Sentenza N. 427 del 1999
Corte Costituzionale
Data generale
10/11/1999
Data deposito/pubblicazione
10/11/1999
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/10/1999
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per
favorire l’occupazione), convertito con modifiche nella legge 23
maggio 1997, n. 135, promossi con due ordinanze emesse l’8 gennaio
1998 dal tribunale regionale di giustizia amministrativa del
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, sui ricorsi proposti
dall’Impresa di Costruzioni F.lli Azzolini S.r.l. contro la Provincia
autonoma di Trento ed altre e dalla Bettiol s.r.l. contro l’I.T.E.A.
ed altra, iscritte ai nn. 187 e 188 del registro ordinanze 1998 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 13, prima
serie speciale, dell’anno 1998.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 7 luglio 1999 il giudice
relatore Riccardo Chieppa.
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, chiamato a pronunciarsi, nella
camera di consiglio dell’8 gennaio 1998 in sede cautelare, su due
ricorsi aventi per oggetto l’annullamento di atti di aggiudicazione
di appalto di lavori pubblici, preso atto che i due ricorsi erano
regolati dalla speciale disciplina di cui all’art. 19 del
decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per
favorire l’occupazione) convertito con modifiche in legge 23 maggio
1997, n. 135, con due ordinanze dell’11 febbraio 1998 (r.o. nn. 187 e
188 del 1998) ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità
costituzionale del suddetto art. 19 per violazione degli artt. 3, 24,
103, primo comma, 113 e 125, secondo comma, della Costituzione.
L’art. 19 viene denunciato nella parte in cui prevede che il
tribunale amministrativo regionale, chiamato a pronunciarsi sulla
istanza di sospensione, può definire immediatamente il giudizio nel
merito con motivazione in forma abbreviata (comma 2), nonché nella
parte in cui prevede la dimidiazione anche del termine decadenziale
per la proposizione del ricorso giurisdizionale (comma 3).
2. – Il tribunale ha incentrato le sue osservazioni su due aspetti
della complessiva disciplina desunta dall’art. 19 (con il titoletto
“Norme sul processo amministrativo”), riguardante i giudizi davanti
ai Tar ed al Consiglio di Stato “aventi ad oggetto provvedimenti
relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione e
attività tecnico-amministrative ad essa connesse e provvedimenti di
aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di
pubblica utilità, ivi comprese le procedure di occupazione ed
espropriazione delle aree ad esse destinate”.
Il primo aspetto concerne il potere del giudice, chiamato a
pronunciarsi sulla domanda di sospensione, di definire immediatamente
il giudizio nel merito, con motivazione in forma abbreviata: la
decisione cautelare, contrassegnata dalla pronunzia di una ordinanza,
è interamente sostituita dall’emanazione di una sentenza che
definisca il giudizio. Il secondo aspetto concerne la riduzione a
metà di tutti i termini processuali dei giudizi in oggetto. Per la
precisione, la prima ordinanza si sofferma su entrambi i segnalati
profili, mentre la seconda affronta unicamente il primo tra essi,
poiché, fermo il potere del giudice in entrambi i casi di sostituire
alla decisione cautelare la sentenza definitiva, solo nel primo
giudizio era stata sollevata dalla parte resistente l’eccezione di
irricevibilità del ricorso perché notificato oltre il termine
decadenziale di trenta giorni, così come dimezzato ai sensi
dell’art. 19.
Sul primo profilo il tribunale amministrativo ha, anzitutto,
accertato la rilevanza della questione, dal momento che l’eventuale
declaratoria di incostituzionalità della disposizione priverebbe il
giudice a quo del potere di pronunciare la sentenza in forma
abbreviata. Ha, quindi, osservato che la norma concede al giudice la
facoltà di superare la fase cautelare anche in assenza di una
specifica concorde richiesta delle parti. L’esercizio di questa
facoltà, indipendentemente da una previa e specifica fissazione
dell’udienza di discussione nel merito del ricorso (atteso che la
decisione matura nella discussione in camera di consiglio
dell’istanza di sospensione del provvedimento) risulterebbe lesiva
del diritto di difesa, garantito dagli artt. 3, 24 e 113 della
Costituzione, risolvendosi in una illegittima limitazione del diritto
delle parti di richiedere ed ottenere un provvedimento cautelare. Si
è fatto richiamo, in proposito, al carattere essenziale ed
ineliminabile del procedimento cautelare ed alla sua intima
compenetrazione con il processo di merito nel sistema di giustizia
amministrativa (riconosciuto dalla Corte costituzionale con sentenze
n. 8 del 1982, n. 190 del 1985 e n. 249 del 1996). La peculiare
disciplina dell’art. 19, a ben vedere, avrebbe per effetto di
sopprimere del tutto la fase cautelare, non solo nel giudizio di
primo grado, ma anche nel giudizio di appello, giacché, ai sensi del
comma 2, “le medesime disposizioni si applicano davanti al Consiglio
di Stato in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata”.
La disposizione avrebbe per effetto – secondo il giudice rimettente
– di concentrare, in deroga al principio dispositivo, il potere di
impulso processuale in capo al giudice, sicché il ricorrente, che
richiede unicamente una decisione cautelare, si vede convertire la
sua istanza in una richiesta di trattazione e decisione immediata nel
merito del ricorso, peraltro con una procedura “sommaria”.
L’esigenza di celerità processuale, sottesa alla disciplina in
esame, si tradurrebbe nell’attribuzione al giudice del potere di
sostituire all’invocata tutela cautelare la decisione di merito,
senza l’individuazione di modalità e presupposti che ne regolino e
moderino l’esercizio. La conseguenza dell’illegittima soppressione
dell’essenziale giudizio cautelare o, quantomeno, della sua grave
compromissione sarebbe, altresì, in contrasto con la direttiva
comunitaria n. 665/1989 (c.d. direttiva ricorsi), che ha imposto agli
Stati membri, proprio nella materia dei pubblici appalti, l’adozione
di adeguate misure di immediata tutela, mediante provvedimenti
provvisori intesi a riparare la violazione del diritto comunitario o
ad impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti,
compresi i provvedimenti intesi a sospendere o far sospendere la
procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto o l’esecuzione di
qualsiasi decisione presa dalle autorità aggiudicatrici.
Nel sistema delineato dall’art. 19, viceversa, il ricorrente che
voglia fruire di un procedimento ordinario non avrebbe altra
possibilità che rinunciare alla proposizione dell’istanza cautelare,
essendo questa l’unica soluzione per impedire al giudice di
convertirla in una richiesta finalizzata ad una decisione di merito a
cognizione sommaria. La rinuncia (obbligata) alla fase cautelare, del
resto, potrebbe provocare, secondo il tribunale regionale di
giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, la definitiva
compromissione della posizione giuridica del ricorrente, senza che si
possa adeguatamente reintegrarla mediante il risarcimento del danno.
Tale rinuncia obbligata alla fase cautelare, strumentale alla
trattazione della controversia in un giudizio di merito ordinario,
sarebbe, dunque, una novità assoluta nell’ordinamento, della cui
compatibilità costituzionale dovrebbe dubitarsi alla stregua dei
precedenti in materia della stessa Corte costituzionale (si richiama,
al riguardo, la predetta sentenza n. 249 del 1996).
3. – La seconda censura, che ha indotto il tribunale regionale di
giustizia amministrativa a sollevare l’incidente di legittimità
costituzionale, trae origine, come osservato, dall’eccezione di
irricevibilità sollevata in corso di causa nel primo dei due
giudizi. Il giudice a quo invero, ha dichiarato non manifestamente
infondata e rilevante la questione di costituzionalità, per
contrasto con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell’art. 19,
nella parte in cui riduce a metà tutti i termini processuali, ivi
compreso il termine di decadenza di sessanta giorni per la
proposizione del ricorso, di cui all’art. 21 della legge 6 dicembre
1971, n. 1034.
Il giudice rimettente, in primo luogo, ha preso spunto dalla
sostituzione dell’inciso “termini processuali” (presente
nell’originaria versione del decreto legge) con quello “tutti i
termini processuali” (introdotto in sede di conversione) per
inferirne che l’abbreviazione concerne anche il termine per proporre
il ricorso. Ne seguirebbe un serio ostacolo alla regolare
instaurazione del processo, in ragione della brevità del termine, e
la concreta lesione del diritto di difesa garantito dagli artt. 24,
103, primo comma, 113 e 125, secondo comma, della Costituzione.
Questa previsione si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 3
della Costituzione, poiché concerne per un verso solo determinate
categorie di soggetti (fra cui partecipanti a gare di appalto e
cittadini espropriati) e per altro verso soltanto l’impugnazione di
provvedimenti emanati all’esito di alcuni procedimenti (quelli
relativi a gare d’appalto e quelli espropriativi); questi ultimi,
oltretutto, proprio per la loro complessità, eterogeneità e
quantità degli atti che intervengono nel relativo iter
richiederebbero un tempo considerevole per poter valutare l’eventuale
illegittimità dell’atto conclusivo.
L’individuazione di termini così ridotti e tali da rendere
irragionevolmente difficoltosa la tutela giurisdizionale per i
partecipanti ad una gara, sarebbe, a giudizio del tribunale regionale
di giustizia amministrativa, anche limitativa della concorrenza; ciò
riproporrebbe il contrasto con la predetta direttiva n. 665/1989,
che, proprio per promuovere la più ampia partecipazione alle gare
d’appalto, ha fissato i principi necessari ad assicurare la pienezza
e l’effettività della tutela giurisdizionale. Il dubbio di
legittimità costituzionale, peraltro, riguarda, a parere del giudice
a quo anche l’abbreviazione degli altri termini processuali, tra i
quali si sono richiamati a titolo esemplificativo: 1) il termine per
il deposito del ricorso, ridotto a 15 giorni; 2) i termini per la
fissazione dell’istanza cautelare, ridotti a 5 giorni dalla notifica;
3) i termini per proporre il ricorso incidentale; 4) i termini per la
costituzione dell’Amministrazione resistente e delle altre parti
interessate; 5) il termine per il deposito del notificato intervento;
6) il termine relativo alla perenzione del ricorso; 7) i termini per
il deposito dei documenti; 8) il termine per la riassunzione a
seguito di interruzione del processo, ridotto a 3 mesi; 9) i termini
per l’appello e per la revocazione.
La denunciata lesione dei diritti di difesa appare ancor più grave
– ha proseguito il tribunale regionale di giustizia amministrativa –
per il fatto che la prescritta dimidiazione non si estende al termine
di 120 giorni previsto per proporre ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica (ex art. 9 del d.P.R. 24 novembre 1971,
n. 1199), né al termine di 60 giorni assegnato ai controinteressati
ed all’Amministrazione per chiederne la trasposizione in sede
giurisdizionale (v. art. 10 del citato d.P.R. e la sentenza della
Corte costituzionale n. 148 del 1982).
Il giudice a quo ha, dunque, concluso che l’art. 19 del d.l. n. 67
del 1997, introducendo una “procedura sommaria del tutto anomala”,
lede il fondamentale principio della difesa e della più ampia tutela
giurisdizionale, sia con riguardo alla tutela della fase cautelare,
sia con riguardo al regime dei termini processuali, anche alla luce
della stretta correlazione che corre tra il comma 2 ed il comma 3
della disposizione in esame.
4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha
concluso chiedendo la declaratoria di infondatezza della questione.
Ha posto l’accento, in primo luogo, sulla ratio della disposizione
censurata, dettata allo scopo di rendere più spedita ed efficace la
giustizia amministrativa in un particolare settore, contrassegnato
dalla rilevanza degli interessi incisi e dal coinvolgimento di
posizioni sia individuali che collettive. L’esperienza della prima
fase applicativa di questa disciplina, secondo la Presidenza del
Consiglio, conferma che la rapida definizione dei giudizi ha
effettivamente realizzato l’obiettivo che il legislatore si era
prefissato, mentre le difficoltà nella difesa tecnica, più che
riguardare le parti ricorrenti, si sono concentrate a carico
dell’Amministrazione resistente.
Le argomentazioni poste a fondamento dell’ordinanza di rimessione
sarebbero, sempre secondo la Presidenza del Consiglio, più
specificamente, prive di pregio. Non vi sarebbe, invero, alcuna
soppressione della fase cautelare, giacché la decisione finale di
merito, lungi dall’eliminarla, assorbe la tutela cautelare,
garantendo l’effettività della tutela giurisdizionale. La rapidità
dei tempi entro cui il giudice definisce il merito con la sentenza
abbreviata, il cui dispositivo viene depositato in cancelleria entro
7 giorni, non provocherebbe alcuna compressione, ma, piuttosto,
l’estensione della tutela del ricorrente. In breve le stesse ragioni
sostanziali che inducono il ricorrente a chiedere la tutela cautelare
sarebbero soddisfatte, in caso di accoglimento, in maniera ancor più
efficace di quanto accada con la consueta ordinanza di sospensione
del provvedimento impugnato. Si è ritenuto, poi, tutt’altro che
persuasiva la qualificazione della decisione del merito come
“sommaria”: la legge non prevede alcun procedimento sommario, ma
consente solo che la sentenza sia assistita da una motivazione “in
forma abbreviata”. La tecnica redazionale di abbreviazione della
motivazione, mirata a snellire il processo ed a renderlo più celere,
non implica, secondo l’interveniente, il carattere sommario della
cognizione del giudice, il quale avrebbe, al contrario, una
conoscenza integrale della controversia, senza difformità, per
questo aspetto, da ciò che accade nel comune giudizio di merito. Si
è, altresì, puntualizzato che compete sempre al giudice di valutare
se, in concreto, v’è la possibilità di pervenire immediatamente ad
una pronunzia di merito, dovendosi verificare se gli elementi
acquisiti siano sufficienti a fondare una cognizione piena della
controversia o se, ad esempio, sia necessario il compimento di
attività istruttoria. La razionalità della speciale disciplina
dell’art. 19, infine, non sarebbe compromessa dalla diversità del
regime previsto per il rimedio amministrativo del ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica, ben diverso per
presupposti e natura giuridica. Parimenti infondata sarebbe
l’eccezione di illegittimità costituzionale riferita alla
dimidiazione dei termini processuali ed alla conseguente eccessiva
brevità, in relazione alla garanzia del diritto di difesa.
L’ordinamento prevede una gamma molto vasta di termini processuali,
adattati a situazioni e ad interessi caso per caso molto diversi. In
concreto, si è negato che la riduzione a 30 giorni del termine per
notificare il ricorso renderebbe eccessivamente difficoltoso
l’esercizio del diritto di difesa; né la riduzione degli altri
termini processuali citati dal giudice a quo provocherebbe simile
conseguenza.
l’art. 19, commi 2 e 3, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67
(Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito con
modifiche in legge 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui prevede
che, nei giudizi amministrativi relativi a opere pubbliche e materie
connesse, il tribunale amministrativo regionale, chiamato a
pronunciarsi sulla istanza di sospensione, può definire
immediatamente il giudizio nel merito con motivazione in forma
abbreviata, (comma 2), nonché nella parte in cui prevede la
dimidiazione dei termini processuali, compreso quello decadenziale
per la proposizione del ricorso giurisdizionale (comma 3). Viene
denunciata la violazione degli artt. 3, 24, 103, primo comma, 113 e
125, secondo comma, della Costituzione, per lesione del diritto di
difesa e dell’effettività della tutela giurisdizionale, sotto i
profili della soppressione della tutela cautelare e della riduzione,
oltre i limiti di ragionevolezza, dei termini processuali.
2. – Preliminarmente, stante la parziale identità delle questioni
e la connessione oggettiva, deve disporsi la riunione dei due
giudizi.
3. – Entrambe le questioni sono infondate nei sensi appresso
precisati.
L’art. 19 è diretto ad accelerare lo svolgimento dei processi
amministrativi relativi alla materia delle opere pubbliche e alle
attività e procedimenti amministrativi connessi, contrassegnati
dalla rilevanza degli interessi incisi e dal coinvolgimento di
posizioni individuali e collettive.
In altri termini con disposizione speciale, in relazione alla
esigenza di pronta esecuzione delle anzidette opere (tradizionalmente
incrementatrici di occupazione), si dettano particolari norme sul
processo amministrativo, che incidono, per circoscritte materie, solo
su particolari istituti processuali, presupponendo immutati tutti gli
altri poteri e facoltà processuali del giudice e delle parti non
toccati dalla innovazione procedurale.
In realtà sono individuati alcuni profili processuali, ritenuti
dal legislatore – con una valutazione non palesemente arbitraria o
irragionevole – idonei a accelerare i processi amministrativi,
relativi alle indicate materie, spesso contrassegnati, in passato, da
una eccessiva durata di fatto degli effetti dei provvedimenti
cautelari, laddove il processo poteva essere tempestivamente definito
con sentenza.
L’art. 19 prevede la tipizzazione di un nuovo modello di sentenza
(definitiva del giudizio) in forma abbreviata sia per la motivazione,
sia per i termini di deposito e pubblicazione del dispositivo (sette
giorni), sia perché emessa in sede di trattazione in camera di
consiglio della domanda di sospensione del provvedimento impugnato
(davanti al Tar) o della sentenza appellata (davanti al Consiglio di
Stato), nonché alcuni espedienti processuali di diminuzione di
termini, di condanna alle spese del processo cautelare, di appello
immediato dopo la pubblicazione del dispositivo della sentenza.
Risulta evidente che viene prevista, sempre per determinate
materie, la facoltà del giudice di ricorrere ad una sentenza, “in
forma abbreviata” (v., per un’analoga previsione, la successiva legge
31 luglio 1997, n. 249, art. 1, comma 27, in materia di provvedimenti
dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), che definisca
immediatamente il grado di giudizio (che come tale rende superata ed
inutile una pronuncia sulla misura cautelare di sospensiva), in tutti
casi in cui il processo, in primo grado davanti al Tar o in appello
davanti al Consiglio di Stato, sia maturo per la decisione della
lite, essendo indifferente la tipologia della definizione o
processuale (irricevibilità, inammissibilità, rinuncia ecc.),
ovvero di merito (accoglimento o rigetto), risultando abbandonata la
tipizzazione dei casi di sentenza (irricevibilità, inammissibilità,
infondatezza) contenuta nel testo originario del decreto-legge.
Nell’esercizio di questa facoltà il giudice deve seguire i normali
canoni di condotta e di cognizione del processo, dovendo essere
valutata la sussistenza delle condizioni ordinarie per l’emissione di
una sentenza che definisca il giudizio, come l’integrità del
contraddittorio, la completezza delle prove necessarie per la
pronuncia che deve essere emessa e gli adempimenti processuali
previsti anche per la tutela del diritto di difesa di tutte le parti.
Di conseguenza presupposto della sentenza in forma abbreviata, in
sede di convocazione di tutte le parti in camera di consiglio in
occasione dell’esame della domanda di sospensiva, è che si tratti,
nelle particolari materie indicate dalla legge, di questioni
definibili immediatamente e quindi solo in queste ipotesi vi è una
alternatività rispetto alla pronuncia sulla domanda di sospensione,
che rimane quindi superata ed assorbita dalla definizione della lite,
che assicura, come decisione finale (procedurale o di merito), una
effettività e completezza di tutela giurisdizionale, con esercizio
dello stesso potere di cognizione del giudizio ordinario.
Né vi è sul piano costituzionale l’esigenza che tale facoltà del
giudice di decisione immediata del ricorso debba essere subordinata
ad una specifica e concorde richiesta delle parti o ad una separata
fissazione della discussione del ricorso (per l’esame delle questioni
preliminari e del merito). Infatti è la stessa norma di legge a
prevedere preventivamente che, per determinate materie, la fissazione
della camera di consiglio per l’esame della domanda di sospensiva
comporti, di diritto, che il giudice possa chiudere il giudizio
(naturalmente se sia maturo per la decisione), definendolo
immediatamente con sentenza, in modo da rendere irrilevante la
pronuncia sulla fase cautelare, trattandosi di sentenza provvista di
esecutività.
La pronuncia nella fase interinale e cautelare della sospensiva
(dell’atto impugnato o della sentenza appellata) viene resa superflua
da una tutela ancora più piena ed immediata (senza ulteriore
esigenza di ordinanza che valuti l’esistenza di periculum in mora).
Tale alternatività, con assorbimento nella sollecita e tempestiva
pubblicazione del dispositivo della sentenza nei sette giorni, si
può verificare solo se, esistendo tutti gli altri presupposti
(contraddittorio, sufficienza delle prove acquisite, ecc.), venga
emessa sentenza che definisca il giudizio, essendo, in tutti gli
altri casi, il giudice tenuto a pronunciarsi sulla domanda di
sospensione, in base agli ordinari poteri cautelari, ivi compreso
l’esercizio di potere di sospensione a tempo, ovvero parziale o
collegato a determinati adempimenti processuali.
Di conseguenza non si può affatto configurare una limitazione o
una soppressione del diritto delle parti di chiedere ed ottenere un
provvedimento interinale e cautelare, ricevendo queste una immediata
pronuncia che definisce la lite, rendendosi superflua ed irrilevante
una specifica tutela cautelare.
Né si può parlare di concentrazione del potere di impulso
processuale nel giudice, sottratto alle parti, in quanto il
ricorrente nel processo amministrativo non può avanzare una
richiesta di sola decisione cautelare, dovendo la domanda di
sospensione per il carattere incidentale, seguire o accompagnare un
ricorso per una decisione definitiva della lite.
Nelle ipotesi considerate dall’art. 19 del d.-l. n. 67 del 1997, in
presenza dei presupposti sopra enunciati, il giudice definisce
immediatamente il procedimento giurisdizionale principale, decidendo
il ricorso, con una sentenza che ha tutte le caratteristiche, per il
tipo di cognizione piena e gli effetti, della ordinaria sentenza che
chiude il processo, escluso ogni carattere di “procedura sommaria”.
Del resto ogni procedimento giurisdizionale, che assicuri con la
definizione della lite la immediata ed effettiva tutela definitiva,
in tempi sostanzialmente equivalenti ad un intervento cautelare ed
interinale del giudice, rende superflua e assorbe la fase della
sospensiva, superando, dal punto di vista temporale e degli effetti,
l’adozione di provvedimenti provvisori e cautelari.
4. – Sotto un diverso profilo viene sollevata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 19 (comma 3), per contrasto con
gli artt. 3, 24, 103, primo comma, 113 e 125 della Costituzione,
nella parte in cui riduce a metà tutti i termini processuali, ivi
compreso il termine di decadenza di sessanta giorni per la
proposizione del ricorso, di cui all’art. 21 della legge 6 dicembre
1971, n. 1034.
La denunciata violazione dell’art. 3 della Costituzione non
sussiste, poiché l’art. 19 delinea un sistema derogatorio della
disciplina processuale, finalizzato a realizzare – come già rilevato
– precisi obiettivi di accelerazione della definizione delle
controversie in materia di opere pubbliche o di pubblica utilità e
di attività e procedure connesse. La diversità e peculiarità della
materia giustifica – anche per tale profilo – la deroga al regime
ordinario del processo, seguendosi un sistema già collaudato in
altri settori normativi, per i quali il legislatore ha parimenti
ritenuto necessario dettare disposizioni speciali improntate ad
obiettivi di celerità processuale.
In sostanza da un canto non sussiste una ingiustificata disparità
di trattamento rispetto a situazioni di identico contenuto,
dall’altro deve negarsi l’esistenza di un principio generale che
imponga l’identità dei termini processuali, potendo questi essere
differenziati secondo la tipologia delle azioni fatte valere.
Deve altresì escludersi che abbia qualsiasi pertinenza con la
questione in esame il richiamo agli artt. 103, primo comma, e 125,
secondo comma, della Costituzione, i quali riguardano rispettivamente
l’ambito della giurisdizione amministrativa e il carattere regionale
delle circoscrizioni territoriali degli organi di giustizia
amministrativa di primo grado.
5. – Un separato approfondimento, per le esigenze di una
interpretazione della norma denunciata conforme a Costituzione,
richiede l’esame della questione di costituzionalità sollevata con
riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Il tema della violazione dei diritti di difesa deve, anzitutto,
essere affrontato con riferimento al termine per proporre il ricorso
introduttivo del giudizio, trattandosi della questione esaminata in
via principale dal giudice rimettente. Questi, in particolare, muove
dal presupposto che la regola che prescrive la riduzione a metà di
“tutti i termini processuali” sia applicabile anche al termine di
decadenza stabilito per la notifica del ricorso di primo grado.
La fissazione di un termine di trenta giorni non è lesiva del
diritto di difesa costituzionalmente garantito, poiché non implica
modalità di esercizio dell’azione così gravose da rendere
impossibile od estremamente difficile l’esercizio della difesa e lo
svolgimento della connessa attività processuale.
In primo luogo, l’ordinamento già conosce numerose leggi che,
avvertendo l’esigenza di una rapida definizione del giudizio, in
particolari e delicate materie, e di tempestiva salvaguardia dei
relativi interessi (individuali e collettivi) coinvolti, stabiliscono
un termine di trenta giorni per proporre il ricorso al giudice
amministrativo, ovvero prevedono la riduzione a metà di tutti i
termini processuali.
Nel primo senso si possono richiamare in particolare l’art. 6,
comma 5, della legge 11 agosto 1991, n. 266 in tema di diniego o
cancellazione dai registri generali delle organizzazioni di
volontariato; l’art. 25, comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241,
in materia di diritto di accesso; l’art. 42, secondo comma, della
legge 24 gennaio 1979, n. 18, in materia di proclamazione di eletti
al Parlamento europeo; l’art. 5 della legge 8 luglio 1975, n. 306, in
materia di accertamento dei requisiti delle associazioni di
produttori agricoli; l’art. 10, quarto comma, della legge 21 novembre
1967, n. 1185 con norme sui passaporti; l’art. 34 della legge 3
febbraio 1964, n. 3, l’art. 23 della legge 5 agosto 1962, n. 1257, in
materia di operazioni elettorali del Consiglio regionale,
rispettivamente del Friuli-Venezia Giulia e della Valle d’Aosta.
Nel secondo senso possono richiamarsi, tra l’altro, l’art. 1, comma
27, della già citata legge 31 luglio 1997, n. 249, in materia di
provvedimenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
l’art. 5, comma 5 – ormai abrogato – del d.-l. 30 dicembre 1989, n.
416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 49, in materia di
diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, di espulsione
dal territorio dello Stato di cittadini extracomunitari e di diniego
e revoca del permesso di soggiorno; l’art. 83/12 del d.P.R. 16 maggio
1960, n. 570 in materia di controversie elettorali, nel testo
risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 2 della legge 23
dicembre 1966, n. 1147, e l’art. 29, secondo comma, della legge 6
dicembre 1971, n. 1034.
In ogni caso, la previsione di un termine di trenta giorni per
notificare il ricorso non comprime, oltre i limiti di ragionevolezza
ed effettività, il diritto di cui all’art. 24 della Costituzione,
poiché non riduce i tempi di preparazione delle necessarie difese al
punto da pregiudicarne l’efficacia e la completezza, lasciando al
ricorrente un congruo margine di valutazione (Corte cost., sentenze
n. 111 del 1998; n. 238 del 1983; n. 56 del 1979; ordinanza n. 270
del 1991).
La specialità della materia ben può conformare la disciplina
legislativa del diritto di difesa alle speciali caratteristiche della
struttura dei singoli procedimenti, anche in relazione alla materia
del contendere, purché non sia pregiudicato lo scopo e la funzione
del processo e non sia compromessa l’effettività della tutela
giurisdizionale (sentenze n. 141 del 1998; n. 111 del 1998; n. 119
del 1995; n. 220 del 1994).
Senza dubbio l’art. 19 del d.-l. n. 67 del 1997 (convertito con
modificazioni in legge n. 135 del 1997) ha ad oggetto una materia ben
definita ed appresta per essa una innovazione processuale,
contrassegnata, per le esigenze innanzi ricordate, da disposizioni
procedurali speciali, tali da consentire un autonomo e più snello
percorso processuale per la definizione delle relative liti.
La congruità di un termine processuale in rapporto all’art. 24
della Costituzione, ha altresì precisato questa Corte, deve essere
valutata non solo in rapporto all’interesse di chi ha l’onere di
osservarlo, ma anche con riguardo alla funzione assegnata al termine
nell’ordinamento (sentenze n. 284 del 1985; n. 31 del 1977). Orbene,
il termine introduttivo, pur ridotto a trenta giorni, appare congruo
anche perché è funzionale alla rapida definizione del giudizio nel
delicato settore delle opere pubbliche.
Queste considerazioni sono sufficienti per la infondatezza della
sollevata questione di costituzionalità anche in relazione alla
dimidiazione di altri termini processuali, espressamente richiamati
nell’ordinanza del giudice rimettente: in specie, il termine per il
deposito del ricorso, il termine per la perenzione del giudizio, il
termine per il deposito dei documenti, il termine per la riassunzione
a seguito di interruzione, il termine per l’appello e per la
revocazione, nonché il termine per i motivi aggiunti.
6. – Lo speciale sistema di definizione del giudizio modellato
dall’art. 19, tuttavia, può incidere in maniera ancor più
significativa sulla posizione delle parti processuali diverse dal
ricorrente. L’applicazione della regola di dimidiazione di tutti i
termini si combina con quella che consente al giudice la definizione
immediata del giudizio e ciò rende possibile, in concreto, che la
decisione venga assunta “immediatamente” nella camera di consiglio
fissata per la decisione cautelare (e con la rapidità per essa
prevista), quando ancora non sono trascorsi i termini a difesa, pur
dimezzati, concessi all’Amministrazione resistente e ad eventuali
controinteressati. Per la precisione, è possibile che la definizione
del giudizio sopravvenga prima della scadenza dei termini previsti
per la costituzione in giudizio, per la proposizione del ricorso
incidentale, del regolamento di competenza, degli eventuali motivi
aggiunti.
Ed invero, ai sensi dell’art. 36 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642, e
dell’art. 2 del d.lgs. 5 maggio 1948, n. 642, il giudice si pronunzia
sulla domanda di sospensione dell’atto nella prima camera di
consiglio successiva alla scadenza del termine di dieci giorni dalla
notifica del ricorso: sicché, considerata anche l’eventualità
dell’abbreviazione dei termini per riconosciuti motivi di urgenza, è
possibile – in linea meramente teorica – che l’udienza di trattazione
della fase cautelare venga celebrata a soli sei giorni di distanza
dalla notifica del ricorso introduttivo.
Questa evenienza ripropone il problema se la disciplina in esame
sia compatibile con il diritto di difesa costituzionalmente
garantito.
La questione del rapporto tra le modalità abbreviate di
definizione del giudizio e la salvaguardia dei termini a difesa
appare strettamente collegata al più generale problema dei limiti di
attuazione di un sistema processuale basato sull’anticipata decisione
del merito della controversia.
Siffatto sistema, invero, non può prescindere dal necessario
rispetto di alcuni valori processuali, tra cui, in primo luogo,
l’integrità del contraddittorio e la completezza e sufficienza del
quadro probatorio ai fini della sentenza da adottare. La decisione,
in forma abbreviata, immediatamente nella camera di consiglio fissata
per la trattazione della domanda cautelare, non può aver luogo se
non sono state chiamate in giudizio tutte le parti interessate ovvero
se queste non si siano costituite in pendenza del relativo termine,
ovvero se la parte ricorrente, a seguito di nuova documentazione
acquisita al giudizio, proponga o manifesti la volontà di presentare
motivi aggiunti rilevanti ai fini della decisione del ricorso o se la
causa non è matura per la decisione, essendo necessario procedere ad
ulteriori acquisizioni istruttorie.
Quest’ultimo aspetto, peraltro, è particolarmente delicato in un
sistema processuale che, per la formazione del materiale probatorio,
non si affida al principio dispositivo puro, ma ne prevede
l’applicazione corretta dal c.d. metodo acquisitivo, con l’intervento
diretto del giudice nell’attività di ricerca della prova.
Occorre pertanto armonizzare queste esigenze con la disposizione di
legge, che pure prevede la possibilità di definizione immediata del
giudizio.
Appare estranea alla ratio legis e non conforme all’interpretazione
sistematica dell’art. 19 una soluzione che finisca col negare ogni
possibilità di immediata definizione del giudizio prima della
compiuta decorrenza di tutti i termini a difesa sopra enunciati.
Piuttosto, è necessario cercare un punto di equilibrio tra le
norme che impongono speciali oneri alle parti, tra una disciplina
orientata alla più celere trattazione della controversia e
l’imprescindibile salvaguardia dei diritti di difesa, dell’integrità
del contraddittorio e della completezza dell’istruttoria. Il garante
di questo equilibrio non può che essere il giudice, al quale spetta
un potere di direzione del processo, nel rispetto del principio
dispositivo e dei diritti di difesa secondo le regole generali della
giustizia amministrativa.
La norma, nella parte in cui prevede che il tribunale “può”
definire immediatamente la controversia, affida la scelta ad una
valutazione del giudice, tenuto a seguire le ordinarie regole logiche
processuali, che consentono di non accogliere una istanza di
differimento dell’udienza o una richiesta di termine per compimento
di attività di difesa, quando risulti esclusa, in maniera certa, la
rilevanza dell’attività richiesta in relazione al tipo e al
contenuto della adottanda decisione della controversia e della
posizione di interesse della parte che ha avanzato la richiesta
anzidetta.
Il requisito dell'”immediatezza” della decisione del giudizio, non
costituisce un vincolo inderogabile per il giudice. Quando questi
infatti ritenga che il contraddittorio deve estendersi ad altre parti
o che devono disporsi mezzi istruttori, necessari ai fini della
pronuncia sulla domanda di sospensiva e a maggior ragione per la
decisione sul merito della causa, non può definire immediatamente il
giudizio ed è tenuto a provvedere anche d’ufficio attraverso
l’esercizio del potere-dovere di pronuncia sulla domanda di
sospensione o di concessione di un differimento della camera di
consiglio per gli adempimenti necessari.
Del pari, le parti costituite che vogliono avvalersi di strumenti
difensivi rientranti nel loro potere dispositivo e comportanti
termini, sia pure abbreviati, che eccedono dalla sequenza di
immediatezza scandita dall’art. 19, avranno l’onere di esternare
nella stessa camera di consiglio il loro intento, proponendo apposita
e motivata istanza di rinvio (anche semplicemente verbalizzata), ed
esternando la volontà di proporre ricorso incidentale, regolamento
di competenza, di depositare ulteriori documenti o memorie, di
proporre motivi aggiunti e, più in generale, di esercitare attività
di difesa rilevante per la trattazione del merito della controversia.
Tale istanza, peraltro, non produce un effetto di automatica e
vincolante paralisi della facoltà di definizione immediata del
giudizio demandata al giudice, il quale, anche in questo caso, è
tenuto, nell’esercizio dei suoi poteri valutativi, all’osservanza dei
principi generali del processo amministrativo.
Ne segue che l’istanza di rinvio potrà essere disattesa solo
quando risulti irrilevante, ai fini della decisione da adottare,
ovvero sia processualmente inammissibile la specifica attività
difensiva annunciata dalla parte.
Tale verifica giudiziale, coinvolgendo alcuni valori processuali
primari, deve essere particolarmente puntuale sulla specifica
richiesta avanzata dalla parte e rimane condizionata dalla
definizione della controversia in relazione all’interesse della parte
che ha avanzato l’istanza.
Inoltre, la decisione con cui il giudice disattende l’esplicita
richiesta di differimento della parte e definisce “immediatamente” il
giudizio, in sede di trattazione della fase cautelare, è
suscettibile di essere sindacata nell’eventuale secondo grado di
giudizio, essendo sempre salva la facoltà della parte di dedurre
quale specifico motivo di gravame il non corretto esercizio dei
poteri del giudice di primo grado, comportante la violazione dei
diritti di difesa o del principio di integrità del contraddittorio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondate, nei sensi di cui in
motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
19, commi 2 e 3, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni
urgenti per favorire l’occupazione), convertito con modifiche in
legge 23 maggio 1997, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3,
24, 103, primo comma, 113 e 125, secondo comma, della Costituzione,
dal tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto
Adige, sede di Trento, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Chieppa
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 10 novembre 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola