Sentenza N. 20 del 1980
Corte Costituzionale
Data generale
15/02/1980
Data deposito/pubblicazione
15/02/1980
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/02/1980
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott.
MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA –
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN –
Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO
ANDRIOLI, Giudici,
della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per la lavorazione e
commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste
alimentari), promosso con ordinanza emessa il 17 giugno 1977 dal
Pretore di Milano, nel procedimento penale a carico di Moja Sergio ed
altro, iscritta al n. 454 del registro ordinanze 1977 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 327 del 30 novembre 1977.
Udito nella camera di consiglio dell’8 novembre 1979 il Giudice
relatore Oronzo Reale.
Nel corso di un procedimento penale nei confronti di Moja Sergio e
De Filippo Carlo, il Pretore di Milano, con ordinanza emessa in data 17
giugno 1977, sollevava questione incidentale di legittimità
costituzionale degli artt. 29 e 36 della legge 4 luglio 1967, n. 580
(Disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli
sfarinati, del pane e delle paste alimentari) con riferimento all’art.
41 della Costituzione.
Agli imputati si addebitava infatti l’importazione e vendita di
pasta alimentare (spaghetti) confezionata con impiego di “grano duro
macinato”, anziché con soli semola o semolato di grano duro, come
prescritto dall’art. 29 della legge n. 580 del 1967 sopra richiamata.
Il giudice a quo escludeva ogni contrasto della citata norma con
l’art. 32 della Costituzione, ma riteneva invece che la stessa norma
confliggesse con l’art. 41. E ciò perché il limite posto
all’iniziativa economica privata dalla legge n. 580 non troverebbe
giustificazione alcuna in motivi attinenti alla sicurezza, libertà e
dignità umana; né si vedrebbe come l’utilità sociale di proteggere
ed incentivare specifiche coltivazioni granarie particolarmente
praticate nell’Italia meridionale potrebbe essere minacciata dalla
introduzione in commercio di pasta “integrale”, pur sempre ottenuta con
il prodotto della macinazione del grano duro.
Neppure nell’esigenza di fornire al consumatore un prodotto
qualitativamente migliore potrebbe essere colta una ragione di utilità
sociale, atteso che ciò non escluderebbe, impregiudicata la
determinazione di un prezzo di vendita inferiore, la produzione e messa
in vendita di altro prodotto avente caratteristiche diverse.
Se poi si considera anche che il prodotto di che trattasi non può
essere neppure ricompreso fra i prodotti dietetici e non può pertanto
essere commerciato neppure come tale, apparirebbe evidente
l’ingiustificata compressione della iniziativa economica privata
attuata con le norme in esame, e il contrasto con quanto disposto
dall’art. 17 della stessa legge che consente il commercio del pane
integrale.
Il giudice a quo non ritiene peraltro che la sentenza n. 137 del
1971 della Corte costituzionale (con la quale fu dichiarata infondata
analoga questione sollevata dal Pretore di Nocera Inferiore) possa
essere considerata preclusiva alla riproposizione della questione
stessa.
Si osserva al riguardo che, in quella fattispecie, trattavasi della
produzione e del commercio di pasta di segala, prodotto di composizione
del tutto diversa dalla pasta integrale di grano duro; e che, dalla
motivazione della citata sentenza, pare potersi evincere che il
giudizio di legittimità rivendicato dalla Corte alla propria
competenza non potrebbe travalicare la rilevabilità di un intento
legislativo teso a perseguire l’utilità sociale e la generica
idoneità dei mezzi predisposti a tale scopo, senza che possa
verificarsi in concreto se sia corretto e giustificato il riferimento
ai motivi addotti dal legislatore per addivenire alla compressione di
un diritto costituzionalmente garantito.
Ritiene il Pretore di Milano che, al contrario, sia proprio
quest’ultimo il sindacato da compiersi, onde accertare se le
motivazioni addotte o gli intenti perseguiti dal legislatore non siano
infondati, illogici o arbitrari.
Su questa base, veniva sollevata la riferita questione di
legittimità costituzionale degli artt. 29 e 36 della legge 4 luglio
1967, n. 580, “almeno nella parte in cui non prevedono la possibilità
di impiego della farina ‘ integrale ‘ di grano duro nella produzione
della pasta alimentare” per preteso contrasto con l’art. 41 della
Costituzione.
L’ordinanza è stata notificata, comunicata e pubblicata ai sensi
di legge; non si sono avuti né costituzione di parte né intervento
dell’Avvocatura.
La Corte, con ordinanza n. 32 del 5 maggio 1979, depositata il 24
maggio 1979, “considerata l’opportunità, ai fini di una più completa
valutazione delle eventuali ragioni di carattere tecnico ravvisabili a
fondamento del divieto dell’uso di sfarinati di grano duro nella
produzione delle pasti alimentari e non del pane, contenuto nella legge
4 luglio 1967, n.580, di richiedere ai Ministeri dell’Agricoltura e
Foreste e della Sanità ogni utile elemento in loro possesso atto a
fornire chiarimenti al riguardo”, ordinò ai detti Ministeri di fornire
entro 60 giorni gli specificati elementi conoscitivi.
Con note del 4 luglio 1979 rispettivamente il Ministero della
Sanità e quello dell’Agricoltura e Foreste hanno dato riscontro alla
detta ordinanza.
1. – La Corte è chiamata a decidere se contrasti con l’articolo 41
della Costituzione, concernente la libertà di iniziativa economica
privata, il divieto, contenuto e sanzionato negli artt. 29 e 36 della
legge 4 luglio 1967, n. 580, di produrre e mettere in commercio paste
alimentari di farina integrale di grano duro, laddove il detto art. 29
consente soltanto paste di semola e di semolato di grano duro, con
esclusione del cosiddetto rimacinato.
Il giudice a quo afferma l’esistenza di tale contrasto, e quindi la
illegittimità costituzionale della norma denunciata, negando che
esistano valide ragioni di “utilità sociale” (oltreché motivi
attinenti alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana) per
comprimere l’esercizio della libera iniziativa esplicantesi nella
fabbricazione di pasta di farina integrale di grano duro destinata al
commercio.
Osserva il giudice a quo che se l’utilità sociale, legittimante la
norma, è da ravvisare nella protezione e incentivazione di specifiche
coltivazioni di grano duro dell’Italia meridionale, il motivo è
infondato perché anche la pasta “integrale” è composta di farina di
grano duro; e d’altra parte non si spiegherebbe perché la stessa legge
n. 580 all’art. 17 consenta il commercio di “pane integrale”.
Né, a giudizio del giudice a quo, potrebbe invocarsi, a fondamento
di una pronunzia di infondatezza della questione proposta, la sentenza
n. 137/1971 della Corte che dichiarò infondata analoga questione
concernente, però, il divieto di produzione e commercio della pasta di
segala: in quel caso, infatti, il motivo della protezione delle culture
di grano duro poteva reggere. Né, sempre a giudizio del Pretore di
Milano, la Corte dovrebbe arrestarsi, come dichiarò di dover fare nel
precedente citato, di fronte alla rilevabilità dell’intento
legislativo di perseguire un fine di utilità sociale con mezzi
genericamente idonei, senza verificare la validità e congruità dei
motivi indicati dal legislatore.
2. – Per meglio identificare tali motivi la Corte, a integrazione
di quanto risultava dai lavori preparatori della legge n. 580, richiese
ai Ministeri della Sanità e dell’Agricoltura e Foreste, con
l’ordinanza di cui in narrativa, ogni utile elemento in loro possesso.
Il Ministero della Sanità ha risposto comunicando, per quanto di
sua competenza, che “non vi sono ragioni di ordine igienico – sanitario
a fondamento del divieto dell’uso degli sfarinati di grano duro
integrale nella produzione delle paste alimentari”, rilevando “anzi,
che in base alle più moderne acquisizioni della scienza
dell’alimentazione, la fibra alimentare presente nei cereali esplica
un’utile azione per la prevenzione di alcune malattie dismetaboliche e
dell’apparato digerente e pertanto è auspicabile che venga messa a
disposizione dei consumatori, oltre che la pasta avente i requisiti
attualmente previsti dalla citata legge n. 580, anche una pasta
integrale”.
Il Ministero dell’Agricoltura e Foreste ha comunicato che
“l’esclusivo impiego del grano duro nella produzione di paste
alimentari secche discende, in primo luogo, da esigenze di difesa e
valorizzazione del particolare tipo di cultura del grano duro”,
produzione tipicamente italiana di bassi rendimenti unitari, che
rappresenta generalmente in alcune zone la “pressoché sola valida
alternativa di coltivazione”; “ne consegue che il legislatore ha inteso
sostenere la domanda di grano duro”, vietando lo sfruttamento integrale
della granella con conseguente notevole maggior consumo di grano per
ogni quantità di pasta prodotta, e con l’ulteriore utile conseguenza
di un maggior residuo di cruscami ad uso alimentare zootecnico.
Ha aggiunto, il detto Ministero, alcune considerazioni a
spiegazione del diverso trattamento dato al pane (che, come è noto,
può essere di farina integrale) fra le quali: il fatto che il pane
integrale “trova, in tradizione di gusto e di utilizzazione di
circoscritte fasce rurali, idonea giustificazione di permissività”, e
il fatto che il pane, prodotto di immediato consumo, consente la
“integrale utilizzazione della granella senza possibilità di
alterazioni organolettiche”, le quali invece si verificherebbero nelle
paste “destinate ad utilizzazioni differite nel tempo”.
3. – La motivazione che il Ministero dell’Agricoltura e Foreste
fornisce del divieto di produzione e commercializzazione della pasta di
farina integrale di grano duro corrisponde a quella sostanzialmente
risultante dalla discussione parlamentare che si concluse con
l’approvazione della legge n. 580 del 1967. Anche allora (pur nella
differente posizione dei Ministeri della Sanità e dell’Agricoltura) la
considerazione prevalente e decisiva fu quella della necessaria difesa
della produzione italiana di grano duro, che avrebbe potuto essere
danneggiata e disincentivata da una integrale utilizzazione dello
sfarinato e quindi da una minore quantità di grano per produrre la
quantità di pasta assorbita dal consumo.
Vero è che già nella detta discussione parlamentare si era
obiettato che la produzione nazionale di grano duro era insufficiente
anche a produrre la pasta secondo le prescrizioni della legge, tanto
che l’Italia era importatrice di forti quantità di grano duro (e
quindi un integrale sfruttamento della farina avrebbe causato non un
danno alla produzione nazionale, ma solo una diminuzione
dell’importazione). Il che è stato confermato alla Corte dal Ministero
del Commercio Estero su dati già pubblicati dal Bollettino ISTAT nel
senso che le importazioni di grano duro (in grandissima prevalenza di
provenienza extraeuropea) sono andate sempre crescendo in quantità e
valore, giungendo nel 1978 a ben oltre un milione di tonnellate, delle
quali solo meno di 193.000 in temporanea importazione. Sicché la
motivazione della protezione delle culture nazionali ne risulta in
fatto gravemente indebolita.
E vero ancora che il Ministero della Sanità, come si è visto,
ritiene auspicabile, ai fini di “un’utile azione per la prevenzione di
alcune malattie dismetaboliche e dell’apparato digerente” che sia messa
a disposizione dei consumatori anche una pasta integrale.
4. – Ma la Corte, tenendo anche presente che la questione sollevata
si riferisce solo all’art. 41, della Costituzione, cioè all’esistenza
o inesistenza, in concreto, di ragioni di utilità sociale legittimanti
la compressione dell’iniziativa economica privata, deve arrestarsi
(contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo) di fronte alla
valutazione che il legislatore ha fatto degli elementi del problema e
che l’hanno portato a ritenere l’esistenza e congruità dei motivi
posti a fondamento della sua statuizione; sicché solo al legislatore
spetta un’eventuale nuova valutazione complessiva di tutti quegli
elementi, anche emersi nel presente giudizio.
Con ciò la Corte si conforma alla sua giurisprudenza, più
specificamente affermata con la sentenza n. 137 del 1971, nel senso che
il potere della Corte medesima “di giudicare in merito alla utilità
sociale alla quale la Costituzione condiziona la possibilità di
incidere” sui diritti della iniziativa economica privata, concerne solo
“la rilevabilità di un intento legislativo di perseguire quel fine”
(di utilità sociale) “e la generica idoneità dei mezzi predisposti
per raggiungerlo”.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 36 e 29 della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per
la lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e
delle paste alimentari), sollevata dal Pretore di Milano con ordinanza
del 17 giugno 1977 (Reg. ord. n. 454 del 1977) in riferimento all’art.
41 della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere