Sentenza N. 433 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
24/10/2000
Data deposito/pubblicazione
24/10/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/10/2000
Presidente: Francesco GUIZZI;
Giudici: Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO,
Riccardo CHIEPPA, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI,
Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco
BILE, Giovanni Maria FLICK;
legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta
nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con
ordinanza emessa il 28 giugno 1999 dalla Commissione tributaria
provinciale di Firenze, sui ricorsi riuniti proposti da Maestrini
Iolanda ed altri contro l’Ufficio del Registro di Firenze, iscritta
al n. 7 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 5, 1ª serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 24 maggio 2000 il giudice
relatore Massimo Vari.
ordinanza del 28 giugno 1999 – emessa in un giudizio promosso da
taluni contribuenti avverso avvisi di accertamento di maggior valore
di immobili caduti in successione – ha sollevato, in riferimento agli
artt. 97, 53 e 104 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992,
n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della
delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre
1991, n. 413), “nella parte in cui non consente alla Commissione
tributaria provinciale alcun giudizio sulla congruità delle imposte
da versare su cui l’Ufficio e il contribuente si sono accordati”.
Il giudice a quo, premesso che la sollevata questione appare
rilevante ai fini del decidere, giacché, nel corso del processo,
dopo che era stato “chiesto ed ottenuto un rinvio per conciliazione
alla prima udienza”, era pervenuta dall’Amministrazione una proposta
di definizione prontamente accolta dalle controparti, osserva che la
disposizione censurata consente agli uffici tributari, “a loro
insindacabile giudizio e senza neppure motivazione alcuna”, di
operare “sconti senza limiti rispetto ai valori accertati e sostenuti
con la costituzione in giudizio”, in assenza di “qualunque parametro
di riferimento”.
Ad avviso del rimettente, tale “assoluta discrezionalità, esente
da motivazione”, colliderebbe non solo con il principio di
imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione, ma anche con il
disposto dell’art. 53, considerato che, a fronte di “conciliazioni
prive di controlli, si realizzano discriminazioni inevitabili, anche
senza ipotizzare comportamenti illeciti”.
Secondo il giudice a quo sarebbe leso, altresì, il principio di
“indipendenza” della magistratura da ogni altro potere, consacrato
nell’art. 104 della Costituzione; e ciò a motivo della soggezione
del giudice tributario – il cui ruolo è delegittimato e ridotto a
quello di “notaro” di “un avvenuto accordo su cui non può
interferire” – “alle decisioni della Amministrazione”, atteso che “il
controllo sulla conciliazione proposta è meramente formale e non
sulla congruità degli imponibili e, dunque, delle imposte
concordate”.
Escluso, altresì, che la conciliazione prevista dalla censurata
disposizione possa essere equiparata a “quelle che si verificano
nell’ambito del giudizio civile”, in quanto, nella prima, una delle
parti è pubblica “e rappresenta uno degli interessi vitali dello
Stato”, l’ordinanza rileva che il “paragone” può proporsi, invece,
con la materia penale, e, segnatamente, con la “dichiarata
incostituzionalità dell’art. 444, comma 2, del codice processuale
penale”, nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il
giudice di valutare la congruità della pena proposta in sede di
“patteggiamento” dall’imputato e accettata dal pubblico ministero
(sentenza n. 313 del 1990).
2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, per sentir dichiarare inammissibile o, comunque, infondata la
sollevata questione.
Preliminarmente, la difesa erariale, nel rilevare che l’ordinanza
di rimessione non indica, in relazione ai commi 1, 4 e 5 del
denunciato art. 48, “la sequenza procedimentale in base alla quale in
ordine alla proposta di conciliazione si trovi ad esprimersi la
Commissione (in udienza) anziché il Presidente della Commissione”,
osserva che la stessa risulta carente di motivazione “circa la
verifica dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità della
conciliazione, il cui esito negativo soltanto avrebbe potuto rendere
rilevante” la sollevata questione.
Nel merito, si sostiene, anzitutto, l’inconferenza dell’invocato
parametro di cui all’art. 97 della Costituzione, che sarebbe,
infatti, estraneo “all’area della funzione giurisdizionale”. Nel
rilevare, altresì, che non possono essere confusi tra loro
“disciplina dell’azione dell’Amministrazione e poteri che, per
ipotetico vincolo costituzionale, dovrebbero” competere al giudice,
si nega, al tempo stesso, che il ruolo di quest’ultimo possa
considerarsi ridotto a quello di un notaio, essendo, infatti, il
medesimo chiamato a verificare il rispetto delle regole temporali e
formali dell’accordo stragiudiziale. Il comportamento dell’ufficio
finanziario che avanza o accetta la proposta di conciliazione non
sarebbe, del resto, svincolato da qualsiasi parametro normativo,
valendo in proposito le previsioni del comma 4-bis dell’art. 37 del
decreto legislativo n. 545 del 1992 (introdotto con l’art. 14, comma
2, del decreto legislativo n. 218 del 1997), circa l’attività di
indirizzo degli uffici finanziari periferici.
“Frutto di erronea sovrapposizione del piano processuale a quello
sostanziale” viene ritenuta dall’Avvocatura la denunciata violazione
dell’art. 53 della Costituzione, precetto che vincola, infatti, il
legislatore “sul piano sostanziale delle regole inerenti alla
configurazione delle fattispecie impositive”, ma “non in ordine alla
configurazione del processo tributario e dei poteri del giudice”.
Escluso, altresì, che le valutazioni espresse
dall’Amministrazione finanziaria nella procedura conciliativa siano
“suscettibili di essere sindacate nel merito dal giudice tributario
in un’ottica di tutela delle ragioni del fisco che contrasterebbe con
la sua posizione di terzietà”, l’Avvocatura ritiene non pertinente
l’evocazione dell’art. 104 della Costituzione, riferibile al solo
complesso dei giudici ordinari (a differenza di quanto prevede
l’art. 108), sostenendo, al tempo stesso, la legittimità dei giudizi
ad istanza di parte, retti dal principio dispositivo.
Del pari, non pertinente sarebbe, ad avviso della parte pubblica,
il richiamo della sentenza della Corte costituzionale n. 313 del
1990, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 444, comma 2, del codice di procedura penale, in quanto
tale norma non consentiva al giudice di valutare la rispondenza della
pena alla sua finalità rieducativa, così traducendosi in un vulnus
della stessa funzione costituzionale del titolare del potere di
sanzione penale.
Diversa sarebbe, invece, la situazione nel caso della
conciliazione giudiziale nel processo tributario, nel quale
“l’accordo delle parti supera la necessità della pronuncia
giurisdizionale” ed i poteri del giudice sono definiti dal
legislatore nell’ambito della sua discrezionalità.
l’ordinanza in epigrafe riguarda l’art. 48 del decreto legislativo 31
dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in
attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge
30 dicembre 1991, n. 413), “nella parte in cui non consente alla
Commissione tributaria provinciale alcun giudizio sulla congruità
delle imposte da versare su cui l’Ufficio e il contribuente si sono
accordati”.
Con tale disposizione il legislatore, al fine di snellire il
contenzioso tributario e di rendere più rapide le relative procedure
di accertamento, ha dettato una disciplina della conciliazione
giudiziale che, nel testo riformato dall’art. 14 del decreto
legislativo 19 giugno 1997, n. 218, prevede un rito “ordinario” e un
rito “semplificato”: il primo finalizzato ad una composizione della
lite, da perfezionare nel corso dell’udienza, sulla base di una
previa richiesta formulata da una delle due parti; il secondo ad una
definizione della controversia che, giusta le modalità previste dal
comma 5 del già menzionato art. 48, si concreta nella presentazione
di una proposta dell’Ufficio alla quale il contribuente abbia già
prestato adesione.
2. – In riferimento a questa seconda ipotesi, il giudice a quo,
muovendo dalla premessa che la disposizione censurata consenta agli
uffici tributari di addivenire alla conciliazione della lite “a loro
insindacabile giudizio e senza neppure motivazione alcuna”, in
assenza oltretutto di “qualunque parametro di riferimento”, ritiene
violato, anzitutto, il principio di imparzialità di cui all’art. 97
della Costituzione. A suo avviso, tale “assoluta discrezionalità,
esente da motivazione”, lederebbe anche l’art. 53 della Costituzione,
considerato che, a fronte di “conciliazioni prive di controlli, si
realizzano discriminazioni inevitabili, anche senza ipotizzare
comportamenti illeciti”.
Sarebbe inciso, al tempo stesso, il principio di “indipendenza”
della magistratura da ogni altro potere, consacrato nell’art. 104
della Costituzione; e ciò a motivo della soggezione del giudice
tributario – il cui ruolo è delegittimato e ridotto a quello di
“notaro” di “un avvenuto accordo su cui non può interferire” – “alle
decisioni della Amministrazione”, atteso che “il controllo sulla
conciliazione proposta è meramente formale e non sulla congruità
degli imponibili e, dunque, delle imposte concordate”.
3. – Va, anzitutto, respinta l’eccezione dell’Avvocatura dello
Stato, secondo la quale la questione sarebbe da reputare
inammissibile per difetto di motivazione sotto il profilo della
rilevanza.
Giova rammentare, al riguardo, che il menzionato art. 48, comma
5, del decreto legislativo n. 546 del 1992, nel disciplinare il rito
c.d. semplificato, dispone che l’Amministrazione può, sino alla data
di trattazione in camera di consiglio, ovvero fino alla discussione
in pubblica udienza, depositare una proposta di conciliazione alla
quale l’altra parte abbia previamente aderito, disponendosi,
altresì, che “se l’istanza è presentata prima della fissazione
della data di trattazione”, spetta al presidente valutare la
sussistenza dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità
della conciliazione e, se del caso, dichiarare l’estinzione del
giudizio.
Poiché, nella specie, la proposta di conciliazione risulta
presentata, come si evince dal testo dell’ordinanza, dopo l’udienza
di discussione, che era stata rinviata proprio in vista di un
possibile accordo fra le parti, non può dubitarsi che spettasse
all’organo collegiale, presso il quale il giudizio risultava ormai
incardinato, di provvedere in ordine all’intervenuta proposta
conciliativa e, pregiudizialmente, anche di sollevare eventuali
incidenti di costituzionalità.
Né può condividersi il rilievo che la questione, per poter
essere considerata rilevante, avrebbe richiesto la previa verifica
con esito negativo dei presupposti e delle condizioni di
ammissibilità della conciliazione, posto che il dubbio sollevato dal
giudice concerne proprio la disposizione attributiva della competenza
in ordine a tale verifica.
4. – Nel merito la questione è infondata.
Va, in primo luogo, rilevata l’inconferenza del richiamo operato
agli artt. 97 e 53 della Costituzione, dovuto, come osserva
giustamente la parte pubblica, ad un’erronea sovrapposizione di
piani, quello sostanziale e quello processuale. Come si evince dal
dispositivo dell’ordinanza di rimessione, la questione di
costituzionalità che essa intende sollevare si incentra
essenzialmente sulle funzioni del giudice tributario, assumendo al
riguardo che, a fronte della discrezionalità che in subjecta materia
sarebbe attribuita ai funzionari del fisco, la limitazione dei poteri
del giudicante alla sola verifica delle condizioni e dei presupposti
di ammissibilità della conciliazione, senza la possibilità di
controllare la congruità delle determinazioni raggiunte fra le parti
in causa, porrebbe la norma denunciata in contrasto, tra l’altro, con
i sopra richiamati precetti costituzionali.
Così posta la questione, il rimettente non considera che sia
l’art. 97 che l’art. 53 esulano dalla tematica in sé della funzione
giurisdizionale, attenendo, secondo la consolidata giurisprudenza di
questa Corte, l’uno all’organizzazione dell’amministrazione secondo
principi di imparzialità e di buon andamento e, l’altro, alla
garanzia sostanziale della proporzionalità dell’imposta alla
capacità del contribuente (ordinanze n. 30 del 2000 e n. 322 del
1992).
5. – Il giudice a quo ritiene, al tempo stesso, che i poteri
spettanti in materia di conciliazione all’amministrazione finanziaria
compromettano le sue funzioni anche sotto il profilo
dell’indipendenza, così risultando violato l’art. 104 della
Costituzione.
Nonostante l’improprio riferimento a quest’ultima disposizione,
che ha per oggetto le garanzie di indipendenza istituzionale della
magistratura ordinaria considerata nel suo complesso, il problema che
l’ordinanza intende sollevare, con riguardo alle competenze del
giudice tributario, attiene, come si evince dal contesto della
stessa, all’indipendenza funzionale del singolo organo dotato di
potere giurisdizionale; all’uopo evocando un principio, il cui
fondamento va rinvenuto nell’enunciazione generale dell’art. 101,
secondo comma (sentenza n. 440 del 1988), in connessione, quanto ai
giudici speciali, come nel caso oggetto di rimessione alla Corte, con
l’art. 108 della Costituzione. Orbene, è da escludere che il
menzionato principio – il quale, mira ad assicurare, come questa
Corte ha già avuto occasione di chiarire (sentenze n. 40 del 1964,
n. 234 del 1976 e n. 375 del 1996), che l’attività giurisdizionale
si svolga sotto l’esclusivo imperio della legge, senza inammissibili
influenze esterne – risulti compromesso dalla disposizione
denunciata. Infatti, attraverso la medesima, è lo stesso legislatore
a definire i limiti della cognizione riservata all’organo giudicante,
affidando ad esso, in vista di una più rapida definizione delle
controversie tributarie, il compito di accertare se la conciliazione
era ammissibile, se rientrava nei casi consentiti e se la relativa
procedura è stata correttamente espletata.
Come la Corte ha avuto occasione di rilevare proprio nella
sentenza n. 313 del 1990, addotta dal rimettente a sostegno della
sollevata questione, il fatto, poi, che al giudice sia attribuito un
mero controllo di legittimità non pregiudica l’integrità della
funzione, in ragione del ruolo che resta a lui affidato; ruolo che,
essendo preordinato alla definizione del giudizio, alla quale le
parti non potrebbero altrimenti pervenire, appare di decisivo rilievo
e tale da riportarsi alla stessa essenza della funzione
giurisdizionale.
Per il resto è sufficiente rilevare che, contrariamente a quanto
opina il rimettente, la soluzione accolta in questa sentenza, a
proposito dell’art. 444, comma 2, del codice di procedura penale, non
può in alcun modo fungere qui da precedente in vista di un eventuale
accoglimento, giacché, secondo quanto è dato evincere dalla
motivazione, la declaratoria di incostituzionalità cui la Corte è
pervenuta, in detta occasione, ha la sua specifica ragione d’essere
nel fatto che la norma allora denunciata, nella sua formulazione
originaria, non consentendo al giudice di valutare la rispondenza
della pena alla sua finalità rieducativa, si risolveva in un vulnus
della funzione affidata all’organo giudicante dall’art. 27, terzo
comma, della Costituzione, quanto alla determinazione dell’entità
della pena stessa.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al
Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413),
sollevata, in riferimento agli artt. 53, 97 e 104 della Costituzione,
dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, con l’ordinanza
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 ottobre 2000.
Il Presidente: Guizzi
Il redattore: Vari
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 24 ottobre 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola