Sentenza N. 271 del 1999
Corte Costituzionale
Data generale
30/06/1999
Data deposito/pubblicazione
30/06/1999
Data dell'udienza in cui è stato assunto
24/06/1999
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle
lavoratrici madri), promosso con ordinanza emessa il 18 marzo 1997
dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra Buono
Maria Rosaria e l’ENEL s.p.a. Compartimento di Napoli iscritta al n.
639 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1999 il giudice
relatore Fernando Santosuosso.
dell’indennità di maternità la Corte di cassazione, Sezione lavoro,
ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 16,
primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle
lavoratrici madri), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31 e
37, primo comma, della Costituzione.
In punto di fatto la Corte di cassazione premette che la
lavoratrice, il cui rapporto di lavoro a tempo pieno era stato
trasformato in rapporto a tempo parziale a decorrere dal gennaio
1988, aveva concordato con il datore di lavoro la cessazione di
quest’ultima modalità dal 31 marzo 1990, sicché dal successivo 1
aprile il lavoro avrebbe ripreso le modalità del tempo pieno.
Senonché proprio a far data dal 1 aprile 1990 la lavoratrice era
stata collocata in aspettativa per maternità ai sensi dell’art. 5
della legge n. 1204 del 1971, ed il datore di lavoro le aveva
corrisposto la relativa indennità assumendo come parametro la
retribuzione percepita durante il part-time e non quella percepita
durante il tempo pieno.
Promosso il giudizio per il riconoscimento dell’indennità in
misura proporzionata alla retribuzione ricevuta durante il periodo
del tempo pieno, la relativa domanda era stata accolta in primo grado
e respinta in appello, sicché la lavoratrice aveva avanzato ricorso
per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado.
Sulla base di queste osservazioni la Corte di cassazione nota che
l’art. 16 della legge n. 1204 del 1971 fissa come parametro di
calcolo della retribuzione ai fini del computo dell’indennità di
maternità “la retribuzione media globale giornaliera percepita nel
periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente
precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio l’astensione
obbligatoria dal lavoro per maternità”. Siffatta formulazione non
consente, secondo il giudice a quo, alcuna interpretazione diversa da
quella fatta propria dal giudice d’appello, il che dovrebbe portare
al rigetto del ricorso ed alla conferma dell’impugnata sentenza.
La Cassazione osserva però che una simile interpretazione, che è
l’unica possibile, imponendo nel caso di specie di commisurare
l’indennità di maternità alla retribuzione percepita durante il
part-time, mentre era già concordata tra le parti la ripresa del
lavoro a tempo pieno, confligge con le finalità dell’indennità
stessa, più volte richiamate dalla giurisprudenza di questa Corte.
In particolare, la sentenza n. 132 del 1991 ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, secondo comma, della
legge 30 dicembre 1971, n. 1204, “nella parte in cui, per le
lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo
verticale su base annua, allorquando il periodo di astensione
obbligatoria abbia inizio più di 60 giorni dopo la cessazione della
precedente fase di lavoro, esclude il diritto all’indennità
giornaliera di maternità, anche in relazione ai previsti successivi
periodi di ripresa dell’attività lavorativa”. La Corte
costituzionale ha quindi riconosciuto che l’indennità di maternità,
la cui funzione è quella di garantire alla donna lavoratrice il
mantenimento della necessaria tranquillità economica in una fase
tanto importante della vita sua e del bambino, deve essere
corrisposta anche in mancanza di un lavoro in atto nel momento in cui
inizia il periodo di astensione obbligatoria, a condizione che la
lavoratrice non si sia volontariamente allontanata dal circuito
lavorativo. Diversamente argomentando, infatti, la donna verrebbe a
perdere una retribuzione che avrebbe certamente conseguito in assenza
della gravidanza e del puerperio.
I principi enunciati nella sentenza ora richiamata paiono al
giudice a quo pienamente adattabili al diverso caso in esame, nel
quale la lavoratrice, pur essendo formalmente in part-time all’inizio
del periodo di astensione, avrebbe certamente prestato il proprio
lavoro a tempo pieno durante il prosieguo, in assenza della
gravidanza. E nel caso specifico, non avendo il rapporto di lavoro
subito alcun sostanziale mutamento, negare la commisurazione
dell’indennità alla retribuzione conseguita durante il tempo pieno
si risolve in una violazione degli indicati parametri. È
irragionevole, infatti, la discriminazione che si viene a creare tra
la lavoratrice che ha sempre prestato il proprio lavoro a tempo pieno
e quella che ha, solo occasionalmente, collaborato a tempo parziale;
la decurtazione dell’indennità, inoltre, si risolve in una riduzione
di tutela economica della famiglia ed in una compressione del diritto
della donna lavoratrice a svolgere le proprie funzioni di madre.
primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, “nella parte in
cui non prevede che, nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di
lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, nel
quale ultimo abbia inizio o venga comunque a protrarsi il periodo di
astensione obbligatoria della lavoratrice, l’indennità di maternità
debba essere determinata con riferimento alla retribuzione che
sarebbe a costei spettata in relazione al regime a tempo pieno”, sia
in contrasto con gli artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma,
della Costituzione.
Dal complessivo contenuto dell’ordinanza si evince che il punto
cruciale della questione, individuato attraverso il richiamo alla
sentenza n. 132 del 1991 di questa Corte, consiste nella presunta
diminuzione del reddito che la lavoratrice part-time verrebbe a
subire, in conseguenza dell’astensione obbligatoria per maternità,
in costanza di una già concordata trasformazione del rapporto di
lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno.
2. – La questione non è fondata.
3. – Giova premettere che la norma sottoposta allo scrutinio della
Corte dispone testualmente che la misura della retribuzione rilevante
ai fini della determinazione dell’indennità di maternità (fissata,
in base al precedente art. 15, nell’ottanta per cento della
retribuzione per tutto il periodo di astensione obbligatoria) è
quella “percepita nel periodo di paga quadrisettimanale o mensile
scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha
avuto inizio l’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità”.
Occorre tuttavia rilevare che già dallo stesso art. 16 della legge
del 1971 risulta che tale criterio non è l’unico utilizzato dalla
legge, poiché i commi successivi al primo consentono di considerare
– per la retribuzione da assumere come parametro – anche altri
elementi, ivi comprese le esigenze particolari dell’azienda e della
lavoratrice.
Indipendentemente da questa precisazione, la Corte osserva che,
mentre la tutela delle lavoratrici madri ha ricevuto una regolazione
legislativa fin dal 1971 (appunto con la legge n. 1204), una vera e
propria normativa sul lavoro part-time si è avuta solo in epoca
successiva, in particolare con l’art. 5 del d.-l. 30 ottobre 1984, n.
726, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge
19 dicembre 1984, n. 863. Da quel momento il lavoro part-time è
stato oggetto di diversi altri interventi legislativi, anche in
materia di pubblico impiego.
Da tanto consegue che i rapporti intercorrenti tra determinazione
dell’indennità di maternità ed eventuale trasformazione del
rapporto di lavoro (da tempo pieno a tempo parziale o viceversa) non
sono espressamente disciplinati dalla norma oggi impugnata, e ciò
spiega l’apparente lacuna segnalata dalla Corte rimettente. In
realtà, l’ipotesi di una trasformazione del rapporto è stata
riconosciuta dalla normativa del 1984, come si evince dal comma 11
del citato art. 5 del d.-l. n. 726 del 1984, che ha regolato tale
trasformazione, i cui effetti si riverberano anche sulla
determinazione dell’ammontare del trattamento pensionistico.
Questa Corte ha già avuto modo di scrutinare, con la menzionata
sentenza n. 132 del 1991, un diverso articolo della legge n. 1204 del
1971 e di dichiararne l’illegittimità costituzionale sotto il
profilo del rapporto esistente tra una particolare figura di
part-time, quello cosiddetto verticale e la spettanza dell’indennità
di maternità; anche nel presente giudizio è una norma della stessa
legge del 1971, benché dettata in un momento storico precedente
rispetto a quello d’introduzione del part-time quella da prendere in
considerazione per la risoluzione di un’analoga questione in tema di
misura dell’indennità di maternità.
Sono d’altronde evidenti l’identità di ratio tra le due situazioni
ed il collegamento esistente tra la tutela delle lavoratrici madri ed
il nuovo fenomeno del lavoro a tempo parziale.
4. – Ciò posto per il corretto inquadramento della questione, la
medesima appare infondata alla luce dell’interpretazione delle
disposizioni in esame, nel quadro dei principi che regolano la
materia.
È indubbio che l’art. 16 della legge n. 1204 del 1971, con una
regola ancorata all’id quod plerumque accidit, colleghi il computo
dell’indennità di maternità all’ultima retribuzione percepita nel
periodo antecedente rispetto a quello dell’astensione e che
continuerebbe ad essere percepito se non si verificasse l’astensione.
Tale previsione, però, dettata per evitare facili frodi nei
confronti dell’ente assicurativo, va letta nell’àmbito di una
prospettiva sistematica.
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo stabilito alcuni
fondamentali criteri che devono guidare l’interprete nella
ricostruzione della disciplina a tutela delle lavoratrici madri. In
particolare, si è ribadito in più di un’occasione che l’astensione
obbligatoria di cui all’art. 4 della legge n. 1204 del 1971 ha il
fine di proteggere la salute della donna nel periodo precedente ed
immediatamente successivo al parto, sottolineandosi peraltro che la
tutela della madre “non si fonda solo sulla condizione di donna che
ha partorito, ma anche sulla funzione che essa esercita nei confronti
del bambino”, avendo quindi come obiettivo la protezione della salute
di entrambi (sentenza n. 1 del 1987). Per assicurare tale obiettivo
occorre rimuovere quegli ostacoli di ordine economico che
renderebbero in concreto più difficile per la donna lo svolgimento
del proprio insostituibile ruolo di madre; di qui la necessità di
evitare che dalla disciplina del rapporto di lavoro derivi una
sostanziale menomazione economica a motivo della maternità (v., le
sentenze nn. 3 del 1998, 423 del 1995, 150 del 1994).
Queste essendo, dunque, le finalità e le ragioni della normativa
di protezione delle lavoratrici madri, la questione oggi posta dalla
Corte di cassazione può ricevere una soluzione interpretativa, senza
che la norma offra il fianco alle lamentate censure di
incostituzionalità. Ed infatti, qualora la lavoratrice ed il datore
abbiano già concordato, come nel caso di specie, la ripresa del
lavoro con le modalità del tempo pieno per un periodo coincidente in
parte con quello dell’astensione obbligatoria, sottrarre alla donna
il diritto alla corresponsione dell’indennità di maternità
calcolata in base alla retribuzione fissata per il tempo pieno si
tradurrebbe in una violazione degli obiettivi appena richiamati. Ne
consegue, perciò, che l’indennità può non essere commisurata alla
retribuzione costituente il corrispettivo del lavoro che la donna
avrebbe normalmente svolto nel periodo di sospensione.
In questo senso è pertinente il richiamo che l’ordinanza di
rimessione fa alla menzionata sentenza costituzionale n. 132 del
1991, perché in quel caso come in quello presente la donna, “per
effetto della maternità, viene a perdere una retribuzione di cui
avrebbe certamente – e non solo probabilmente – goduto se non si
fosse dovuta astenere dal lavoro in ragione del suo stato”. Le
medesime argomentazioni utilizzate nella citata pronuncia in ordine
all’an valgono oggi, pur con i diversi aspetti delle due situazioni,
in rapporto al quantum.
Se la norma ora impugnata non poteva prevedere, per le ragioni già
viste, che in caso di concordata trasformazione del rapporto di
lavoro valesse il principio della retribuzione più favorevole alla
lavoratrice-madre, tale lettura non è impedita dal testo della
legge, ove lo stesso venga interpretato nel nuovo contesto normativo
in relazione alle finalità che il legislatore del 1971 intendeva
perseguire.
Tale corretta interpretazione, in armonia con i richiamati
principi, appare alla Corte idonea alla soluzione della presente
questione sottraendo la norma a profili di incostituzionalità.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 16, primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204
(Tutela delle lavoratrici madri), sollevata, in riferimento agli
artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma, della Costituzione, dalla
Corte di cassazione, Sezione lavoro, con l’ordinanza di cui in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Santosuosso
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 30 giugno 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola