Sentenza N. 9 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
19/02/1965
Data deposito/pubblicazione
19/02/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
04/02/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO
MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE
FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott.
GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO, Giudici,
del Codice penale e dell’art. 112 del T.U. delle leggi di p. s.
approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 3 febbraio 1964 dal Pretore di Lendinara nel
procedimento penale a carico di Matteotti Giancarlo, iscritta al n. 42
del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, n. 91 dell’11 aprile 1964;
2) ordinanza emessa il 23 maggio 1964 dal Pretore di Firenze nel
procedimento penale a carico di De Marchi Luigi, iscritta al n. 111 del
Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, n. 169 dell’11 luglio 1964.
Visti l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e gli atti di costituzione in giudizio di Matteotti Giancarlo
e di De Marchi Luigi;
udita nell’udienza pubblica del 2 dicembre 1964 la relazione del
Giudice Giovanni Cassandro;
uditi gli avvocati Renato Sansone, Giorgio Moscon, Paolo Barile e
Leopoldo Piccardi, per Matteotti e De Marchi, ed il vice avvocato
generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei
Ministri.
1. – Nel corso di un procedimento penale a carico dell’on.
Giancarlo Matteotti, il Pretore di Lendinara ha sollevato d’ufficio la
questione sulla legittimità costituzionale dell’art. 553 del Codice
penale, che punisce “chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la
procreazione o fa propaganda a favore di esse” e dell’art. 112 del T.U.
delle leggi di p.s. nella parte in cui questo vieta di mettere in
circolazione scritti o disegni “che divulgano, anche in modo indiretto
o simulato o sotto pretesto terapeutico o scientifico, i mezzi rivolti
a impedire la procreazione o a procurare l’aborto o che illustrano
l’impiego dei mezzi stessi”, in relazione all’art. 21 della
Costituzione, giusta il quale “tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione”.
I motivi che sorreggono la proposta questione di costituzionalità
sono, a parere del Pretore, i seguenti:
I) non si nega che una libertà garantita dalla Costituzione possa
trovare dei limiti al suo esercizio, ma codesti limiti devono nascere
da diritti e beni “concorrentemente” tutelati dalla Costituzione o da
questa posti contestualmente alla concessione del diritto di libertà,
il quale nasce, così, subordinato al rispetto di determinate
condizioni. Ora, il bene giuridico tutelato dall’art. 553 del Codice
penale, rappresentato dall’incremento demografico del popolo italiano,
non è considerato nemmeno implicitamente o indirettamente dalla
Costituzione, né nella parte che raccoglie i “principi fondamentali”,
né nell’altra che considera i “rapporti etico-sociali”;
Il) il contrasto delle norme impugnate con l’art. 21 della
Costituzione non può essere superato col richiamo al buon costume, che
lo stesso articolo pone come limite alla libertà di manifestazione del
pensiero. Dei due significati che il concetto di buon costume può
assumere – quello ampio che lo identifica con la coscienza etica di un
popolo in un dato momento storico, e l’altro più ristretto o
“giuridico-penalistico”, come dice il Pretore, desumibile dalle norme
del Titolo IX, libro II, del Codice penale (Dei delitti contro la
moralità pubblica e il buon costume) e dalle altre che trovano luogo
in altre parti del Codice penale, ma che tutelano sostanzialmente lo
stesso bene -, il Pretore afferma di dover accogliere il secondo per
ricavarne la conseguenza che la norma dell’art. 553, che considera e
vieta una propaganda svolta con mezzi e intenti che non attentano di
per sé al buon costume, cioè alla morale e al pudore sessuale, non
può essere considerata conforme alla Costituzione;
III) nemmeno se si accogliesse il concetto più ampio di buon
costume verrebbe meno il contrasto delle norme impugnate con l’art. 21
della Costituzione, dato che è opinione del Pretore che la coscienza
etica della collettività è quella espressa dalla media dei cittadini
in un determinato momento storico, e sarebbe tale oggi da non
consentire di ritenere “rilevantemente contrario ai principi
etico-sociali il fatto della limitazione delle nascite”. Vero è che la
morale cattolica condanna l’impiego dei mezzi antifecondativi, ma essa
non può influire sulla determinazione di un concetto giuridico-statale
perché ne mancherebbero le condizioni: il rinvio ad essa da parte di
una norma statale, la conformità della coscienza collettiva alla
dottrina cattolica. Infatti non si potrebbe individuare codesto rinvio
nel richiamo dell’art. 7 della Costituzione ai Patti Lateranensi; non
si potrebbe negare che quel divieto non è più sentito della coscienza
collettiva in armonia coi tempi;
IV) sarebbe, infine, da escludere un contrasto della propaganda
anticoncezionale col mantenimento e la garanzia dell’ordine pubblico.
L’ordinanza, emessa il 3 febbraio 1964, è stata ritualmente
notificata e comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 91
dell’11 aprile 1964.
2. – Nel presente giudizio si è costituito l’on. Giancarlo
Matteotti, rappresentato e difeso dagli avvocati Renato Sansone, Paolo
Barile e Giorgio Moscon, con atto depositato il 1 aprile 1964,
chiedendo che la Corte dichiari la incostituzionalità dell’art. 553
del Codice penale e dell’art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. nella
“parte riguardante la propaganda anticoncezionale”.
3. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto
depositato il 30 aprile 1964, chiedendo che la questione sia dichiarata
infondata.
Secondo l’Avvocatura, la nozione di buon costume, quale è assunta
dall’art. 21 della Costituzione, coincide con l’altra, tradizionale, di
“boni mores” e ricomprende perciò tutto quanto è contrario alla
coscienza etica di un popolo. Alla stregua di questa interpretazione e
con riferimento all’ampiezza della previsione dell’art. 553 del Codice
penale che comprenderebbe anche ogni riferimento all’aborto, le norme
impugnate troverebbero giustificazione nel precetto dell’ultimo comma
dell’art. 21 della Costituzione, che vieta “le pubblicazioni a stampa,
gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon
costume”.
Non costituirebbe ostacolo a questa tesi il fatto che le norme
impugnate fossero, in passato, ispirate anche alla finalità dello
incremento demografico del popolo italiano, perché esse intendono
tutelare obiettivamente un interesse protetto dal precetto
costituzionale, come sarebbe confermato dal fatto che nel progetto
preliminare di riforma del Codice penale del 1949-50 la disposizione
dell’art. 553 è stata conservata sotto il Titolo: “Le contravvenzioni
contro la moralità pubblica e il buon costume”.
Infine, la libertà di manifestare il pensiero può trovare limiti
in altri diritti riconosciuti anche implicitamente dalla Costituzione.
Nel caso in esame, l’Avvocatura ritiene che possano essere richiamate
le norme degli artt. 30 e 31, relativi alla tutela della famiglia e del
matrimonio, e soprattutto quella dell’art. 32, primo e secondo comma,
della Costituzione, che tutela la salute e l’integrità fisica come
interesse collettivo – tutti beni che si pongono in logica correlazione
con la pubblica moralità e il buon costume.
4. – La stessa questione di legittimità costituzionale,
limitatamente all’art. 553 del Codice penale, è stata sollevata, su
richiesta della difesa, dal Pretore di Firenze nel corso di un
procedimento penale a carico del dott. Luigi De Marchi. A sostegno
della non manifesta infondatezza della questione, il Pretore di Firenze
ripete succintamente gli stessi motivi addotti dal Pretore di
Lendinara.
L’ordinanza, emessa il 23 maggio 1964, ritualmente notificata e
comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 169 dell’11
luglio 1964.
5. – In questo giudizio si è costituito, con atto depositato il 22
luglio 1964, il dott. Luigi De Marchi, rappresentato e difeso dagli
avvocati Leopoldo Piccardi, Paolo Barile e Giorgio Moscon, chiedendo
che la Corte dichiari la incostituzionalità della norma impugnata.
Il Presidente del Consiglio non è intervenuto.
6. – Nei due giudizi le parti private hanno depositato il 19
novembre 1964 una identica memoria.
La difesa sostiene che l’art. 553 del Codice penale, l’art. 112
del T.U. delle leggi di p. s., nonché l’art. 114 di codesto medesimo
T.U., la illegittimità del quale deriverà come conseguenza
dell’eventuale dichiarazione di illegittimità delle norme impugnate –
quest’ultimo articolo vieta l’inserzione sui giornali e sui periodici
di avvisi e corrispondenze che si riferiscono ai mezzi diretti a
impedire la procreazione e a procurare l’aborto – , verterebbero senza
dubbio nella materia attinente alla libera manifestazione del pensiero,
stante che il reato consisterebbe nella pura e semplice manifestazione
del pensiero intorno alla limitazione delle nascite, prescindendo da
ogni pratica spiegazione di come codesta limitazione si possa
conseguire. La difesa prosegue affermando che le situazioni soggettive
costituzionali di vantaggio incontrano soltanto quei limiti, che la
stessa norma che formula la situazione pone, o quelli contenuti in
altre norme costituzionali che, indirettamente, la condizionino. Ora,
la libertà di manifestare il pensiero non incontra il limite
dell’ordine pubblico che non si rinviene nella Costituzione né come
limite di efficacia generale, né nell’art. 21 come limite specifico.
Non esattamente la Corte avrebbe ritenuto nel caso dell’art. 656 del
Codice penale l’ordine pubblico sufficiente a rendere la norma conforme
alla Costituzione; del che la difesa delle parti private assegna
ampiamente le ragioni, soggiungendo, tuttavia, che le norme impugnate
non presuppongono l’ordine pubblico come bene tutelato né
espressamente, né implicitamente, e che la questione viene esaminata
per ragioni di completezza sistematica.
Né la legittimità si può ricavare dal limite del buon costume,
che l’art. 21 richiama nel suo ultimo comma.
La difesa ritiene che il concetto di buon costume abbia una sua
accezione costituzionale più ampia di quella desumibile dal diritto
penale – vi si ricomprenderebbero atti penalmente irrilevanti, ma
ripugnanti -, e tuttavia diversa da quella di pubblica moralità e
comunque non così estesa da coincidere con la nozione privatistica di
essa. Senonché, sostiene che le finalità della difesa del buon
costume non vengono punto in considerazione rispetto alle norme
impugnate, le quali prescindono totalmente dal modo con cui
l’incitamento alle pratiche anticoncezionali venga presentato e da ogni
comportamento impudico, ed hanno come fine la tutela della stirpe e
della razza e l’incremento demografico della popolazione italiana.
Nemmeno potrebbe dirsi che queste norme si pongano la tutela del
buon costume come fine secondario, per il motivo assorbente, a giudizio
della difesa, che le eventuali offese al buon costume in occasione
della propaganda anticoncezionale avrebbero la loro sanzione in altre
norme penali (artt. 527, 528, 725 e 726 del Codice penale). Infine,
anche se si volesse identificare il buon costume con la morale
corrente, bisognerebbe guardarsi dal far coincidere questa con quella
cattolica, risultando essa anche da altre regole morali di condotta –
laiche, liberali, marxiste o individuali del singolo cittadino -, a
prescindere dalla circostanza che, proprio in tema di controllo delle
nascite, la morale cattolica mostrerebbe i segni di un netto
rivolgimento.
In ultimo luogo, la legittimità costituzionale delle norme in
esame non potrebbe dedursi – come sarebbe evidente a prima vista –
dagli artt. 29 e 30 della Costituzione o dall’art. 31, primo comma,
giusta il quale la Repubblica agevola con misure economiche od altre
provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti
relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (dove
quest’ultimo inciso non autorizza una politica demografica, ma
suggerisce un’azione di assistenza sociale), ma nemmeno dall’art. 32
che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività. Vero è che il legislatore può
disciplinare la materia in esame con norme sanitarie, ma ammettendo il
controllo dei singoli medicinali, non già col divieto assoluto di
manifestare il proprio pensiero intorno a certi medicinali. Né sarebbe
vero che la illegittimità dell’art. 553 del Codice penale renderebbe
lecita la propaganda a favore dell’aborto, dato che le pratiche
abortive restano vietate dall’art. 545 e seguenti del Codice penale e
qualunque propaganda a favore di esse sarebbe colpita, quale
istigazione a delinquere o quale apologia di reato, dall’art. 414 del
Codice penale.
7. – L’Avvocatura ha depositato il 19 novembre 1964, nel giudizio
introdotto con l’ordinanza del Pretore di Lendinara nel quale è
costituita, una memoria, nella quale, con ampi riferimenti dottrinali e
giurisprudenziali, svolge le tesi già esposte nell’atto di intervento
a sostegno della non fondatezza della questione.
In particolare, l’Avvocatura insiste sulla definizione della
nozione di buon costume. Vi sarebbe nell’ordinamento giuridico un
concetto di buon costume più ampio di quello penalistico, che, anzi,
ricomprenderebbe questo come maggiore il minore, e secondo il quale la
condotta conforme al buon costume è quella dell’onesto vivere, quale
è inteso dalla coscienza media di un popolo in un determinato periodo
storico. Questo concetto del buon costume sarebbe stato assunto
nell’ultimo comma dell’art. 21 della Costituzione. Né può sostenersi
che una nozione così ampia di buon costume priverebbe la libertà di
manifestare il pensiero di una seria garanzia costituzionale, dato che
soccorrerebbe la riserva di legge, che, interprete dei mores, statuirà
sull’estensione del divieto. La riduzione del concetto di buon costume
a quello penalistico non può dedursi nemmeno dalla previsione che
l’ultimo comma dell’art. 21 della Costituzione fa di un’attività di
prevenzione, stante che questa previsione può essere intesa come
rivolta non già a coprire tutta l’area del precetto proibitivo
costituzionale, ma soltanto quella parte di essa penalmente rilevante.
Ma, anche se si ammettesse che la nozione costituzionale di buon
costume vada intesa così com’è intesa nel diritto penale, va tenuto
presente che la nozione penalistica non si limita alla libertà
sessuale, al pudore e all’onore sessuale; oggetto della tutela penale
è anche la pubblica decenza (artt. 725 e 726 del Codice penale), che
si ritiene comunemente rientri nella nozione di buon costume.
Così si deve concludere che gli interessi tutelati nell’art. 553
del Codice penale in concomitanza con quelli principali (che ne
spiegherebbero soltanto la nascita), possono essere ricondotti alla
nozione di buon costume.
Ampio svolgimento trova poi nella memoria il riferimento della
nozione di buon costume ai valori etico-religiosi della nostra
civiltà, che costituiscono il fondamento della società italiana e ai
quali il legislatore direttamente si è voluto riferire richiamandoci
al buon costume.
Infine, l’Avvocatura sottolinea che l’art. 553 del Codice penale e
l’art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. non sarebbero rivolti contro il
controllo delle nascite, bensì soltanto contro l’incitamento, la
propaganda e la divulgazione delle pratiche contro la procreazione, sia
nel senso di pratiche abortive, sia nell’altro di attentato alla
perpetuazione della specie, sia nel terzo di pratiche indirizzate a
garantire rapporti sessuali illeciti. Sono queste forme, sempre che si
manifestino pubblicamente, che si vogliono vietate, non già ogni e
qualsiasi discussione ispirata magari a motivi scientifici o culturali.
Le pratiche contro la fecondazione non costituiscono di per sé reato,
come si ricaverebbe dalla circostanza che l’art. 553 del Codice penale
non deroga all’art. 115 del medesimo Codice. Considerazioni queste che
valgono anche per l’art. 112 del T.U. delle leggi di p.s., che reprime
non già, come l’art. 553, la propaganda in genere, ma la stampa e la
divulgazione di mezzi propagandistici, dovendosi ravvisare nelle due
disposizioni un concorso materiale.
8. – Nell’udienza del 2 dicembre 1964, le due cause sono state
discusse congiuntamente e le difese delle parti hanno ribadito le
rispettive tesi e insistito nelle conclusioni già prese.
1. – Tanto l’ordinanza del Pretore di Lendinara, quanto quella del
Pretore di Firenze sollevano la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 553 del Codice penale; ma la prima propone
altresì quella relativa all’art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. 18
giugno 1931, n. 773. Tuttavia i due giudizi possono essere decisi con
un’unica sentenza, dato lo stretto legame che unisce le due questioni
fino a farne una sola e medesima.
2. – Occorre preliminarmente sgombrare il campo da una tesi, che si
può definire pregiudiziale, della difesa delle parti private, giusta
la quale l’illegittimità delle norme impugnate deriverebbe
immediatamente dalla circostanza che le norme stesse sarebbero state
emanate a presidio della politica demografica del cessato regime, che
si esprimeva sinteticamente nel motto “il numero è potenza”; esse
sarebbero state poste, cioè, a tutela di un bene che non è tra quelli
riconosciuti dalla Costituzione e che sono i soli, poi, che possono
giustificare limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero.
La tesi non può essere condivisa. E confortato da tutta la
giurisprudenza della Corte il principio che la legittimità o
illegittimità di una norma – in un sistema giuridico che si estende
nel tempo al di qua e al di là della promulgazione della Carta
costituzionale e che la Costituzione della Repubblica ha profondamente
modificato e rigidamente condizionato, ma non posto nel nulla -,
dipende non già dal fine o dall’occasione che la fece nascere, ma
dalla sua obiettiva conformità o difformità dalla legge fondamentale
dello Stato. Da che discende che ciascuna norma di legge ordinaria deve
essere esaminata nella sua propria struttura obiettiva e in questi
termini confrontata col precetto costituzionale che da essa si assume
violato. E del resto, quando nel T.U. delle leggi di p.s. 6 novembre
1926, n. 1848, comparve il divieto di diffondere scritti o disegni che
divulgassero i mezzi di impedire la fecondazione o di interrompere la
gravidanza o ne illustrassero l’impiego, il bene che si volle protetto
fu quello della morale e del buon costume, quegli scritti e disegni
essendo stati qualificati appunto come “offensivi della morale e del
buon costume” (artt. 112 e 113). E la norma impugnata del Codice penale
(art. 553) prese posto nel titolo X del libro II, che s’intitola ai
delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe, accanto ad altre
ipotesi delittuose (artt. 545-551: aborto; art. 552: procurata
impotenza alla procreazione; art. 554: contagio di sifilide e di
blenorragia), il rapporto delle quali con la politica di potenza
demografica perseguita dal passato regime è, quanto meno, soltanto
indiretto.
3. – La libertà di manifestazione del pensiero è tra le libertà
fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di
quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato,
condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del
Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che
limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se
non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento
in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi
esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano,
invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole
dell’interpretazione giuridica.
E poiché non può dubitarsi che la previsione dell’art. 553 del
Codice penale si traduca in una limitazione sostanziale della libera
manifestazione del pensiero, occorre vedere se tale limitazione possa
trovare giustificazione in un precetto o principio costituzionale.
4. – La Corte ritiene che il precetto costituzionale, che può
essere richiamato in primo luogo per proteggere la norma impugnata da
una pronunzia di illegittimità, sia contenuto nel medesimo art. 21
della Costituzione, il quale, riconoscendo a tutti nel suo primo comma,
il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto
e con ogni altro mezzo di diffusione, aggiunge, nell’ultimo, che “sono
vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre
manifestazioni contrarie al buon costume”, e riserva alla legge di
stabilire “i provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le
violazioni”.
Ora, non è dubbio che l’art. 553 del Codice penale, interpretato
nell’ambito del sistema giuridico vigente, abbia ad oggetto la tutela
del buon costume. Ciò che la norma contenuta in quell’articolo vieta
è, infatti, la pubblica propaganda e il pubblico incitamento a
“pratiche contro la procreazione”: il che significa che la figura del
reato previsto dalla norma impugnata, si verifica quando l’azione del
soggetto, che consiste nell’incitare o fare propaganda, illustrandone
l’uso, di “pratiche”, vale a dire di operazioni meccaniche ed esterne
contro la procreazione, si compia pubblicamente – cioè in luogo
pubblico o aperto al pubblico -, e viola per ciò stesso gravemente il
naturale riserbo o pudore del quale vanno circondate le cose del sesso
e non rispetta l’intimità dei rapporti sessuali, la moralità
giovanile e la dignità della persona umana, per la parte che si
collega a questi rapporti.
5. – Le parti hanno a lungo disputato sul contenuto e l’estensione
del concetto di buon costume, e segnatamente sul punto se il “buon
costume” che compare nell’art. 21 della Costituzione debba essere
ricondotto a quello che si può costruire sulla base delle norme del
diritto penale, limitatamente a quelle tra esse che tutelano il pudore,
l’onore e la libertà sessuale, ovvero, più estensivamente, sulla base
anche di quelle che tutelano la pubblica decenza e il comune sentimento
morale, o se, invece, si debba costruire di esso una nozione
costituzionale più ampia o comunque diversa da quella penalistica.
Tuttavia ai fini della decisione non è necessario che la Corte
affronti e risolva i contrasti e le divergenze d’opinione, dottrinali e
giurisprudenziali, che si sono manifestati a questo proposito, né che
dia una definizione puntuale ed esauriente del buon costume. In questa
sede è sufficiente affermare che il buon costume non può essere fatto
coincidere, come è stato adombrato dall’Avvocatura dello Stato, con la
morale o con la coscienza etica, concetti che non tollerano
determinazioni quantitative del genere di quelle espresse dal termine
“morale media” di un popolo, “etica comune” di un gruppo e altre
analoghe. La legge morale vive nella coscienza individuale e così
intesa non può formare oggetto di un regolamento legislativo.
Quando la legge parla di morale, vuole riferirsi alla moralità
pubblica, a regole, cioè, di convivenza e di comportamento che devono
essere osservate in una società civile. Non diversamente il buon
costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato
comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei
quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia
fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità
personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei
giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume
e, come è stato anche detto, può comportare la perversione dei
costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed
opposti.
Il che è sufficiente per concludere che l’azione prevista dalla
norma impugnata violi il buon costume e richiami giustificatamente la
disposta repressione penale.
6. – Non può nemmeno essere accolta la tesi che l’art. 553 si
riduca a vietare la generica propaganda anticoncezionale, laddove le
offese al buon costume, che questa propaganda può eventualmente
comportare, sarebbero punite da altre norme. La norma dell’art. 553 ha,
nella sua configurazione obiettiva, una sua autonomia e non può essere
ritenuta una duplicazione degli artt. 527 (atti osceni), 528
(pubblicazioni e spettacoli osceni), 725 (commercio di scritti, disegni
e altri oggetti contrari alla pubblica decenza) e 726 (atti contrari
alla pubblica decenza, turpiloquio) del Codice penale, come si può
ricavare facilmente dal confronto di queste disposizioni tra loro.
Né l’incitamento e la propaganda di pratiche dirette a provocare e
favorire l’aborto, che pur rientrano nella previsione dell’art. 553,
possono ritenersi coperti dalla norma dell’art. 414 del Codice penale,
che punisce l’istigazione a delinquere, perché l’incitamento e più
ancora la propaganda non sono riconducibili all’istigazione,
rappresentando, quelle, ipotesi di reato meno gravi e comunque
diversamente considerate e punite dal legislatore penale.
7. – Discende da quanto si è detto che l’art. 553 del Codice
penale non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere
dell’utilità e necessità in un determinato momento storico e in un
particolare contesto economico-sociale, di limitare le nascite e di
porre regole al ritmo della vita; e che propugni una politica di
controllo dell’aumento della popolazione, mediante una legislazione che
consenta, in determinate forme e modi, e sempre che siano tutelati
fondamentali beni sociali, al di fuori di una indiscriminata pubblica
propaganda, la diffusione della conoscenza di pratiche
anticoncezionali.
Tanto meno, poi, vuol limitare la libertà di manifestazione del
pensiero scientifico la quale, lungi dal poter essere parificata
all’incitamento e alla propaganda contemplati dall’art. 553 del Codice
penale, gode di una tutela costituzionale rafforzata (art. 33, primo
comma) rispetto a quella di cui gode la manifestazione del pensiero in
generale, alla quale fa riferimento l’art. 21 della Costituzione. La
preoccupazione espressa dalla difesa delle parti private che la norma
impugnata vieti ogni e qualsiasi discussione pubblica su questa materia
della limitazione delle nascite e voglia chiudere la bocca finanche a
moralisti, economisti e scienziati in generale, è perciò infondata e
si ispira al fine di comprovare, mediante un artificioso ragionamento e
un’arbitraria estensione della portata della disposizione legislativa
della legittimità della quale si controverte, una violazione della
libertà di manifestare il proprio pensiero che, in realtà, non
sussiste.
8. – Gli stessi motivi valgono ad escludere la illegittimità della
norma contenuta nell’art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. 18 giugno
1931, n. 773, nella parte impugnata, che è quella che vieta di mettere
in circolazione scritti o disegni “che divulgano, anche in modo
indiretto o simulato o sotto pretesto terapeutico e scientifico, i
mezzi rivolti a impedire la procreazione … o che illustrano
l’impiego dei mezzi stessi”, dovendo essa interpretarsi nel senso che
il divieto è rivolto a scritti e disegni che per il modo come sono
redatti offendano il buon costume. Stabilire quale sia il rapporto che
sul piano penale intercorre tra le due norme impugnate – si ponga,
cioè, oppure non, un concorso materiale di reati – , non è competenza
della Corte costituzionale.
9. – Una volta dimostrato quale sia il rapporto che passa tra le
norme impugnate e l’art. 21 della Costituzione non è necessario che la
Corte si proponga il quesito se esse possano trovare giustificazione
nella difesa dell’ordine pubblico, o nella tutela del matrimonio e
della famiglia o della salute pubblica (artt. 30, 31 e 32 della
Costituzione), precetti o principi costituzionali ai quali le difese
delle parti hanno fatto variamente riferimento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione,
le questioni sollevate con ordinanza del Pretore di Lendinara del 3
febbraio 1964 e del Pretore di Firenze del 23 maggio 1964, sulla
legittimità costituzionale delle norme contenute nell’art. 553 del
Codice penale e nell’art. 112 del T.U. delle leggi di pubblica
sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, in riferimento all’art. 21, primo
comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 febbraio 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.