Sentenza N. 48 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
26/03/1969
Data deposito/pubblicazione
26/03/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
20/03/1969
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI
– Dott. NICOLA REALE, Giudici,
comma, del Codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il
5 agosto 1967 dal pretore di Chiavari nel procedimento penale a carico
di Podestà Antonio, iscritta al n. 263 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 27
gennaio 1968.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 12 febbraio 1969 la relazione del
Giudice Enzo Capalozza;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni
Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Con decreto penale del 28 febbraio 1967, il pretore di Chiavari
condannava Menta Mario e Podestà Antonio alla pena di L. 100.000
ciascuno, per aver posto in vendita un quantitativo di confetti sfusi,
sprovvisto di ogni indicazione di ingredienti, in violazione dell’art.
8 della legge 30 aprile 1962, n. 283, sulla disciplina igienica della
produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande.
A seguito di rituale opposizione proposta soltanto dal Menta,
questi veniva assolto dal reato ascrittogli per insufficienza di prove
sul fatto relativo alla mancanza della suddetta indicazione.
In sede di esecuzione del decreto penale contro il Podestà, il
pretore, nell’ordinanza del 5 agosto 1967, osservava non potersi
disporre nei confronti di questi la revoca del decreto, che è bensì
ammessa per il coimputato non opponente – ai sensi dell’ultimo comma
dell’art. 510 del Codice di procedura penale – ma soltanto se “la
sentenza che decide sull’opposizione riconosce che il fatto non
sussiste o non costituisce reato”, e, quindi, con esclusione
dell’ipotesi di che trattasi, che è di assoluzione con formula
dubitativa dell’opponente. Da ciò traeva argomento il pretore per
ritenere non manifestamente infondata – oltre che rilevante – la
questione di legittimità, con riferimento all’art. 3 della
Costituzione, che stabilisce l’eguaglianza di tutti i cittadini,
dappoiché “nella fattispecie – per lo stesso fatto – e trovandosi
entrambi nella stessa condizione (salvo la condizione formale di
opponente al decreto penale), uno dovrebbe subire una sanzione penale e
l’altro no”. Denunziava, pertanto, a questa Corte il ridetto ultimo
comma dell’art. 510 che “limita la revoca del decreto penale di
condanna nei confronti del coimputato non opponente ai soli casi nei
quali la sentenza conseguente all’opposizione riconosce che il fatto
non sussiste o non costituisce reato, e non la estende al caso di
assoluzione per insufficienza di prove sul fatto”.
L’ordinanza, ritualmente comunicata e notificata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 24 del 27 gennaio 1968.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte non si è costituita la parte
privata. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto con atto
depositato in data 15 febbraio 1968, chiedendo che la questione sia
dichiarata infondata.
Deduce l’Avvocatura che la diversità del trattamento normativo
riguarda situazioni diverse, conseguenti al diverso uso che gli
interessati, nella sfera dell’autonomia ad essi riservata, hanno
ritenuto di fare degli strumenti loro imparzialmente offerti dalla
legge, e non riguarda invece tali strumenti. Nell’ipotesi di
assoluzione per insufficienza di prove sul fatto, la posizione
dell’opponente e del non opponente sarebbe, poi, simmetrica a quella
derivante dal potere attribuito al giudice di infliggere, con la
sentenza, al solo opponente una pena maggiore e anche diversa da quella
portata nel decreto di condanna, nonché di revocare i benefici di
legge e di applicare misure di sicurezza.
Dopo avere così argomentato circa la disparità tra opponente e
non opponente nel caso di assoluzione con formula dubitativa sul fatto,
l’Avvocatura generale si prende cura di esaminare il profilo – che
assume non espressamente prospettato nell’ordinanza – della diversa
posizione che la norma denunciata attribuisce al non opponente, a
seconda che il giudizio proposto dall’opponente siasi concluso con
formula piena ovvero con formula dubitativa sul fatto. L’effetto
estensivo della sentenza al non opponente, nella prima ipotesi, ad
avviso dell’Avvocatura, sarebbe dettato da particolari ragioni di
opportunità, in deroga al principio generale, per cui la sentenza fa
stato solo nei confronti delle parti presenti nel procedimento in cui
viene pronunciata. Data la differenza oggettiva fra le due situazioni e
le due formule assolutorie, sarebbe immune da irragionevolezza la norma
con la quale il legislatore ordinario, nell’ambito della
discrezionalità ad esso riservata, ha ritenuto di regolare
diversamente, per casi diversi, gli effetti della sentenza di
assoluzione dell’opponente.
1. – La soluzione della questione sottoposta all’esame di questa
Corte prescinde dall’indagine sulla natura giuridica dell’opposizione a
decreto penale di condanna.
Devesi, per altro, tener fermo che l’impugnazione in genere e
l’opposizione a decreto penale sono ispirate a criteri informatori
diversi.
Nell’impugnazione, sia la dichiarazione sia i motivi si estendono
ai compartecipi, purché non siano esclusivamente personali a chi ha
impugnato (art. 203 del Cod. proc. pen.); mentre il decreto penale,
quando è pronunciato a carico di più persone concorrenti nello stesso
reato (art. 110 e segg. del Cod. pen.), diviene, di regola, esecutivo
contro quelle tra esse che non hanno proposto opposizione (art. 508,
primo comma, del Cod. proc. pen.), salvo che la sentenza che decide
sull’opposizione riconosca che il fatto non sussiste o non costituisce
reato (art. 510, ultimo cpv., del Codice procedura penale).
In sostanza, il legislatore ha regolato in modo diverso due
situazioni radicalmente diverse: per l’impugnazione in genere, ha
scelto la strada dell’estensività, che trova la sua integrazione nella
garanzia offerta anche all’impugnante dal principio della non
reformatio in peius; per l’opposizione a decreto penale, ha, invece,
reso arbitro il compartecipe di accettare la condanna inflitta, con la
sola eccezione a lui favorevole prevista, per ragioni di equità,
dall’ultimo capoverso dell’articolo 510.
Alla stregua, quindi, della costante giurisprudenza, secondo cui il
principio di eguaglianza deve assicurare ad ognuno parità di
trattamento solo allorché eguali siano le condizioni soggettive ed
oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono (sentenze n. 3
del 1957; n. 64 del 1961; n. 68 del 1961; n. 7 del 1965; n. 11 del
1968; n. 11 del 1969; n. 17 del 1969), è da escludere la violazione
dell’art. 3 della Costituzione.
Mette conto, altresì, ricordare che questa Corte si è più volte
pronunciata nel senso che la valutazione della diversità di situazioni
giustificatrici di una differenza di trattamento giuridico non può non
essere riservata alla discrezionalità del legislatore ordinario
(sentenze n. 3 del 1957; n. 28 del 1957; n. 118 del 1957; n. 53 del
1958; n. 6 del 1960; n. 1 del 1962; n. 7 del 1962; n. 8 del 1962; n. 44
del 1965; n. 45 del 1967), salva, beninteso, l’osservanza dei limiti
stabiliti nel primo comma dell’art. 3 della Costituzione (sentenza n.
28 del 1957; n. 118 del 1957; n. 16 del 1960; n. 38 del 1965).
Non può prospettarsi una irragionevolezza della disciplina, per
ciò che riguarda il cosiddetto processo monitorio, dappoiché le
conseguenze giuridiche (sostanziali e processuali) dell’opposizione,
non essendo presidiate dalla non reformatio in peius, possono essere
assai gravose e pregiudizievoli per chi la propone, sia per l’onere
delle spese, sia anche perché il giudice, se pronuncia sentenza di
condanna, è tenuto, per la irrogazione concreta della pena, solo a
rispettare i limiti edittali (e cioè può infliggere una pena
pecuniaria superiore o anche una pena detentiva, quando questa sia
alternativamente prevista); può negare la sospensione condizionale
della pena e la non menzione della condanna nel certificato penale, che
siano state concesse con il decreto; può applicare misure di sicurezza
(art. 510, secondo comma, del Cod. proc. pen.) e, non essendo vincolato
dal decreto penale (che è revocato se l’opponente si presenta
all’udienza: art. 510, primo inciso del secondo comma), può anche dare
una diversa e più severa qualificazione al fatto.
L’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma
denunziata, nella parte in cui limita l’estensione della sentenza
assolutoria alle persone che abbiano concorso nel reato, offrirebbe al
non opponente solo i vantaggi dell’altrui iniziativa, senza fargli
correre alcun rischio né sopportare alcun onere.
2. – È ben vero che l’attuale disciplina può dare adito ad un
accertamento contraddittorio del fatto materiale che ha formato oggetto
del giudizio penale; si tratta però di un inconveniente, per quanto
vistoso, che, attenendo alle discrasie tra la giustizia formale e la
giustizia sostanziale e non presentando profili di illegittimità
costituzionale, può essere eliminato non da questa Corte, bensì dal
legislatore.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 510, ultimo comma, del Codice di procedura penale, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, sollevata con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 marzo 1969.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE.