Sentenza N. 504 del 1995
Corte Costituzionale
Data generale
14/12/1995
Data deposito/pubblicazione
14/12/1995
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/12/1995
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1995 dal Tribunale di
sorveglianza di Bari nel procedimento di sorveglianza nei confronti
di Ghirardini Pasqualino, iscritta al n. 331 del registro ordinanze
1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24,
prima serie speciale, dell’anno 1995;
Udito nella camera di consiglio del 18 ottobre 1995 il Giudice
relatore Giuliano Vassalli.
1975, n. 354, da Ghirardini Pasqualino avverso il decreto con cui il
locale Magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la
sua domanda volta ad ottenere la concessione di un permesso premio,
il Tribunale di sorveglianza di Bari ha, con ordinanza del 16 marzo
1995, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis della legge
26 luglio 1975, n. 354, sostituito dall’art. 15 del decreto-legge 8
giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,
“nella parte in cui prevede il divieto di concessione dei permessi
premio ai condannati per i delitti indicati nel primo periodo del
primo comma dello stesso art. 4-bis già ammessi a fruire di tali
benefici che non abbiano prestato o non prestino collaborazione con
la giustizia ex art. 58-ter” della stessa legge n. 354 del 1975,
anche quando non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti
attuali dei medesimi con la criminalità organizzata.
2. – L’ordinanza osserva, in primo luogo, che il Ghirardini,
condannato per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione
con sentenza della Corte di appello di Milano, era stato detenuto dal
23 dicembre 1982 al 17 giugno 1988 e dal 13 ottobre 1988 al 5
dicembre 1991 e successivamente dal 7 maggio 1992, con scadenza pena
al 22 novembre 1997. Nel corso della sua detenzione aveva fruito di
oltre venticinque permessi premio (il primo concesso il 28 febbraio
1987, l’ultimo l’8 novembre 1991) ed era stato pure ammesso al lavoro
all’esterno dall’11 aprile 1988 al 17 giugno dello stesso anno.
L’interessato aveva proposto successivamente due domande di
permesso, nella seconda delle quali aveva invocato l’applicazione
della sentenza costituzionale n. 306 del 1993, in relazione ai
precedenti permessi premio di cui aveva usufruito, “esperienza questa
che gli sarebbe stata irragionevolmente (perché senza sua colpa)
preclusa dal sopravvenire della nuova disciplina”. Ma il Magistrato
di sorveglianza aveva confermato il provvedimento di diniego perché
sarebbe da ritenere privo di rilievo il richiamo alla sentenza n. 306
del 1993, avendo tale pronuncia “disposto in tema di benefici già
concessi, non già di concessione dei benefici”.
3. – Dopo aver sottolineato che il permesso premio costituisce
parte del programma di trattamento, ai fini della progressiva
risocializzazione del detenuto, “anche quale momento di passaggio
verso benefici più ampi”, il giudice a quo ricorda come, con
l’entrata in vigore del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, l’interessato non è
più ammesso ad usufruire dei permessi premio, salvo che alle
condizioni indicate dal “novellato” art. 4-bis della legge n. 354 del
1975. A questo proposito l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza
richiama la sentenza n. 306 del 1993 di questa Corte, con la quale è
stata, fra l’altro, dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 15, comma 2, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, “nella parte in cui
prevede che la revoca delle misure alternative alla detenzione sia
disposta, per i condannati per i delitti indicati nel primo periodo
del comma 1 che non si trovano nella condizione per l’applicazione
dell’art. 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, anche quando
non sia stata accertata l’esistenza di collegamenti con la
criminalità organizzata”; e ricorda che, proprio con riguardo al
reato di cui all’art. 630 del codice penale, la sentenza stessa ebbe
a sottolineare come tale reato “può bensì far capo ad
organizzazioni criminali stabili, ma non di rado è il frutto di
aggregazioni occasionali o comunque di strutture criminali
circoscritte, che tendono a dissolversi con la cattura dei
compartecipi”; senza contare che la mancata collaborazione potrebbe
derivare da valutazioni “non ragionevolmente rimproverabili”, quali
il timore di gravi ritorsioni ai danni del collaboratore e dei suoi
familiari.
Rileva poi il giudice a quo che, nel caso in esame, nel
“sopravvenuto impedimento alla fruizione dei permessi” è assente
ogni colpa del Ghirardini, il quale ha utilizzato i permessi tenendo
sempre una condotta corretta; d’altro canto il reclamante non è più
collegato alla criminalità organizzata, “sia per la durata della
carcerazione sofferta ed il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione del reato” sia “per le stesse caratteristiche del reato”,
perpetrato “da una banda di nomadi giostrai” e non da
un’organizzazione collegata alla grande criminalità. Quanto, poi, ai
precedenti penali, ne risulta uno soltanto per il reato di furto.
4. – Il giudice a quo richiama, poi, le sentenze costituzionali n.
357 del 1994 e n. 68 del 1995 per affermarne l’inapplicabilità alla
posizione del Ghirardini. Da un lato, non risulta che la posizione
del condannato si sia differenziata da quella dei suoi correi;
dall’altro lato, è emerso che al fatto parteciparono altre persone
non identificate – ma sicuramente note al Ghirardini – riguardo
all’identificazione delle quali il reclamante non ha prestato il
minimo contributo. Donde la conclusione che, alla stregua del diritto
vigente, non resterebbe che confermare il provvedimento reiettivo del
Magistrato di sorveglianza.
5. – Di qui la necessità di sollevare la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,
sostituito dall’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, “nella parte in cui
prevede il divieto di concessione dei permessi premio ai condannati
per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma dello stesso
art. 4-bis già ammessi a fruire di tali benefici che non abbiano
prestato o non prestino collaborazione con la giustizia ex art.
58-ter” della stessa legge n. 354 del 1975, anche quando non sia
stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi
con la criminalità organizzata.
Il tutto in una prospettiva volta ad estendere ai permessi premio i
principi enunciati dalla sentenza n. 306 del 1993. Vero è che tale
decisione ha preso in esame – per ragioni attinenti alla rilevanza –
il regime della sola revoca delle misure alternative, “laddove l’art.
15, comma 2, del d.-l. n. 306 prevede anche, per le stesse
condizioni, la revoca dei permessi premio”. Ma, una volta “revocato
il permesso al momento in esecuzione da parte del Magistrato di
sorveglianza, il detenuto non potrebbe più ottenerne per la
disciplina dell’art. 4-bis”. Dunque, poiché i permessi “non si
sostanziano, come le misure alternative, in una continuativa
esperienza di risocializzazione, secondo un programma di trattamento
che si estende a tutta la durata della pena, bensì in reiterate,
piccole esperienze di libertà per il detenuto, che nel loro
complesso costituiscono parte integrante del trattamento”, il non
poter fruire del permesso premio da parte di un detenuto che vi era
ormai sistematicamente ammesso equivale ad una vera e propria revoca,
“intesa come revoca del trattamento praticato mediante il permesso”.
In conclusione, poiché anche tale revoca deve essere assoggettata
ai principi costituzionali affermati nella sentenza n. 306 del 1993
(il condannato ha dato prova, infatti, con il progredire della sua
risocializzazione, della diminuzione della sua pericolosità
sociale), ne consegue che il privarlo di tale diritto senza suo
demerito ed a seguito dello ius superveniens si rivela una disciplina
irragionevole, oltre che in contrasto con il principio della funzione
rieducativa della pena.
6. – Nel giudizio non ha spiegato intervento il Presidente del
Consiglio dei ministri né si è costituita la parte privata.
agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della legittimità
costituzionale dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,
nel testo sostituito dall’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n.
306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui
esclude dal beneficio dei permessi premio i condannati per uno dei
delitti indicati nel primo periodo del comma 1 dello stesso art.
4-bis, già ammessi ad usufruire di tale beneficio, anche quando non
sia accertata la sussistenza di collegamenti con la criminalità
organizzata.
Chiamato a decidere sul reclamo proposto da un detenuto –
condannato per il delitto di sequestro di persona a scopo di
estorsione, che, nel corso della sua detenzione, aveva già usufruito
di venticinque permessi premio – avverso il decreto con cui il
Magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la sua
domanda diretta ad ottenere un nuovo permesso premio, per non aver
prestato opera di collaborazione con la giustizia, il giudice a quo
ritiene che la posizione del condannato non ammesso per tale ragione
al detto beneficio non sia dissimile da quella del condannato al
quale venga revocata una misura alternativa alla detenzione, non
collaborante a norma dell’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975.
Una fattispecie ritenuta non conforme alla Costituzione da questa
Corte con sentenza n. 306 del 1993, che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2, del
decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del
1992, nella parte in cui, appunto, prevede che la revoca delle misure
alternative alla detenzione sia disposta, per i condannati per i
delitti indicati nel primo periodo del comma 1 che non si trovano
nelle condizioni per l’applicazione dell’art. 58-ter della legge n.
354 del 1975, anche quando non sia stata accertata la sussistenza di
collegamenti attuali dei medesimi con la criminalità organizzata.
Una situazione, dunque, equiparabile a quella del diniego del
permesso premio per il detenuto sistematicamente ammesso ad un simile
beneficio, costituente “parte integrante del trattamento”. Tale
diniego verrebbe, infatti, a coincidere con una vera e propria revoca
del trattamento praticato al detenuto, così da impedirgli di
progredire nell’opera di risocializzazione.
2. – La questione è fondata.
Come è noto, l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, nel testo
attualmente vigente, relativamente ai detenuti e internati per i
delitti previsti dall’ultima parte del primo periodo del comma 1,
consente l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le
misure alternative alla detenzione solo nei casi in cui tali detenuti
e internati collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter
della stessa legge n. 354 del 1975, introdotto dall’art. 1, comma 5,
del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12
luglio 1991, n. 203, stando al quale le disposizioni degli artt. 21,
comma 1 (ammissione all’assegnazione al lavoro all’esterno solo dopo
l’espiazione di un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque
anni), 30-ter, comma 4 (concessione dei permessi premio dopo
l’espiazione di almeno la metà della pena e, comunque, di non oltre
dieci anni), 50, comma 2 (ammissione alla semilibertà per i
condannati solo dopo l’espiazione di almeno due terzi della pena),
concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nel
comma 1 dell’art. 4-bis, non si applicano a coloro che, anche dopo la
condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa
sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato
concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
l’individuazione e la cattura degli autori dei reati.
Per la verità, il richiamo alla disposizione dell’art. 58-ter
della legge n. 354 del 1975 sembra rivelare un non troppo preciso
coordinamento con i precetti a loro volta richiamati da tale
disposizione e che parrebbero non preordinati ad istituire una
preclusione assoluta alla concessione del beneficio di cui all’art.
30-ter (oltre che dell’ammissione al lavoro esterno ed alla
semilibertà); pure se non è senza importanza considerare che, per i
reati del “primo gruppo” (fra i quali rientra anche quello per cui è
intervenuta condanna del reclamante nel giudizio a quo), la
collaborazione con la giustizia deve attuarsi nelle forme previste
dall’art. 58-ter, mentre per i reati della “seconda fascia” i
benefici previsti dalla prima parte del primo periodo dell’art. 4-bis
possono essere concessi solo se non vi sono elementi tali da far
ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità
organizzata o eversiva.
Il che rende necessario a questa Corte puntualizzare come la
perentorietà del lessico adottato dal primo periodo del comma 1
dell’art. 4-bis nella sua ultima formulazione (“l’assegnazione al
lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla
detenzione previste dal Capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354,
fatta eccezione per la liberazione anticipata possono essere concessi
ai detenuti e internati
… solo nei casi in cui tali detenuti o internati collaborano con
la giustizia a norma dell’art. 58-ter”), non consenta una soluzione
diversa da quella suggerita dal giudice a quo. Con la conseguenza che
il richiamo di tale precetto agli artt. 21, comma 1, 30-ter, comma 4,
50, comma 2 (nessun richiamo è invece disposto relativamente alle
misure alternative alla detenzione diverse dalla semilibertà), è
effettuato solo in vista di consentire, ove venga spiegata la
richiesta attività collaborativa, l’applicazione anche immediata dei
benefici penitenziari.
3. – Ciò premesso, va ricordato come questa Corte, chiamata per la
prima volta a pronunciarsi sulla legittimità della scelta
collaborativa introdotta dall’art. 15 del decreto-legge n. 306 del
1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, quale condizione
insuperabile per l’approdo alle misure alternative alla detenzione,
pur ritenendo “rispondente alla esigenza di contrastare una
criminalità organizzata aggressiva e diffusa la scelta del
legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di
sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai
detenuti che collaborano con la giustizia”, ebbe ad osservare come la
soluzione “di inibire l’accesso alle misure alternative alla
detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia
comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa
della pena” (sentenza n. 306 del 1993, paragrafo 11). Si
puntualizzò, in primo luogo, che la classificazione per tipi di
reato “non appare consona ai principi di proporzione e di
individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento
penitenziario”; si stigmatizzò, poi, come le maggiori perplessità
derivassero da un assetto che, “pur in una strategia di
incentivazione della collaborazione”, finiva per vanificare
“programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da lungo tempo)”,
con la conseguente violazione della finalità rieducativa della pena
e dell’art. 3 della Costituzione. E ciò per la “preclusione assoluta
di tutte le misure extramurarie, delle quali il legislatore ha
riconosciuto l’utilità per il raggiungimento dell’obiettivo di
risocializzazione”, nei casi in cui la “scelta collaborativa sarebbe
oggettivamente impossibile”. Con riferimento alla revoca dei benefici
penitenziari, dopo aver precisato come il legislatore si è sempre
attenuto, conformemente al dettato dell’art. 27, primo comma, della
Costituzione, alla regola in base alla quale la revoca è comunque
subordinata ad una condotta addebitabile al condannato, ha ribadito
come l’effetto della revoca “deve essere proporzionato (oltre che al
quantum di afflittività che da esso è derivato) alla gravità
oggettiva e soggettiva del comportamento che ha determinato la
revoca”.
Proprio dando applicazione ai detti principii si concluse che “la
mancata collaborazione non può essere assunta come indice di
pericolosità specifica”, ben potendo derivare da “incolpevole
impossibilità di prestarla, ovvero essere conseguenza di valutazioni
che non sarebbero ragionevolmente rimproverabili, quali, ad esempio,
l’esposizione a gravi pericoli per sé o per i propri familiari che
la collaborazione del condannato possa eventualmente comportare”.
Dunque, a fronte della statuizione che per i delitti indicati nel
primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis la valenza preclusiva
dell’inadempimento dell’onere previsto dall’art. 58-ter resta
condizionata – nel caso di condannati per i detti reati, che non si
trovino nella condizione di tenere il comportamento contemplato dalla
seconda di tali disposizioni – al mancato accertamento della
sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata
costituente l’unica delle condizioni perché al precetto ora
ricordato possa derogarsi, si rilevò che nell’effettuare tale ultima
verifica, “la mancata collaborazione con la giustizia può certo
assumere valore indiziante”, precisandosi però che quando un simile
accertamento dia esito negativo, “stabilire che la misura alternativa
già concessa debba essere revocata sulla sola base della mancata
collaborazione trasmoda in regolamentazione irragionevole della
materia”.
4. – Può dirsi allora che la valenza dell’elemento collaborativo
abbia subito, per via del suo significato prevalentemente
dimostrativo dell’assenza di collegamenti con la criminalità
organizzata, una progressiva opera di sgretolamento.
Ne consegue che la ratio decidendi della sentenza n. 306 del 1993
è stata correttamente invocata dal giudice a quo a sostegno della
illegittimità della norma adesso denunciata. Tanto più che il ruolo
esponenziale del contegno collaborativo relativamente ai delitti di
cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 è stato
ulteriormente ridimensionato a seguito della sentenza n. 357 del
1994, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non prevede
che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possano
essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al
fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda
impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che
siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa
l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal
modo, sfuggendo nuovamente ad una rigorosa tipicizzazione della
condotta di collaborazione, si è ancorata la concessione dei
benefici penitenziari ad un canone più elastico, dando rilievo al
momento accertativo (ma questa volta in senso positivo) della
inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Una
linea successivamente ripresa da questa Corte (v. sentenza n. 68 del
1995) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
4-bis, comma 1, secondo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354,
nella parte in cui non prevede che i benefici di cui al primo periodo
del medesimo comma (e quindi pure i permessi premio) possano essere
concessi anche nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e
delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda
impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che
siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa
l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Una
decisione che ebbe ad osservare – con perentorio intento
chiarificatore – come, pur rimanendo “sullo sfondo, quale generale
presupposto per la concessione dei benefici, la verificata assenza di
collegamenti con la criminalità organizzata”, la normativa
introdotta dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge
n. 356 del 1992, “ha obliterato fino a dissolverli i parametri
probatori alla cui stregua condurre un siffatto accertamento, per
assegnare invece un risalto esclusivo ad una condotta – quella
collaborativa – che si assume come la sola idonea a dimostrare, per
facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti”.
La conseguenza è che, incentrandosi sulla condotta il presupposto
per il conseguimento dei benefici, la compatibilità con la funzione
rieducativa della pena rimane esclusa tutte le volte in cui la
collaborazione non “risulti oggettivamente esigibile” (così, ancora,
la sentenza n. 68 del 1995).
5. – Il giudice a quo, dopo aver correttamente sottolineato come
nelle ipotesi di impossibilità della scelta collaborativa – sia essa
tipizzata dall’art. 4-bis ovvero costituisca la risultante delle
decisioni ora ricordate – è sufficiente l’acquisizione di elementi
tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con
la criminalità organizzata, rileva come, nel caso di specie, la
scelta collaborativa sarebbe tuttora non impossibile risultando che
il reato, sia pure risalente negli anni, era stato commesso in
concorso con persone di cui certamente il condannato conosceva
l’identità, che non era stata, però, mai rivelata; la tipologia del
reato commesso comportava – come questa Corte aveva già precisato –
che il reato può “bensì far capo ad organizzazioni criminali
stabili, ma non di rado è il frutto di organizzazioni occasionali o
comunque criminali circoscritte che tendono a dissolversi con la
cattura dei compartecipi” (sentenza n. 306 del 1993). Di qui
l’applicazione dell’identica ratio decidendi di tale sentenza nel
caso di detenuto già ammesso a quel tipo di trattamento e del quale
risulti la rescissione di ogni collegamento con la criminalità
organizzata.
6. – La regula iuris enunciata nella sentenza n. 306 del 1993 si
fonda, appunto, sulla irragionevolezza della revoca dei benefici
penitenziari cui il detenuto era stato ammesso, anche quando non sia
stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la
criminalità organizzata. Ed è da ritenere che la medesima ratio
decidendi debba trovare applicazione nel caso in cui un detenuto che
sia stato ammesso al permesso premio, in forza dell’art. 4-bis non
sia più legittimato al detto beneficio. L’esperienza dei permessi
premio è, infatti, parte integrante del programma di trattamento.
Essa, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare,
“costituisce incentivo alla collaborazione del detenuto con
l’istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in
assenza di particolare pericolosità sociale quale conseguenza di
regolare condotta”, tanto da venir considerato esso stesso strumento
“di rieducazione in quanto consente un iniziale reinserimento del
condannato nella società”, così da potersene trarre elementi utili
per l’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione (v.
sentenza n. 188 del 1990).
La funzione “pedagogico-propulsiva” assolta dal permesso premio ha
indotto questa Corte ad individuare – rimarcando il decisivo valore
della computabilità del periodo trascorso in permesso nella durata
della detenzione – una progressione nella premialità, cui fa da
contrappunto una regressione nella medesima (che, peraltro, non
coincide con la revoca del permesso) nei casi di mancato rientro in
istituto o di altri gravi comportamenti da cui risulta che il
soggetto non si è dimostrato meritevole del beneficio (art. 53-bis
della legge n. 354 del 1975, inserito dall’art. 17 della legge 10
ottobre 1986, n. 663).
E pure se, tenuto conto della discrezionalità nella concessione
del permesso, l’accesso al beneficio non costituisce un diritto del
detenuto (v., ancora, la sentenza n. 188 del 1990), l’averne il
condannato usufruito si traduce in una sospensione temporanea della
pena detentiva, funzionale alla verifica della risocializzazione in
ambito extramurario, dato che, trascorso il periodo di permesso,
l’interessato ritorna alla primitiva condizione di condannato alla
pena detentiva.
Se è importante ricordare che il permesso premio non è compreso
nel capo sesto della legge penitenziaria, relativo alle misure
alternative alla detenzione, è egualmente importante puntualizzare
come esso rappresenti comunque uno “strumento cruciale ai fini del
trattamento”, perché può rivelarsi “funzionale – in applicazione
del principio di progressività – all’affidamento in prova” (v.
sentenza n. 227 del 1995).
Ne consegue che privare il condannato per uno dei reati previsti
dal primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, quando non ne sia
stata accertata la sussistenza di collegamenti con la criminalità
organizzata e ne sia stata viceversa accertata l’assenza di
pericolosità sociale in conseguenza della regolare condotta in
istituto, comprovata dalla concessione di precedenti permessi premio,
è situazione del tutto omologa, proprio per il profilo di
progressività del trattamento che qualifica il beneficio, alla
revoca delle misure alternative alla detenzione già ritenuta non
conforme alla Costituzione dalla sentenza n. 306 del 1993.
Vero è che, a differenza delle misure alternative alla detenzione,
le quali “nell’estinguere lo status di detenuto, costituiscono altro
status diverso e specifico rispetto a quello di semplice condannato”
(così, ancora, la sentenza n. 188 del 1990), i permessi premio non
innovano assolutamente lo status di detenuto, ma è altresì
indubitabile che l’impossibilità di procedere alla prosecuzione di
quel trattamento premiale già instaurato, pur non sussistendo valide
ragioni per l’interruzione di esso, non può non incidere –
rivelandone l’irrazionalità anche in rapporto alla funzione
rieducativa della pena – su entrambi i parametri invocati.
7. – La natura discrezionale della concessione del permesso premio
rende necessaria, però, una verifica di più ampio contesto, al fine
di determinare quando la mancata concessione comporti un’effettiva
interruzione del trattamento sul quale fondare una vicenda estintiva
assimilabile alla revoca, ovvero quando essa si risolva nel semplice
mancato soddisfacimento di una pretesa sulla quale non sembra
corretto, per il carattere discrezionale del provvedimento, fondare
una situazione giuridicamente tutelata.
Va però considerato che è proprio l’esercizio del potere
discrezionale assoggettato al rispetto delle regole di ragionevolezza
a fornire anche la misura del valore del permesso premio nell’ambito
del programma di trattamento. Non a caso, infatti, nella più recente
giurisprudenza di questa Corte si è inclusa la detta misura tra
quelle “di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità
della pena” e “perciò stesso modificano il grado di privazione della
libertà personale imposto al soggetto” (v. sentenza n. 349 del 1993,
paragrafo 5.1). Il che, peraltro, non esclude la legittimità di
interventi legislativi che condizionino l’erogabilità della misura
premiale purché da essi non discenda un effetto sospensivo del
trattamento risocializzante di cui il condannato si è dimostrato
già meritevole.
Ad impedire la legittimità di simili interventi è, infatti,
proprio l’eadem ratio decidendi della sentenza n. 306 del 1993.
Ed a tal fine, non può non assumere determinante rilievo la
circostanza che il condannato abbia già usufruito di precedenti
permessi premio, così da far ritenere instaurato nei suoi confronti
quel trattamento programmato anche al perseguimento di misure
alternative la cui revoca è stata ritenuta, dalla sentenza n. 306
del 1993, non conforme alla Costituzione con riguardo ad imputati dei
delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis della
legge n. 354 del 1975, “anche quando non sia stata accertata la
sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata”.
È ovvio, pertanto, che rappresentando la concessione del permesso
premio esercizio di una facoltà del Magistrato di sorveglianza, la
possibilità di non far operare la preclusione derivante dall’art.
4-bis della legge n. 354 del 1975 resterà condizionata ad una
verifica da compiere caso per caso, non soltanto relativamente al
mancato accertamento della sussistenza di collegamenti attuali con la
criminalità organizzata, ma anche con riferimento alla fase del
trattamento, considerando il numero di permessi premio
precedentemente concessi che attestino univocamente la regolarità
della condotta sia intramuraria sia extramuraria e, quindi, la
meritevolezza quanto al proseguimento di quella progressività
rieducativa irrazionalmente preclusa dalla norma denunciata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1,
della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo sostituito ad opera
dell’art. 15, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui
prevede che la concessione di ulteriori permessi premio sia negata
nei confronti dei condannati per i delitti indicati nel primo periodo
del comma 1 dello stesso art. 4-bis, che non si trovino nelle
condizioni per l’applicazione dell’art. 58-ter della legge 26 luglio
1975, n. 354, anche quando essi ne abbiano già fruito in precedenza
e non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la
criminalità organizzata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 dicembre 1995.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 1985.
Il direttore della cancelleria: Di Paola