Sentenza N. 46 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
26/03/1969
Data deposito/pubblicazione
26/03/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
20/03/1969
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI
– Dott. NICOLA REALE, Giudici,
del D.P.R. 16 maggio 1961, n. 636; dell’art. 16 del regio decreto 5
febbraio 1891, n. 99; e dell’art. 15, n. 3, del D.P.R. 16 maggio 1960,
n. 570 (testo unico delle leggi per la composizione e le elezioni degli
organi delle amministrazioni comunali), in relazione agli artt. 10 e 14
del regio decreto 3 marzo 1934, n. 283 (testo unico della legge
comunale e provinciale) promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 7 luglio 1967 dal tribunale di Sassari sul
ricorso di Paba Bachisio, iscritta al n. 220 del Registro ordinanze
1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 282
dell’11 novembre 1967;
2) ordinanza emessa il 26 giugno 1968 dalla Corte di appello di
Napoli sul ricorso di Battaglia Vincenzo, iscritta al n. 191 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968;
3) ordinanza emessa il 9 ottobre 1968 dalla Corte d’appello di
Napoli sul ricorso di Ambrosio Enrico, iscritta al n. 236 del Registro
ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 305 del 30 novembre 1968.
Visti gli atti di costituzione di Battaglia Vincenzo e di Ambrosio
Enrico;
udita nell’udienza pubblica del 29 gennaio 1969 la relazione del
Giudice Vezio Crisafulli;
udito l’avv. Roberto Gava, per il Battaglia.
1. – Con ordinanza emessa in data 7 luglio 1967 nel corso di un
procedimento promosso su ricorso di Paba Bachisio per ottenere la
dichiarazione di ineleggibilità di Tetti Virgilio a consigliere
comunale nel Comune di Bonorva, il tribunale di Sassari ha sollevato di
ufficio questione di legittimità costituzionale delle norme di cui
agli artt. 10 e 14 del testo unico delle leggi comunale e provinciale
approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, e di cui all’art. 11
del D.P.R. 16 maggio 1961, n. 636, in relazione agli artt. 18 e 3 della
legge 4 marzo 1958, n. 261, con riferimento all’art. 15, n. 3, del
D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, per contrasto con le disposizioni di cui
agli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.
L’ordinanza espone che uno dei motivi dedotti nel ricorso si basa
sulla circostanza, non controversa in giudizio, che il Tetti era stato
nominato, antecedentemente alla sua elezione, rappresentante del Comune
in seno al Consiglio di amministrazione del Patronato scolastico di
Bonorva, che è ente sovvenzionato dal Comune stesso: da tale carica
egli si era dimesso ben prima della sua elezione a consigliere
comunale, ma senza che le sue dimissioni fossero state formalmente
accettate e che, per conseguenza, si fosse proceduto alla sua
sostituzione. Poiché la soluzione costantemente data al problema
della efficacia delle dimissioni volontarie da un organo collegiale
amministrativo è nel senso di richiedere una loro accettazione
formale, il giudice a quo rileva che, se le norme di legge ordinaria
innanzi indicate debbono essere interpretate nel modo accennato, non è
manifestamente infondata la questione relativa al loro contrasto con il
principio costituzionale della eguaglianza di tutti i cittadini davanti
alla legge e con il principio costituzionale che concerne il diritto di
tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici ed alle cariche
elettive in condizioni di eguaglianza e secondo i requisiti stabiliti
dalla legge. Esigere per la cessazione della causa di ineleggibilità
non solo la presentazione delle dimissioni prima delle elezioni a
consigliere comunale, ma addirittura la loro accettazione e la
sostituzione nella carica del membro dimissionario, equivarrebbe,
infatti, a rendere i terzi arbitri circa la eleggibilità o meno di un
cittadino, potendosi con l’accettare o meno le dimissioni presentate,
con il procedere o meno alla sostituzione di coloro che si sono
dimessi, operare ingiustificate discriminazioni in ordine alla loro
capacità elettorale passiva.
Le circostanze di fatto come sopra descritte in merito alla vicenda
elettorale del controricorrente rendono, secondo l’ordinanza, rilevante
ai fini del decidere la questione di legittimità costituzionale
sollevata.
L’ordinanza è stata ritualmente notificata e comunicata, nonché
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 282 dell’11 novembre 1967.
2. – Con altra ordinanza emessa in data 26 giugno 1968 nel corso di
un procedimento promosso su ricorso di Battaglia Vincenzo avverso la
sentenza del tribunale di Napoli del 22 marzo 1968, nei confronti di
Annunziata Giuseppe, la Corte di appello di Napoli ha ritenuto non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata relativamente all’art. 15, n. 3, del testo unico 16 maggio
1960, n. 570, delle leggi per la composizione e la elezione degli
organi delle amministrazioni comunali in riferimento agli artt. 3 e 51
della Costituzione.
La norma di cui trattasi, non disciplinando in modo autonomo –
diversamente da come è disposto dall’art. 7 del T.U. 30 marzo 1957, n.
361 – le modalità di cessazione dalle funzioni inerenti alle cariche
in essa previste, che determinano la ineleggibilità a consigliere
comunale (nella specie trattasi di un componente del consiglio di
amministrazione dell’ente comunale di assistenza), postulerebbe
necessariamente, secondo l’ordinanza, l’applicazione delle norme di cui
agli artt. 10 e 14 del T.U. 3 marzo 1934, n. 383, della legge comunale
e provinciale (e successive modificazioni) secondo cui, qualora non sia
disposto altrimenti, la dichiarazione della decadenza o l’accettazione
delle dimissioni da un determinato ufficio spetta alla medesima
autorità che ha proceduto alla nomina, ed inoltre coloro che sono
nominati a tempo a un pubblico ufficio, ancorché sia trascorso il
termine prefisso, rimangono in carica fino all’insediamento dei
successori. Per conseguenza la regolamentazione che ne risulta verrebbe
ad apparire in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione.
Queste ultime norme, infatti, che sono svolte ad assicurare
l’eguaglianza di tutti i cittadini nell’accesso alle pubbliche cariche,
potrebbero non trovare applicazione ove sulle dimissioni
tempestivamente presentate dall’interessato non si prevedesse in tempo
debito da chi di competenza.
Nel caso in esame la questione di legittimità costituzionale
prospettata sarebbe di ovvia rilevanza ai fini del decidere, poiché le
dimissioni presentate dal Battaglia in tempo antecedente alla
convocazione dei comizi elettorali sarebbero state accettate solo
successivamente ad essa.
Anche questa seconda ordinanza risulta ritualmente notificata e
comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 12
ottobre 1968.
Si è costituita in giudizio innanzi a questa Corte la difesa del
Battaglia, con atto depositato il 31 ottobre 1968, deducendo che
secondo costante orientamento della giurisprudenza della magistratura
ordinaria gli amministratori degli enti comunali di assistenza debbono
essere considerati ancora in carica, e quindi ineleggibili a
consiglieri comunali, anche se al momento delle elezioni abbiano
presentato le dimissioni, delle quali abbia preso atto la Giunta
comunale, perché, a norma dell’art. 16 del R.D. 5 febbraio 1891, n. 99
e degli artt. 10 e 14 del T.U. n. 383 del 1934, essi rimangono in
carica fino all’accettazione delle dimissioni ed all’insediamento dei
nuovi amministratori.
Le norme innanzi indicate sarebbero pertanto in contrasto con i
precetti di cui agli artt. 3 e 51 della Costituzione per vari motivi.
Anzitutto in quanto gli amministratori degli enti comunali di
assistenza sarebbero sottoposti ad un trattamento di sfavore rispetto
agli amministratori di altri enti, istituti ed aziende, che possono
anche essere persone giuridiche private, sovvenzionati e vigilati dal
Comune, quando questi nominino direttamente i loro amministratori.
Sotto altro profilo, gli amministratori dell’ente comunale di
assistenza non si troverebbero in condizioni di eguaglianza con gli
altri cittadini nell’accesso alle cariche elettive, in quanto la
rimozione degli ostacoli posti alla loro eleggibilità non dipenderebbe
soltanto dalla loro volontà, ma sostanzialmente anche dalla volontà
di terzi, tanto più se si considera la brevità del tempo
intercorrente tra lo scioglimento dei consigli comunali ed il giorno
delle elezioni. Significativo sarebbe al riguardo, invece, il disposto
dell’art. 2 della legge 16 maggio 1956, n. 493, riprodotto nell’art. 7
del T.U. 30 marzo 1957, n. 361, che espressamente ha specificato
doversi intendere per cessazione dalle funzioni l’effettiva astensione
da ogni atto inerente all’ufficio, stabilendo altresì che solo in
alcuni casi è necessaria la formale presentazione delle dimissioni (e
non mai l’accettazione).
Conclude pertanto, la difesa del Battaglia per la dichiarazione di
fondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale.
3. – Una terza ordinanza, anch’essa della Corte di appello di
Napoli, emessa in data 9 ottobre 1968 nel corso di un procedimento
promosso su ricorso elettorale di Ambrosio Enrico contro Ragosta
Domenico, ha ritenuto, in base a motivi identici a quelli esposti
nell’ordinanza che precede, non manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale relativa all’art. 15, n. 3, del testo
unico 16 maggio 1960, n. 570, per contrasto con le disposizioni di cui
agli artt. 3 e 51 della Costituzione ed ha altresì sollevato, in
riferimento alle stesse norme costituzionali, questione di legittimità
relativamente all’art. 16, secondo comma, del regolamento 5 febbraio
1891, n. 99. Quest’ultima disposizione, infatti, in riferimento
all’ente comunale di assistenza, ente sovvenzionato dal Comune del
quale il Ragosta faceva parte, ha in comune con il primo comma dello
stesso articolo, che la prevede esplicitamente, la disciplina della
prorogatio nelle funzioni dei componenti la congregazione di carità o
le amministrazioni delle istituzioni pubbliche di beneficenza:
prorogatio, che non resterebbe esclusa dalla norma sulla immediata
convocazione del consiglio comunale per la nomina degli amministratori
venuti meno per decadenza, morte o dimissioni. Le disposizioni
costituzionali innanzi richiamate, che sono volte ad assicurare la
eguaglianza di tutti i cittadini nell’accesso alle pubbliche cariche,
potrebbero non trovare quindi applicazione – secondo l’ordinanza – ove
non si provvedesse da chi è tenuto o ad accettare tempestivamente le
dimissioni presentate dall’interessato, o, se tanto avvenuto, agli
ulteriori adempimenti di legge necessari perché i successori del
dimissionario assumano l’ufficio in tempo utile.
La questione così proposta sarebbe di evidente rilevanza ai fini
del decidere, in quanto in esito alle dimissioni presentate dal Ragosta
in tempo anteriore alla convocazione dei comizi elettorali non si era
provveduto tempestivamente da chi di competenza agli ulteriori
adempimenti per la sua cessazione dalla carica prima di tali comizi.
L’ordinanza risulta ritualmente notificata e comunicata, nonché
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 305 del 30 novembre 1968.
Si è costituita in giudizio innanzi a questa Corte, con atto
depositato il 20 dicembre 1968, la difesa dell’Ambrosio, la quale
illustra preliminarmente le circostanze di fatto, da cui risulterebbe,
fra l’altro, che il Ragosta, dimessosi da amministratore del locale
ente comunale di assistenza il 9 maggio 1967, aveva ottenuto la
accettazione delle sue dimissioni da parte del Comune e da parte
dell’ente comunale di assistenza rispettivamente nei successivi giorni
10 e 14 dello stesso mese, ma non era stato efficacemente ed
effettivamente sostituito, in quanto la deliberazione commissariale del
6 giugno 1967, n. 202, che nominava il suo sostituto, pur anteriore
alle elezioni, non poteva alla data delle stesse considerarsi già
operante, non essendo trascorsi i quindici giorni di pubblicazione, né
essendo intervenuta la approvazione prefettizia, né essendo stata essa
comunicata all’ente comunale di assistenza, né essendo comunque
avvenuto l’insediamento materiale del successore.
In relazione alle questioni dedotte, la difesa dell’Ambrosio
sostiene in primo luogo la loro inammissibilità, in quanto esse
concernerebbero la legittimità di una norma regolamentare (l’art. 16
del R.D. n. 99 del 1891) e di una norma (l’art. 15, n.3 del D.P. n.
570 del 1960) inserita in un testo unico meramente compilatorio, e al
più regolamentare anch’esso, in quanto non emanato in virtù di una
delega legislativa.
Nel merito la stessa difesa sostiene la infondatezza delle
questioni, in quanto le norme costituzionali invocate non
escluderebbero che il legislatore possa determinare condizioni di
ineleggibilità, come quelle della fattispecie in esame, con
riferimento a categorie di cittadini e nel rispetto di criteri
razionali. L’ordinanza della Corte di appello si richiamerebbe, in
realtà, secondo questo assunto difensivo, piuttosto ad un ipotetico
inconveniente, connesso all’eventualità che l’insediamento del
sostituto del dimissionario ritardi ad opera dell’autorità competente,
che non alla violazione di norme costituzionali; e l’inconveniente
lamentato sarebbe non solo temporaneo, ma verificabile per ogni ipotesi
di dimissioni, prevedibile e scontato dall’interessato come eventuale
conseguenza di una carica liberamente assunta.
4. – All’udienza la difesa del Battaglia ha insistito nelle
argomentazioni e nelle conclusioni precedentemente formulate.
1. – Le tre cause hanno ad oggetto questioni sostanzialmente
identiche e possono pertanto essere decise congiuntamente con unica
sentenza.
2. – Tutte le ordinanze, infatti, lamentano la violazione degli
artt. 3, prima parte, e 51 della Costituzione. Tutte denunciano la
disciplina risultante, secondo l’interpretazione dominante nella
giurisprudenza, dagli artt. 10 e 14 del T.U. della legge comunale e
provinciale del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, e dell’art. 15, n. 3, del
D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, nel senso che le cause di
ineleggibilità a consigliere comunale previste da quest’ultima
disposizione non cessino se non dopo che le dimissioni dagli uffici
nelle stesse indicati siano state accettate e siasi proceduto alla
sostituzione del dimissionario. Le ordinanze presentano, tuttavia,
alcune diversità di formulazione per quanto attiene alla
specificazione delle disposizioni nei confronti delle quali la
questione di legittimità costituzionale è stata da ciascuno
sollevata.
Più semplicemente delle altre, l’ordinanza 26 giugno 1968 della
Corte d’appello di Napoli conclude denunciando, in dispositivo, il solo
n. 3 dell’art. 15 del T.U. n. 570 del 1960, espressamente collegato
però, in motivazione, agli artt. 10 e 14 del T.U. comunale e
provinciale del 1934; mentre l’ordinanza emessa dalla stessa Corte il 9
ottobre successivo estende altresì la censura all’art. 16, secondo
comma, del regolamento 5 febbraio 1891, n. 99, disciplinante la
prorogatio nell’ufficio degli amministratori delle congregazioni di
carità, oggi enti comunali di assistenza.
A sua volta, l’ordinanza del tribunale di Sassari prospetta la
questione, in primo luogo, nei confronti degli artt. 10 e 14 del T.U.
del 1934, nonché dell’art. 16 maggio 1961, n. 636, ma con riferimento
all’art. 15, n. 3, del T.U. del 1960, ed anche “in relazione” con gli
artt. 18 e 3 della legge 4 marzo 1958, n. 261, sul riordinamento dei
patronati scolastici.
