Sentenza N. 207 del 1982
Corte Costituzionale
Data generale
09/12/1982
Data deposito/pubblicazione
09/12/1982
Data dell'udienza in cui è stato assunto
30/11/1982
MICHELE ROSSANO – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Prof. LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO
MACCARONE – Prof. VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott.
FRANCESCO SAJA – Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO, Giudici,
10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la
criminalità) promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 febbraio 1976 dal tribunale di Brindisi
nel procedimento penale a carico di Tetesi Antonio, iscritta al n. 409
del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 177 del 7 luglio 1976;
2) cinque ordinanze emesse il 20 e il 27 maggio, il 10 giugno ed il
31 ottobre 1977 e il 3 aprile 1978 dal tribunale di Belluno, nei
procedimenti penali a carico, rispettivamente di Case Mario ed altro,
Zanzottera Guido, Costa Pietro, Sacchet Osvaldo e Penzo Franco,
iscritte ai nn. 396, 339 e 465 del registro ordinanze 1977 e ai nn. 222
e 512 del registro ordinanze 1978 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 286 del 19 ottobre 1977, n. 265 del 28 settembre
1977, n. 334 del 7 dicembre 1977, n. 186 del 5 luglio 1978 e n. 17 del
17 gennaio 1979;
3) ordinanza emessa il 25 ottobre 1979 dal tribunale di Milano nel
procedimento penale a carico di Merlino Angela ed altri, iscritta al n.
787 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 357 del 31 dicembre 1980;
4) ordinanza emessa il 4 febbraio 1980 dal tribunale di Grosseto
nel procedimento penale a carico di Squarcia Giuliano ed altro,
iscritta al n. 157 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 131 del 14 maggio 1980.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 1982 il Giudice relatore
Antonino De Stefano;
udito l’avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
1. – Nelle parti relative alla misura delle pene detentive
comminate per i reati di detenzione e porto illegali di “armi comuni da
sparo”, il Tribunale di Brindisi, nel corso di un procedimento penale a
carico di Tetesi Antonio, con ordinanza 23 febbraio 1976 ha sottoposto
al giudizio di questa Corte gli artt. 10, 12 e 14 della legge 14
ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità). Di fronte al
principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione – si
rileva nell’ordinanza – non si giustifica che tali pene, sia riguardo
al minimo (“mesi otto, e, rispettivamente, un anno e quattro mesi di
reclusione”), sia riguardo al massimo, siano superiori a quelle che
l’art. 23, commi terzo e quarto, della legge 18 aprile 1975, n. 110
(Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle
armi, delle munizioni e degli esplosivi), a sua volta prevede per le
ipotesi (secondo il tribunale sicuramente più gravi) della detenzione
e del porto d’armi da sparo “clandestine” (quali, secondo quanto
previsto al primo comma dello stesso art. 23, vanno considerate le armi
da sparo “non catalogate” o “sprovviste dei prescritti numeri,
contrassegni e sigle”). In base al richiamato principio costituzionale
della eguaglianza, infatti, “come a situazioni eguali debbono
corrispondere eguali diritti ed eguale tutela giurisdizionale, così ad
uno stesso fatto, ritenuto penalmente illecito, non può che
corrispondere una sanzione meno severa nell’ipotesi attenuata e una
sanzione più severa nell’ipotesi aggravata”. Non conformi a tali
esigenze le norme impugnate sarebbero perciò – secondo il giudice a
quo – in contrasto col precetto costituzionale.
Adempiute le formalità di rito, dinanzi alla Corte è intervenuta,
per il Presidente del Consiglio dei ministri, l’Avvocatura dello Stato,
secondo la quale, dato che le imputazioni di cui il su nominato Tetesi
è chiamato a rispondere nel processo a quo, consistono in due
contravvenzioni, previste dal codice penale agli artt. 697 (detenzione
abusiva di armi) e 699 (porto abusivo di armi), punibili, tutt’al più,
con l’arresto, non si comprenderebbe come esse consentano di proporre
la questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale.
Probabilmente – soggiunge l’Avvocatura – altri sono i reati che il
giudice a quo ritiene debbano essere contestati all’imputato, ma ciò
non risulta in alcun modo, né dai capi di imputazione, né dagli atti
processuali. I quali dovrebbero, quindi, essere restituiti al
tribunale, perché, sul punto relativo alla rilevanza della proposta
questione, dia la necessaria – e allo stato mancante – motivazione.
2. – Una questione del tutto analoga, sempre in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, ma nei confronti, oltre che degli artt.
10, 12 e 14 della legge n. 497 del 1974, dell’art. 9 della stessa legge
(riguardante la “cessione” di armi), è stata altresì sollevata, su
istanza della difesa e concorde richiesta del pubblico ministero, con
due ordinanze, di motivazione pressoché identica, del tribunale di
Belluno, emesse, in data 20 e 27 maggio 1977, nel corso di altrettanti
procedimenti penali, a carico di Case Mario e Biasuz Roberto, e,
rispettivamente, di Zanzottera Guido.
La soluzione del dubbio di legittimità costituzionale – afferma in
entrambe le ordinanze il giudice a quo – è rilevante ai fini della
decisione del procedimento penale. Quanto alla non manifesta
infondatezza del dubbio stesso, riguardo agli artt. 10, 12 e 14 della
legge n. 497 (detenzione e porto di armi), i motivi accolti dal
tribunale di Belluno ricalcano quelli esposti nella su riferita
ordinanza – alla quale viene fatto esplicito richiamo – del tribunale
di Brindisi. Inoltre, per quel che particolarmente attiene alla
cessione illegale – prevista, riguardo alle armi comuni da sparo,
dall’art. 9 -il giudice a quo osserva che anche rispetto a questa
ipotesi (sia pure limitatamente alla pena pecuniaria) la norma
impugnata rivela una maggiore ingiustificata severità, rispetto alla
sanzione comminata dall’art. 23, comma secondo, della legge n. 110 del
1975, per quella, indubbiamente più grave, della cessione di armi
“clandestine”.
Intervenuta, anche in questi giudizi, per il Presidente del
Consiglio dei ministri, l’Avvocatura dello Stato ha chiesto che la
questione sollevata sia dichiarata priva di fondamento. Le fattispecie
delittuose poste a raffronto agli effetti della loro gravità e in
relazione alle conseguenti pene per esse rispettivamente previste, sono
del tutto differenti: quelle di cui agli artt. 10 e 12 della legge n.
497, concernenti le “armi da guerra” e rese valide per le “armi comuni
da sparo” dal successivo art. 14, si riferiscono, rispettivamente, alla
detenzione ed al porto di armi, la cui illiceità deriva dalla carenza
dei prescritti titoli di polizia. Le disposizioni dell’art. 23, terzo e
quarto comma, della legge n. 110, presuppongono, invece, l’esistenza
dell’autorizzazione di p.s. per la detenzione e per il porto (come
dimostra la previsione di revoca dell’autorizzazione e di confisca
delle armi, di cui al quinto comma dello stesso art. 23), e l’illiceità
è in sostanza riferibile solo al tipo dell’arma posseduta. Secondo
l’Avvocatura non è, quindi, irrazionale, che il legislatore abbia
ritenuto una certa condotta più grave, allorché si riferisca ad armi
per le quali la detenzione ed il porto mancano dei prescritti titoli di
polizia, e meno grave quando invece si riferisca ad armi cosiddette
“clandestine” ma autorizzate. Un problema di politica legislativa –
quale sarebbe quello in tal modo risolto dal legislatore – non può
essere confuso con un problema di legittimità costituzionale.
3. – In base a motivi del tutto identici a quelli addotti nelle
precedenti ordinanze, la medesima questione, in relazione all’art. 23,
comma terzo, della legge n. 10 del 1975, e all’art. 3, comma primo,
della Costituzione, nei confronti dei soli artt. 10 e 14 della legge n.
497 del 1974, è stata ritenuta non manifestamente infondata dal
tribunale di Belluno anche in altre tre ordinanze, emesse il 10 giugno
e il 31 ottobre 1977, e il 3 aprile 1978, nel corso di altrettanti
procedimenti penali a carico, rispettivamente, di Costa Pietro, Sacchet
Osvaldo e Penzo Franco.
In nessuno dei giudizi promossi con le tre suindicate ordinanze si
sono avute costituzioni di parti private o interventi del Presidente
del Consiglio dei ministri.
4. – La questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e
14 della legge n. 497 del 1974, nella parte in cui puniscono la
detenzione illegale di armi non considerate clandestine, più
gravemente di quanto faccia per le armi clandestine l’art. 23 della
legge n. 110 del 1975, è stata ritenuta non manifestamente infondata,
in riferimento all’art. 3 della Costituzione, e rilevante nella
fattispecie, anche in una ordinanza, emessa il 4 febbraio 1980 dal
tribunale di Grosseto.
Secondo il tribunale “non può non cogliersi l’evidente
sperequazione di trattamento riservata alle due diverse fattispecie,
nelle quali quella oggettivamente più grave è punita con pena più
lieve, onde il giudice, pur muovendo dalla pena minima edittale, è
costretto ad infliggere all’imputato del reato di cui agli artt. 10 e
14 della legge n. 497 del 1974, una pena maggiore di quella che, per
una violazione più grave, può essere nel minimo inflitta a chi
risponda del reato di cui all’art. 23 della legge n. 110 del 1975”.
La questione è stata sollevata, su eccezione della difesa, nel
corso di un procedimento a carico di Squarcia Giuliano e Serafino
Vincenzo, chiamati a rispondere, in concorso fra loro, secondo quanto
risulta dalla stessa ordinanza, della detenzione di un’arma da essi mai
denunciata.
5. – Le suindicate disposizioni degli artt. 10 e 14 della legge n.
497 del 1974 sono state impugnate anche con una ordinanza, in data 25
ottobre 1979, del tribunale di Milano. La questione è stata sollevata,
su eccezione della difesa di uno degli imputati, Merlino Angela, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, nel corso di un procedimento
penale, nel quale alla stessa Merlino e ad Agresta Giovanni erano stati
contestati, con altri, i reati previsti e puniti dagli artt. 10 e 14
della legge n. 497 del 1974, e 23, comma secondo, della legge n. 110
del 1975, per avere, in concorso fra loro, “illegalmente detenuto una
pistola Browning 7,65, con la matricola abrasa, e perciò da ritenersi
arma clandestina”.
Nell’ordinanza di rinvio – premesso che, pur essendo prerogativa
del legislatore stabilire, in base a scelte di politica criminale, la
misura della pena nelle singole fattispecie, l’uso di tale potere
discrezionale deve ispirarsi al rispetto del generale principio di
ragionevolezza e dei principi costituzionali – si osserva che senza
dubbio la detenzione di arma “clandestina” è fatto di più grave
entità, sotto ogni profilo, rispetto alla detenzione di arma comune, e
pertanto non appare ragionevole aver previsto, per la prima ipotesi,
sanzioni penali più lievi, nel minimo e nel massimo, di quelle
previste per la seconda. In ciò, secondo il giudice a quo, il
denunciato contrasto con il dettato dell’art. 3 della Costituzione, in
base al quale, come situazioni identiche devono avere una eguale
disciplina, così situazioni penalmente rilevanti, fra loro diverse,
devono essere sanzionate in modo da rispettare il principio che a fatto
più grave corrisponda una misura afflittiva più severa e a fatto meno
grave una più lieve sanzione.
Né varrebbe obiettare – prosegue l’ordinanza – che, essendo
diversi gli interessi protetti dalle due normative in questione, le due
previsioni criminose, in conseguenza di tale diversa oggettività
giuridica, potrebbero tra loro concorrere. Si tratta, infatti, di una
interpretazione, come tale pur sempre opinabile, alla quale non è
stata forse estranea la necessità di superare la irrazionalità del
trattamento punitivo adottato dal legislatore. Comunque – si aggiunge –
proprio la possibilità di interpretazioni diverse comporta la
disparità di trattamento di fattispecie uguali.
Oltre che non manifestamente infondata, per le ragioni suesposte,
la questione appare al tribunale rilevante, nel caso di specie,
“nonostante che l’imputata – così testualmente l’ordinanza – debba
rispondere non di detenzione di arma comune, bensì di detenzione di
arma clandestina”. “L’imputata, infatti – prosegue il giudice a quo –
dovendo rispondere, allo stato, dei due reati a lei contestati in
concorso, potrebbe subire, in caso di condanna, pregiudizio in
conseguenza dell’esercizio del potere discrezionale, demandato al
giudice ex art. 81 cod. pen., nella determinazione concreta della
pena”.
6. – Nel giudizio promosso dal tribunale di Grosseto, ed in quello
promosso dal tribunale di Milano, non si sono avute costituzioni di
parti private, o interventi del Presidente del Consiglio dei ministri.
7. – Alla pubblica udienza del 6 ottobre 1982, dopo che il giudice
Antonino De Stefano ha svolto la relazione, l’avvocato dello Stato
Giorgio Azzariti ha insistito per la restituzione degli atti al giudice
a quo nel giudizio promosso con l’ordinanza del tribunale di Brindisi,
e per la dichiarazione di non fondatezza delle questioni deferite con
le due ordinanze del tribunale di Belluno, nei cui giudizi è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Le otto ordinanze di cui in narrativa deferiscono alla Corte
questioni di legittimità costituzionale, in parte identiche in parte
connesse, aventi ad oggetto gli artt. 9, 10, 12 e 14 della legge 14
ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità), nelle parti
relative alla misura delle pene previste per i delitti di cessione
senza licenza dell’autorità, detenzione illegale e porto illegale in
luogo pubblico o aperto al pubblico, di armi comuni da sparo.
Pertanto, i relativi giudizi vengono riuniti per esser decisi con
unica sentenza.
2. – Nell’ordinanza del tribunale di Brindisi la rilevanza nel
giudizio a quo della sollevata questione è affermata apoditticamente,
senza il minimo riferimento alla concreta fattispecie, come giustamente
eccepisce l’Avvocatura dello Stato. La stessa carenza in punto di
rilevanza è dato riscontrare nelle cinque ordinanze del tribunale di
Belluno. Deve pertanto, in armonia con la costante giurisprudenza di
questa Corte (si vedano, da ultimo, le sentenze n. 201 del 1981 e nn.
108, 109 e 158 del 1982), dichiararsi la inammissibilità delle
proposte questioni.
3. – Con le due rimanenti ordinanze, dei tribunali di Grosseto e di
Milano, viene sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 14 della
legge n. 497 del 1974 (rectius, degli artt. 2 e 7 della legge 2 ottobre
1967, n. 895, nei testi rispettivamente sostituiti dagli artt. 10 e 14
della legge n. 497 del 1974), nella parte in cui puniscono la
detenzione illegale di armi comuni da sparo, più severamente di quanto
il comma terzo dell’art. 23 della legge 18 aprile 1975, n. 110, preveda
per la detenzione di armi considerate “clandestine” a norma del comma
primo dello stesso articolo. In ciò i giudici a quibus ravvisano una
sperequazione di trattamento, in quanto la detenzione di “arma
clandestina” sarebbe fatto di più grave entità rispetto alla
detenzione illegale di arma comune, e pertanto non apparirebbe
ragionevole che il legislatore abbia previsto, per la prima ipotesi,
sanzioni penali più lievi di quelle previste per la seconda.
4. – La questione non è fondata.
Giova premettere che la Corte di cassazione ha più volte affermato
che le norme, che i giudici a quibus hanno posto a raffronto nelle
ordinanze di rimessione, prevedono due condotte criminose, diverse e
compatibili, in quanto violatrici di due distinti precetti legislativi,
ispirati da ragioni ed esigenze diverse. La illegalità della
detenzione dell’arma comune da sparo, prevista dal combinato disposto
delle impugnate norme, deriva dall’aver omesso la denuncia dell’arma
detenuta, in violazione dell’obbligo sancito dall’art. 38 del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno
1931, n. 773: obbligo preordinato acché l’Autorità di pubblica
sicurezza abbia tempestiva conoscenza delle persone che detengono armi
e dei luoghi dove queste sono custodite. La normativa dettata per le
armi “clandestine” soddisfa, invece, l’esigenza che tutte le armi
comuni da sparo esistenti nello Stato siano “catalogate” e munite dei
prescritti segni di identificazione, allo scopo di render possibile il
controllo sulla singola arma, nell’ambito di iniziative adottate – come
sottolineato nei lavori parlamentari relativi alla legge n. 110 del
1975 – per corrispondere a “precise istanze di difesa e di sicurezza
sociale diffusamente avvertite in relazione al ripetersi di fenomeni
criminosi particolarmente gravi”. Ben può darsi, dunque, che s’incorra
nella violazione soltanto dell’una o soltanto dell’altra norma, a
seconda che si detenga, senza averne fatto denuncia, un’arma
regolarmente catalogata e munita dei prescritti contrassegni, o si
detenga un’arma, della quale sia stata fatta denuncia, ma che va
considerata “clandestina”, perché il suo prototipo non è stato
iscritto nel catalogo nazionale ai sensi dell’art. 7 della legge n. 110
del 1975, o perché sprovvista dei numeri, dei contrassegni e delle
sigle di cui all’art. 11 della stessa legge. E può darsi, invece, che
s’incorra nella violazione di ambo le norme, detenendo, senza averne
fatto denuncia, un’arma “clandestina”; nel qual caso si configura un
concorso formale di reati, avendo la Corte di cassazione ritenuto
inapplicabile il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., in
quanto la tutela giuridica e l’oggettività dei fatti incriminati sono
diverse ed autonome.
Alla luce della richiamata costante giurisprudenza, non appare
viziata da irrazionalità la scelta operata dal legislatore, che
riguardo a due distinte condotte criminose, ha considerato, nella
discrezionalità delle valutazioni di sua competenza, più grave la
detenzione di arma non denunciata rispetto alla detenzione di arma
denunciata ma “clandestina”, ed ha conseguentemente riservato al primo
reato un trattamento penale più severo di quello comminato per il
secondo; fermo restando il loro concorso formale, qualora si tratti di
detenzione di arma non denunciata e “clandestina”.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i procedimenti iscritti ai nn. 409 R.O. 1976, 339, 396 e
465 R.O. 1977, 222 e 512 R.O. 1978, 157 e 787 R.O. 1980,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
con le ordinanze del 23 febbraio 1976 (n. 409 R.O. 1976) del tribunale
di Brindisi, del 20 maggio (n. 396 R.O. 1977), 27 maggio (n. 339 R.O.
1977), 10 giugno (n. 465 R.O. 1977) e 31 ottobre 1977 (n. 222 R.O.
1978), nonché del 3 aprile 1978 (n. 512 R.O. 1978) del tribunale di
Belluno, degli artt. 9, 10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497
(Nuove norme contro la criminalità);
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con le
ordinanze del 25 ottobre 1979 (n. 787 R.O. 1980) del tribunale di
Milano, e del 4 febbraio 1980 (n. 157 R.O. 1980) del tribunale di
Grosseto, degli artt. 10 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497
(Nuove norme contro la criminalità).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 30 novembre 1982.
F.to: ANTONINO DE STEFANO – MICHELE
ROSSANO – GUGLIELMO ROEHRSSEN –
ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – VIRGILIO ANDRIOLI –
GIUSEPPE FERRARI – FRANCESCO SAJA –
GIOVANNI CONSO – ETTORE GALLO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere