Sentenza N. 269 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
24/06/2002
Data deposito/pubblicazione
24/06/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/06/2002
Presidente: Cesare RUPERTO;
Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,
Valerio ONIDA, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE;
della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per
la stabilizzazione e lo sviluppo – Legge finanziaria 1999), promosso
con ordinanza emessa il 31 luglio 2001 dal Tribunale di Ravenna nel
procedimento civile Ragusa Carmela contro INPS, iscritta al n. 864
del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 43, 1ª serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di costituzione dell’I.N.P.S. nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2002 il giudice relatore
Fernanda Contri;
Udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
l’I.N.P.S., il Tribunale di Ravenna, con ordinanza emessa il
31 luglio 2001, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione,
dell’art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure
di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo – Legge
finanziaria 1999), nella parte in cui, nell’escludere il titolo
all’indennità di disoccupazione in caso di dimissioni, non distingue
tra dimissioni per giusta causa ed altre forme di recesso del
prestatore.
Il giudice a quo premette in fatto che Carmela Ragusa ha agito
contro l’I.N.P.S. chiedendo la condanna dell’Istituto al pagamento,
con gli accessori di legge, dell’indennità di disoccupazione con
requisiti ridotti ex art. 7 del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 160 del 1988, in
relazione all’anno 1999 in cui si era verificato uno stato di
disoccupazione conseguente alle dimissioni per giusta causa,
comunicate dalla lavoratrice al datore di lavoro, responsabile per
non aver soddisfatto il pagamento delle retribuzioni maturate nel
periodo da gennaio ad aprile 1999.
Il diniego della prestazione da parte dell’Istituto
previdenziale, motivato in base alla previsione dell’art. 34, comma
5, della legge n. 448 del 1998, viene contestato dall’attrice nel
giudizio a quo sul rilievo che il citato disposto normativo,
nell’escludere il titolo all’indennità in caso di dimissioni, non
può ragionevolmente riferirsi anche alle ipotesi di risoluzione per
giusta causa.
Il diniego della prestazione da parte dell’Istituto
previdenziale, motivato in base alla previsione dell’art. 34, comma
5, della legge n. 448 del 1998, viene contestato dall’attrice nel
giudizio a quo sul rilievo che il citato disposto normativo,
nell’escludere il titolo all’indennità in caso di dimissioni, non
può ragionevolmente riferirsi anche alle ipotesi di risoluzione per
giusta causa.
2. – Il Tribunale di Ravenna, acquisita la documentazione
sull’esistenza del credito retributivo, rimette la questione dinanzi
a questa Corte, ritenendola rilevante in quanto il riferimento
contenuto nella disposizione censurata alla “cessazione del rapporto
di lavoro per dimissioni” non consentirebbe di interpretare
l’enunciato per giungere alla conclusione che nel suddetto fenomeno
non sarebbero comprese le dimissioni dettate da giusta causa ai sensi
dell’art. 2119 cod. civ.
Nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice rimettente osserva che il secondo comma dell’art. 38 della
Costituzione sancisce, tra l’altro, il diritto ad una protezione
previdenziale dei lavoratori estesa ai casi di disoccupazione
involontaria e che i requisiti posti dalla legislazione vigente alla
base della provvidenza economica per la disoccupazione sono
generalmente riferiti ad una condizione che ha le sue radici nella
mancanza di lavoro involontaria (artt. 45 e 73 r.d.l. n. 1827 del
1935). La suddetta condizione sarebbe rinvenibile non solo nella
perdita del lavoro conseguente alla cessazione involontaria del
rapporto, ma anche in altre ipotesi, quali “le sospensioni
giornaliere della relazione subordinata” e “i periodi di sosta
afferenti alle lavorazioni stagionali” rispetto ai quali questa Corte
ebbe a pronunziarsi con la sentenza n. 160 del 1974, dalla cui
motivazione, a giudizio del rimettente, può ricavarsi che l’adesione
del prestatore “ad un’attività essenzialmente qualificata da
interruzioni rappresenta una circostanza che coincide con una carenza
di lavoro realmente involontaria, poiché il più delle volte
l’adesione ad una simile attività è imposta dalle condizioni del
mercato del lavoro concretandosi, in tal modo, una vera e propria
mancanza di scelta per il prestatore tra più alternative possibili”.
Anche le dimissioni indotte da una causa insita in un difetto
funzionale del rapporto di lavoro subordinato, così grave da
impedire persino la provvisoria prosecuzione della relazione
(art. 2119 cod. civ.), comporterebbero, secondo il giudice a quo uno
stato di disoccupazione involontaria, per cui la norma censurata, non
distinguendo questa ipotesi da quella delle dimissioni riconducibili
ad una libera scelta del lavoratore e integranti uno stato di
disoccupazione volontaria, contrasterebbe con gli artt. 3 e 38 della
Costituzione.
3 – Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituito
l’Istituto nazionale della previdenza sociale, per chiedere che la
questione sollevata sia dichiarata infondata.
Ad avviso dell’I.N.P.S., l’esclusione del diritto all’indennità
in caso di dimissioni trarrebbe fondamento e legittimazione
dall’art. 38 della Costituzione che, al secondo comma, prevede
l’intervento previdenziale a sostegno del lavoratore nell’ipotesi di
disoccupazione involontaria, tale non potendosi considerare, a
livello di garanzia costituzionale, la condizione del lavoratore il
cui rapporto sia cessato per effetto di una sua libera
determinazione. Né potrebbero assumere rilevanza le ragioni della
scelta operata che, se pur idonee a giustificare l’immediato recesso
dal rapporto, non toglierebbero all’atto il carattere della
volontarietà, essendo peraltro comunque possibile per il lavoratore
scegliere tra l’uscita (con conseguente disoccupazione) o la
permanenza in azienda, restando pur sempre nel secondo caso la
possibilità di altri mezzi di tutela, compreso il ricorso all’azione
giudiziaria, per la realizzazione del credito retributivo maturato.
Secondo l’I.N.P.S., non sarebbe peraltro nemmeno del tutto
pacifico nella giurisprudenza di legittimità che il mancato
pagamento di alcune retribuzioni costituisca inadempienza talmente
grave da giustificare l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro
(Cass. Sez. lav., 22 dicembre 1987, n. 9589) e comunque la stessa
giurisprudenza non mancherebbe di rilevare che nel caso di dimissioni
l’effetto risolutorio del rapporto scaturirebbe pur sempre da un atto
di volontà del lavoratore, anche nell’ipotesi di giusta causa (Cass.
Sez. lav., 25 marzo 1996, n. 2632).
Rileva ancora l’INPS che il nostro ordinamento, anche prima della
legge n. 448 del 1998, avrebbe considerato con sfavore la cessazione
del rapporto per iniziativa del lavoratore, ritenuta non meritevole
dello stesso trattamento riservato al lavoratore che “subisce” il
licenziamento. Nella previgente normativa le dimissioni comportavano
infatti la perdita del trattamento in questione per trenta giorni
(art. 75 r.d.l. n. 1827 del 1935), nonché l’esclusione del
trattamento speciale di disoccupazione di cui all’art. 8 della legge
n. 1115 del 1968, oggi sostituito dal trattamento di mobilità
introdotto dalla legge n. 223 del 1991 (Cass. Sez. lav. 27 novembre
1990, n. 11374; 24 agosto 1995, n. 8970), e del trattamento speciale
di disoccupazione ai sensi dell’art. 9 della legge n. 427 del 1975
riservato alle imprese edili ed affini. Inoltre, il riferimento
all’involontarietà della disoccupazione come presupposto
indispensabile per l’intervento solidaristico (art. 45, comma 3,
r.d.l. n. 1827 del 1935), troverebbe conferma nella sentenza n. 160
del 1974 di questa Corte posto che la stessa, in relazione alle
lavorazioni stagionali o soggette a sospensione periodica, valorizza
pur sempre l’elemento della involontarietà della mancanza di lavoro,
sottolineando, ai fini del trattamento di disoccupazione, l’esigenza
che il lavoratore si adoperi, durante le sospensioni, attraverso
l’iscrizione alle liste di collocamento, per la ricerca di altra
occupazione.
4 – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per l’inammissibilità e comunque per la manifesta
infondatezza della questione.
La difesa erariale ritiene che il legislatore, nel disciplinare
il trattamento di disoccupazione in occasione della cessazione del
rapporto di lavoro, abbia inteso escludere i casi di dimissioni
avvalendosi della sua ampia discrezionalità in materia di
determinazione delle prestazioni assistenziali e previdenziali,
adottando il criterio della volontarietà della cessazione dal
servizio.
La norma censurata non avrebbe travalicato il limite della palese
irrazionalità che la discrezionalità legislativa incontra,
cercando, piuttosto, di razionalizzare il sistema con l’introduzione
di un requisito inteso ad impedire distorte conseguenze applicative
del trattamento di favore. L’estensione normativa prospettata dal
rimettente non potrebbe pertanto ritenersi ammissibile, sotto
l’aspetto costituzionale, in quanto rivolta ad ampliare la portata di
una disposizione di legge speciale attraverso l’equiparazione del
licenziamento alle dimissioni, nonostante le differenti ragioni che
determinano l’uno e le altre.
La difesa erariale sottolinea altresì, nella memoria presentata
in prossimità dell’udienza, che, ai sensi dell’art. 45 r.d.l.
n. 1827 del 1935, “l’assicurazione per la disoccupazione involontaria
ha per scopo l’assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di
disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro”. Dalla
summenzionata disposizione si dovrebbe evincere che l’istituto de quo
abbia la struttura e le funzioni tipiche della prestazione di natura
assicurativa in quanto l’evento, per essere meritevole di tutela,
deve essere futuro, incerto, possibile e non imputabile al potenziale
avente diritto, non potendo in alcun modo essere riconducibile ad una
condotta o ad una manifestazione di volontà del prestatore di
lavoro. L’art. 34, comma 5, della legge n. 448 del 1998, ora
sottoposto al giudizio di questa Corte, avrebbe, quindi, proprio il
fine di chiarire che il diritto ad usufruire del beneficio de quo
compete esclusivamente al prestatore che cessa dal rapporto di lavoro
subordinato indipendentemente dalla sua volontà.
La difesa erariale contesta, infine, la possibilità di
utilizzare come tertium comparationis la situazione dei lavoratori
stagionali, trattandosi di fattispecie diversa e non omogenea. Si
rileva, invece, che questa Corte, in altra occasione, con riferimento
ai trattamenti pensionistici, ha messo in evidenza il disegno
legislativo di penalizzare le cessazioni dal servizio volontarie,
limitando i benefici previdenziali ai soli casi di cessazione dal
servizio provocati da fatti indipendenti dalla volontà del
dipendente (sentenza n. 372 del 1998).
della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 5, della legge
23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo – Legge finanziaria 1999), nella parte
in cui, nell’escludere il titolo all’indennità di disoccupazione in
caso di dimissioni, non distingue tra dimissioni per giusta causa ed
altre forme di recesso del prestatore.
Il giudice a quo ravvisa, anzitutto, un contrasto della
disposizione censurata con l’art. 3 della Costituzione, in quanto non
contempla la diversità di situazioni sussistente tra le dimissioni
per giusta causa, comportanti uno stato di disoccupazione
involontaria, e le dimissioni riconducibili ad una libera scelta del
lavoratore, integranti uno stato di disoccupazione volontaria.
Secondo l’ordinanza, sussiste, inoltre, lesione dell’art. 38
della Costituzione, in quanto la disposizione censurata non assicura
la protezione dei lavoratori il cui stato di disoccupazione sarebbe
involontario perché conseguente a dimissioni per giusta causa non
riconducibili ad una libera scelta circa la conservazione del lavoro.
2. – La questione non è fondata nei sensi di seguito
specificati.
2. 1 – La disposizione censurata prevede che la cessazione del
rapporto di lavoro per dimissioni intervenute con decorrenza
successiva al 31 dicembre 1998 non dia titolo alla concessione
dell’indennità di disoccupazione ordinaria.
Dalla suddetta disposizione il giudice a quo ricava la norma che
esclude la concessione dell’indennità di disoccupazione ordinaria
anche per l’ipotesi di dimissioni per giusta causa, dubitando di
conseguenza della legittimità costituzionale di essa.
Ma l’enunciato contenuto nell’art. 34, comma 5, della legge
23 dicembre 1998, n. 448, non contempla espressamente l’ipotesi di
dimissioni per giusta causa e la scelta interpretativa del giudice
rimettente può essere revocata in dubbio alla luce di altre norme
presenti nel sistema e, soprattutto, in presenza di un’altra
possibile interpretazione conforme a Costituzione.
Nel nostro ordinamento, l’ipotesi della giusta causa è presa in
considerazione dall’art. 2119 cod. civ. che ai fini della suddetta
qualificazione del recesso del contraente richiede che si verifichi
“una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto”. In presenza di una condizione di improseguibilità del
rapporto, la cui ricorrenza deve essere valutata dal giudice, l’atto
di dimissioni, ancorché proveniente dal lavoratore, sarebbe comunque
da ascrivere al comportamento di un altro soggetto ed il conseguente
stato di disoccupazione non potrebbe che ritenersi, ai sensi
dell’art. 38 della Costituzione, involontario.
Le dimissioni indotte da una causa insita in un difetto del
rapporto di lavoro subordinato, così grave da impedirne persino la
provvisoria prosecuzione (art. 2119 cod. civ.), comportano, dunque,
come rilevato dallo stesso giudice a quo uno stato di disoccupazione
involontaria e devono ritenersi non comprese, in assenza di una
espressa previsione in senso contrario, nell’ambito di operatività
della disposizione censurata, potendosi pervenire a tale risultato
attraverso una interpretazione conforme a Costituzione della stessa.
2.2 – La disposizione censurata risponde senz’altro ad esigenze
di contenimento della spesa pubblica e di razionalizzazione del
sistema, attraverso l’introduzione di un requisito inteso ad impedire
distorte conseguenze applicative del trattamento di favore. Ma, come
sopra rilevato, dalla formulazione di essa non discende l’esclusione
della corresponsione dell’indennità ordinaria di disoccupazione per
le ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla libera
scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui
idonei ad integrare la condizione della improseguibilità del
rapporto.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 5, della
legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo – legge finanziaria 1999), sollevata,
in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di
Ravenna, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Contri
Il cancelliere:Di Paola
Depositata in cancelleria il 24 giugno 2002.
Il direttore della cancelleria:Di Paola