3. – Il R.D. 5 febbraio 1891, n. 99, è sicuramente un regolamento
di esecuzione, come tale previsto dall’art. 104 della legge 17 luglio
1890, n. 6972, cui accede, e denominantesi “regolamento
amministrativo”: per questa parte, la questione di legittimità
costituzionale sollevata nella seconda ordinanza della Corte d’appello
di Napoli è quindi inammissibile, in conformità della costante
giurisprudenza di questa Corte.
Alla medesima conclusione deve pervenirsi per la questione proposta
dal tribunale di Sassari in ordine all’art. 11 del D.P.R. n. 636 del
1961, la natura regolamentare del quale è già stata affermata da
questa Corte con la sentenza n. 18 del 1968 e non può che essere qui
ribadita, per le ragioni enunciate in detta sentenza.
Quanto poi agli artt. 3 e 18 della legge n. 261 del 1958, la Corte
ritiene che il tribunale di Sassari li abbia richiamati nell’ordinanza
al solo scopo di tracciare un quadro completo della normativa vigente
in materia di rapporti tra il comune e il consiglio di amministrazione
del patronato scolastico, di cui si controverteva nella specie:
infatti, l’art. 3 si limita a dettare norme sulla composizione, la
durata e l’organizzazione interna dei consigli di amministrazione dei
patronati, le quali potevano tutt’al più venire in considerazione come
presupposti indiretti, essendo in quella sede contestata la
eleggibilità a consigliere comunale di un componente del consiglio di
amministrazione del patronato scolastico nominato dal consiglio
comunale. L’art. 18, dal canto suo, non fa che rinviare ad un
regolamento di esecuzione (successivamente emanato con il ricordato
D.P.R. n. 636 del 1961) la disciplina delle forme e dei modi del
passaggio al nuovo ordinamento dei patronati scolastici e probabilmente
è stato indicato nell’ordinanza sol perché su di esso si fonda, tra
le altre, la disposizione regolamentare dell’art. 11, in ordine alla
quale era proposta questione di legittimità costituzionale, da
dichiararsi peraltro, come si è detto, inammissibile.
L’oggetto del presente giudizio risulta perciò circoscritto ai
rapporti degli artt. 10 e 14 del T.U. n. 283 del 1934, e 15, n. 3, del
T.U. del 1960 con gli artt. 3, prima parte, e 51, primo comma, della
Costituzione.
4. – La difesa del ricorrente nel giudizio promosso con l’ordinanza
9 ottobre 1968 della Corte d’appello di Napoli ha eccepito
l’inammissibilità della questione di costituzionalità nei confronti
dell’art. 15, n. 3, del D.P.R. n. 570 del 1960, trattandosi di testo
unico meramente compilatorio, privo di forza di legge perché non
adottato sulla base di una delega legislativa.
Ma l’eccezione dev’essere disattesa, perché, se è vero che l’atto
in questione non poteva assumere e non ha assunto, in difetto di
delegazione, forza di legge, è anche vero tuttavia che il suo art. 15
risulta dalla fusione dell’art. 15 di un precedente testo unico (il
D.P.R. 5 aprile 1951, n. 203), emesso in virtù della delega contenuta
nell’art. 21 della legge 24 febbraio 1951, n. 84, e quindi rientrante
certamente tra gli atti sottoposti al controllo di questa Corte a norma
dell’art. 134 della Costituzione, con l’art. 6 della legge 23 marzo
1956, n. 136, portante modificazioni a quel testo unico. Più
particolarmente, anzi, la disposizione del n. 3, che qui interessa,
costituisce trascrizione testuale del corrispondente n. 3 dell’art. 15
del testo unico delegato (atto con forza di legge) del 1951.
5. – Nel merito, la Corte osserva che, isolatamente riguardati a
prescindere dalle conseguenze che ne derivano sul significato del n. 3
dell’art. 15 del T.U. n. 570 (n. 3 dell’art. 15 del testo unico
legislativo n. 203 del 1951), gli artt. 10 e 14 del T.U. comunale e
provinciale n. 383 del 1934 non contrastano con le norme costituzionali
invocate nelle ordinanze di rimessione: l’art. 10 stabilendo che
l’accettazione delle dimissioni da un determinato ufficio spetta alla
medesima autorità che ebbe a procedere alla nomina e presupponendo
quindi il principio, di generale applicazione nel campo
giuspubblicistico, che le dimissioni non hanno effetto se non sono
state accettate dall’autorità competente; l’art. 14 formulando, con
specifico riferimento all’ipotesi di avvenuto decorso del termine di
durata, la regola che gli amministratori cessanti restano in carica
fino all’insediamento dei loro successori, anche questa applicabile,
più largamente, ad ogni altra ipotesi di cessazione dall’ufficio,
compresa quella di dimissioni.
Neppure la disposizione dell’art. 15, n. 3, in quanto prescrive
l’ineleggibilità a consigliere comunale di coloro che ricevono una
retribuzione a carico del comune o di enti o aziende dipendenti,
sovvenzionati o sottoposti a vigilanza del comune stesso nonché “degli
amministratori di tali enti, istituti od aziende”, appare di per sé
censurabile alla stregua delle norme della Costituzione cui si
richiamano le tre ordinanze.
Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (sentenza 3
luglio 1961, n. 42) non è vietato alla legge di stabilire in linea
generale ed astratta cause di ineleggibilità per categorie di soggetti
che, per gli uffici ricoperti o per i loro rapporti con il comune, si
trovino “in situazioni di incompatibilità con la posizione di
candidati alle elezioni”, sia per l’influenza che da quelle circostanze
può derivare sulla libera espressione del voto, sia per l’incidenza
che le circostanze medesime possono avere sull’esercizio delle funzioni
di consigliere comunale. È da soggiungere che lo stesso art. 51, primo
comma, nel ribadire, con particolare riguardo all’ammissione ai
pubblici uffici e alle cariche pubbliche elettive, il principio di
eguaglianza, riserva alla legge la determinazione dei requisiti di
volta in volta necessari, e questi possono essere tanto positivi quanto
negativi, come appunto il non trovarsi in situazioni del genere di
quella cui si è ora accennato.
6. – Ferme restando tali considerazioni, è tuttavia evidente che
le cause di ineleggibilità, derogando al principio costituzionale
della generalità del diritto elettorale passivo, sono di stretta
interpretazione e devono comunque rigorosamente contenersi entro i
limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la
soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono
preordinate. Per l’art. 51 della Costituzione, l’eleggibilità è la
regola, l’ineleggibilità l’eccezione.
Ma, ai fini che le cause di ineleggibilità specificamente
contemplate nell’art. 15, n. 3, del T.U. n. 570 del 1960 (art. 15, n.
3, del testo unico legislativo del 1951) tendono a perseguire, è
manifestamente ultroneo richiedere, per far cessare l’ineleggibilità,
che le dimissioni di chi aspiri alla candidatura siano state accettate,
senza d’altronde che alcun termine sia prescritto per l’accettazione;
così come è ultroneo esigere per di più che il dimissionario sia
stato sostituito nell’ufficio.
Un tale sistema, per quanto rispondente alle esigenze e conforme ai
principi del rapporto di servizio nel diritto pubblico, si traduce,
quando sia applicato senza i necessari temperamenti alla materia delle
ineleggibilità, in una ingiustificata limitazione, a danno di
particolari categorie di cittadini, del principio dell’art. 51, primo
comma: limitazione tanto più grave, in quanto la eleggibilità
finisce in tali ipotesi per dipendere da una estranea volontà, per
giunta discrezionale almeno in ordine al quando. Ne risulta violata al
tempo stesso la riserva di legge posta dall’art. 51, essendo il
protrarsi della ineleggibilità concretamente rimesso alla
discrezionalità del consiglio comunale, cui spetta accettare le
dimissioni e provvedere alla nomina dei nuovi amministratori.
Che la ratio delle ineleggibilità sia soddisfatta a sufficienza
con le semplici dimissioni accompagnate da una effettiva astensione del
dimissionario ad ogni ulteriore atto di ufficio, è confermato, del
resto, dalle apposite disposizioni contenute nell’art. 7 del D.P.R. 30
marzo 1957, n. 361, testo unico delle leggi per la elezione della
Camera dei deputati, a termini delle quali le cause di ineleggibilità
previste nello stesso articolo “non hanno effetto se le funzioni
esercitate siano cessate almeno 180 giorni prima della data di scadenza
della Camera dei deputati” (e, in caso di scioglimento anticipato,
entro i sette giorni successivi alla data del decreto di scioglimento),
precisandosi altresì che “per cessazione delle funzioni si intende la
effettiva astensione da ogni atto inerente all’ufficio rivestito,
preceduta… dalla formale presentazione delle dimissioni”.
Disposizioni sostanzialmente analoghe sono dettate anche per le
elezioni del Consiglio regionale della Sardegna, del Trentino-Alto
Adige e del Friuli-Venezia Giulia, rispettivamente dall’art. 6 del
D.P.R. 12 dicembre 1948, n. 1462, dall’art. 12 della legge regionale
20 agosto 1952, n. 24, e dall’art. 8 della legge 3 febbraio 1964, n.
3.
Come si rileva raffrontando fra loro le disposizioni ora
menzionate, il legislatore, nella sua discrezionalità, può variamente
determinare, purché secondo criteri razionali, la data entro la quale
deve verificarsi la cessazione della causa di ineleggibilità, nei
sensi sopra esposti; ma in nessun caso tale data può essere successiva
a quella prescritta per l’accettazione della candidatura, che
rappresenta il primo atto di esercizio del diritto elettorale passivo.
Ond’è che, in mancanza di apposite disposizioni, è questo il momento
cui deve farsi riferimento.
7. – Deve concludersi pertanto che quel che si pone in contrasto
con l’art. 51 della Costituzione è la normativa risultante dal
combinato disposto degli artt. 15, n. 3, T.U. n. 570 del 1960 (art.
15, n. 3, testo unico legislativo n. 203 del 1951) e dagli artt. 10 e
14 T.U. comunale e provinciale n. 383 del 1934, nonché dai più
generali principi da questi ultimi implicati.
L’accertata violazione dell’art. 51, primo comma, rende superfluo
prendere in esame le censure per contrasto con l’art. 3, prima parte,
della Costituzione, tanto più che l’art. 51 è la disposizione che,
nel fare specifica e circostanziata applicazione del principio di
eguaglianza alla materia della eleggibilità, pone i principi
direttamente disciplinanti la materia stessa.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili:
a) la questione di legittimità costituzionale proposta dal
tribunale di Sassari con l’ordinanza di cui in epigrafe, in ordine
all’art. 11 del D.P.R. 16 maggio 1961, n. 636;
b) la questione di legittimità costituzionale proposta dalla Corte
d’appello di Napoli, con l’ordinanza del 9 ottobre 1968, in ordine
all’art. 16, secondo comma, del R.D. 5 febbraio 1891, n. 99;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, n. 3, del
T.U. 16 maggio 1960, n. 570 (art. 15, n. 3, D.P.R. 5 aprile 1951, n.
203), contenente norme per la composizione e la elezione degli organi
delle amministrazioni comunali, in relazione agli artt. 10 e 14 del
R.D. 3 marzo 1934, n. 383, T.U. della legge comunale e provinciale,
limitatamente alla inclusione nelle ipotesi di ineleggibilità previste
nel n. 3 dell’art. 15 di coloro che, all’atto della accettazione della
candidatura, abbiano presentato le dimissioni astenendosi
successivamente da ogni attività inerente all’ufficio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 marzo 1969.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE