anche ai fini dell’altro
profilo, prospettato dal giudice a quo, secondo il quale l’articolo 99
della legge fallimentare dà alla controversia un giudice non
imparziale.
Le ordinanze che il giudice delegato avrà occasione di emettere
nella sede istruttoria, anche se motivate, non possono pregiudicare mai
la pronuncia del tribunale (art. 177, primo comma, cod. proc. civ.). Il
giudice istruttore deve cioè partecipare alla formazione del giudizio
finale staccandosi dalla premessa delle sue pronuncie anteriori e dei
suoi anteriori atteggiamenti. È su questa linea che la sentenza di
questa Corte del 20 maggio 1970, n. 73, ha ritenuto che non viene meno
l’imparzialità del giudice quando egli decide in un procedimento nel
quale ha svolto funzioni amministrative, perché la sua appartenenza
all’ordine giudiziario e le garanzie costituzionali che ne assistono lo
stato giuridico lo pongono in grado di operare sempre con assoluta
obiettività. Nella successiva sentenza del 24 giugno 1970, n. 123, a
proposito della posizione del pretore, il quale in sede penale ha
compiti che sarebbero altrimenti del pubblico ministero, la Corte ha
rilevato che ciò non incide sulla libertà del giudizio conclusivo,
né rende il giudice, in alcun modo, interessato all’esito dl esso. Ha
soggiunto la Corte, nella prima sentenza, che l’esigenza di
imparzialità, la quale trova la sua manifestazione processuale
nell’istituzione stessa del giudice, non è di attesa dai particolari
modi di essere della disciplina legislativa dell’astensione o della
ricusazione; nella seconda sentenza poi ribaditi codesti principi, ha
considerato che il giudlce non persegue costituzionalmente altro
interesse fuori di quello, oggettivo, dell’accertamento della verità
(v. anche, già prima, sentenza 18 maggio 1967, n. 61).
Uno dei principi fondamentali del processo civile è, d’altronde,
quello della concentrazione, che vuole garantire, per ogni grado del
processo, la partecipazione dello stesso giudice alle varie fasi del
medesimo: e non soltanto si consegue in tal modo un rapido svolgimento
dell’attività giurisdizionale che sarebbe ritardata ove il mutamento
del giudice costringesse ogni volta a remore per permettere un nuovo
studio della causa, ma si ottiene il migliore rendimento dell’attività
stessa, la quale è condizionata dalla conoscenza integrale della
causa, conseguibile, fino al limite della possibilità, unicamente se
è sempre lo stesso giudice che partecipa al processo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 99, primo comma, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (legge
fallimentare), proposta dal giudice istruttore dei tribunale di Asti,
con ordinanza 25 febbraio 1969, in riferimento agli artt. 3, 101, 104
e 108 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 novembre 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.