Sentenza N. 97 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
16/06/1970
Data deposito/pubblicazione
16/06/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
04/06/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
– Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE
MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI. Giudici,
primo e secondo comma, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, contenente
la legge sul gratuito patrocinio, degli artt. 128 e 130 del codice di
procedura penale e degli artt. 4 e 5 delle relative disposizioni di
attuazione, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 17 aprile 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Zangrilli Giuseppe, iscritta al n. 176
del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 248 del 28 settembre 1968;
2) ordinanza emessa il 12 agosto 1968 dal giudice istruttore del
tribunale di Vercelli nel procedimento penale a carico di Burgio
Vittorio, iscritta al n. 224 del registro ordinanze 1968 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 305 del 30 novembre 1968;
3) ordinanza emessa il 10 dicembre 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Carrus Anna, iscritta al n. 55 del
registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 78 del 26 marzo 1969;
4) ordinanza emessa il 12 aprile 1969 dal giudice istruttore del
tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Fiaschini
Angelo e Sanna Giuseppe, iscritta al n. 354 del registro ordinanze 1969
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 22
ottobre 1969.
Visti gli atti di costituzione dell’avv. Maurizio Catti e
d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 maggio 1970 il Giudice relatore
Angelo De Marco;
uditi l’avv. Maurizio Catti ed il sostituto avvocato generale dello
Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Con ordinanza 17 aprile 1968, emessa nel procedimento penale a
carico di Giuseppe Zangrilli, il pretore di Roma, accogliendo analoga
istanza del difensore di ufficio dell’imputato, avv. Maurizio Catti,
dichiarava non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale e
degli artt. 4 e 5 delle relative norme di attuazione, in riferimento
agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione.
La non manifesta infondatezza veniva motivata considerando che il
combinato disposto dei richiamati articoli della Costituzione “prevede
il lavoro come diritto, come dignità e come effettività, concetto
quest’ultimo cui deve appunto attribuirsi il conseguente diritto ad una
retribuzione certa e proporzionata alla qualità e quantità del
lavoro, per cui non può negarsi, in fatto, una discriminazione operata
appunto nei confronti del professionista che presta la propria opera
coartato nella sua personale libertà e per interessi di terzi ai quali
lo Stato, ove voglia rispettare la norma di ordine pubblico, dovrebbe
assicurare e garantire la funzione, addossandosene direttamente il
relativo onere (come, ad esempio, nel caso del perito medico –
legale)”.
Nessuna motivazione circa la rilevanza nel giudizio a quo della
sollevata questione.
Dopo gli adempimenti di legge l’ordinanza viene ora alla cognizione
di questa Corte.
Nel giudizio, così instaurato, si è costituito l’avv. Maurizio
Catti (assistito, ma non rappresentato, dall’avv. Ferruccio Cappi,
privo all’uopo di apposito mandato), però a nome e nell’interesse
proprio e non dell’imputato. La Corte, con ordinanza dibattimentale, ha
dichiarato inammissibile tale costituzione.
2. – Nel corso del procedimento penale a carico di Vittorio Burgio,
il giudice istruttore presso il tribunale di Vercelli, prima di
provvedere sulla richiesta del p.m. di ordinare il rinvio a giudizio
dell’imputato, con ordinanza 12 agosto 1968, sollevava d’ufficio la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, primo e secondo
comma, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, dell’art. 128, primo e
secondo comma, del codice di procedura penale e dell’art. 4 del R.D. 28
maggio 1931, n. 602, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo
comma, e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione.
Dopo una dettagliata premessa di fatto nella quale si pone in
evidenza il fatto che, nel caso concreto, il difensore d’ufficio,
nominato per il patrocinio dell’imputato non abbiente, praticamente non
aveva assolto il suo mandato, tanto da far ritenere come soltanto
formalmente e non sostanzialmente osservate le norme che prescrivono
l’assistenza dell’imputato per taluni atti istruttori e che, quindi,
tutti gli atti di tal genere compiuti nell’istruttoria de qua avrebbero
dovuto essere dichiarati nulli ai sensi dell’art. 185, n. 3 cod. proc.
pen., il giudice a quo – ed evidentemente in questa considerazione deve
ritenersi contenuto il giudizio di rilevanza – rileva che una tale
dichiarazione sarebbe possibile soltanto sulla base di un previo
riconoscimento della illegittimità costituzionale di talune norme sul
gratuito patrocinio e sulla difesa d’ufficio.
Identificate, poi, tali norme nell’art. 18, primo e secondo comma,
del R.D. n. 3282 del 1923, nell’art. 128 del codice di procedura penale
e nell’art. 4 delle disposizioni di attuazione di detto codice, il
giudice a quo ne prospettava la illegittimità costituzionale,
sostanzialmente sotto i seguenti profili:
a) Dal combinato disposto delle norme sopra richiamate risulterebbe
che l’imputato povero il quale, per cause a lui non imputabili, non
abbia presentato l’istanza per l’ammissione al gratuito patrocinio è
tenuto a pagare l’onorario al proprio difensore di ufficio anche se non
abbia i mezzi per farlo.
L’avvocato di ufficio di imputato povero, sapendo di non poter
essere pagato, non svolge alcuna valida difesa.
Ne discende la violazione dell’art. 24, commi secondo e terzo,
della Costituzione, in quanto l’imputato non abbiente non è in grado
di esercitare direttamente il diritto di difesa e gli appositi istituti
(gratuito patrocinio e difesa d’ufficio) non sono idonei ad assicurare
i mezzi per una effettiva difesa.
b) Comunque è sempre violato il principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 della Costituzione, in quanto tra cittadini abbienti e
cittadini non abbienti esiste una grave disparità per quanto attiene
alla possibilità di un effettivo esercizio del diritto di difesa.
c) Infine, pur negando la rilevanza della questione ai fini del
giudizio a quo, secondo il giudice istruttore, è il principio
fondamentale dell’istituto del gratuito patrocinio – difesa gratuita –
che sarebbe inficiato di incostituzionalità, cosicché questa Corte,
facendo ricorso all’art. 27 della legge n. 87 del 1953 e riesaminando
la soluzione già adottata con la sentenza n. 114 del 1964, ben
potrebbe dichiararlo in questa occasione.
Dopo gli adempimenti di legge, la questione viene ora alla
cognizione di questa Corte.
Nel giudizio, così promosso, è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, che con la memoria di costituzione eccepisce, in sostanza
quanto segue:
a) La disciplina della concessione del gratuito patrocinio in sede
penale è contenuta negli artt. 15, ultimo comma, e 29, terzo comma, e
non nell’art. 18, primo e secondo comma, del R.D. n. 3282 del 1923.
Cadono, pertanto, tutte le argomentazioni dirette a dimostrarne la
illegittimità tratta dal citato art. 18, essendo ben diversa la
disciplina contenuta, per la materia penale, nei richiamati artt. 15 e
29.
b) Dal combinato disposto degli artt. 128 cod. proc. pen., 4 delle
relative norme di attuazione e degli artt. 15 e 29, non già 18, del
R.D. n. 3282 del 1923, risulta in modo chiaro che al non abbiente è
assicurata la difesa gratuita, cosicché cade il presupposto, dedotto
dall’erroneo richiamo all’art. 18, della denunziata disparità di
trattamento tra cittadini abbienti e non abbienti e della prospettata
violazione dell’art. 3 della Costituzione.
c) Che, infine, i difensori d’ufficio non retribuiti esercitino la
loro funzione senza il dovuto impegno, cosicché la loro assistenza si
riduce ad una mera lustra, costituisce, bensì, un grave inconveniente,
ma un inconveniente che non ha rilevanza giuridica e tanto meno
costituzionale e riguarda soltanto il ben diverso campo dell’etica
professionale.
Non sussistono, perciò, ragioni valide perché la Corte ritorni
sulla decisione adottata con la sentenza n. 114 del 1964.
3. – Con ordinanza 10 dicembre 1968, emessa nel corso del
procedimento penale a carico di tale Anna Carrus, il pretore di Roma,
accogliendo in parte analoga eccezione sollevata dal difensore
d’ufficio della Carrus, ha dichiarato rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128
del codice di procedura penale e 4 e 5 delle relative norme di
attuazione, in riferimento agli artt. 23 e 36 della Costituzione.
La rilevanza viene motivata con la connessione alla retta
costituzione del rapporto processuale in atto (violazione dell’art. 185
c.p.p.).
La non manifesta infondatezza viene, in sostanza, motivata con le
seguenti considerazioni:
La Corte costituzionale, con sentenza 11 dicembre 1964, n. 114, nel
dichiarare infondata l’analoga questione sollevata in relazione al
gratuito patrocinio, riconduceva questo istituto alle prestazioni
obbligatorie previste dall’art. 23 della Costituzione, avvertendo,
peraltro, che, in caso di prestazioni imposte a liberi professionisti,
la presenza di vari presupposti valeva a legittimarle.
Tra questi presupposti si indicavano in particolare:
a) ragioni di interesse generale;
b) condizioni di imposizione tali che la prestazione del servizio
non trasformasse la libera professione in modo da annullare le
soddisfazioni delle esigenze economiche e morali del soggetto.
Ragioni d’interesse generale possono giustificare l’assicurazione
della tutela giurisdizionale dei non abbienti, ma non anche quella
degli abbienti che o per irreperibilità non siano in grado di
nominarsi un difensore o non vogliano farlo, donde l’illegittimità,
proprio in relazione all’art. 23 della Costituzione, di imporre
all’avvocato di assumersi il rischio patrimoniale di una prestazione
che giova soltanto al prevenuto e che, quindi, da questi dovrebbe
essere retribuita ai sensi dell’art. 36 della Costituzione.
D’altra parte, in concreto, l’esercizio della difesa di ufficio si
è trasformato in una finzione che mortifica lo stesso avvocato che
deve assumerlo e che non può svolgerlo con la dovuta serietà, senza
ridurre e, quindi, annullare le soddisfazioni economiche che l’incarico
di fiducia gli procura.
Il giudizio, così promosso, dopo gli adempimenti di legge, viene
ora alla cognizione della Corte. Non vi sono state costituzioni o
interventi di parti.
4. – Con ordinanza 12 aprile 1969, emessa nel procedimento penale a
carico di tali Angelo Fiaschini e Giuseppe Sanna, il giudice istruttore
del tribunale di Milano ha sollevato di ufficio questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 128 del codice di procedura
penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Secondo il giudice a quo l’art. 128 cod. proc. pen. porrebbe in
essere “una frode” e “una ipocrisia costituzionale”, in quanto mentre
in apparenza sembrerebbe assicurare anche ai non abbienti un valido ed
effettivo servizio del diritto di difesa, nella sostanza, dato che i
difensori d’ufficio non retribuiti si limitano ad una assistenza
meramente formale e superficiale, senza che vi sia alcun mezzo valido
per indurli ad un diverso comportamento, si risolverebbe in una mera
lustra, con conseguente violazione degli artt. 3 e 24 della
Costituzione.
Il giudizio di rilevanza è, poi, motivato nei seguenti testuali
termini: “Basti dire che ove essa (l’eccezione di incostituzionalità)
venisse accolta, bisognerebbe assicurare una difesa degna di questo
nome agli imputati Sanna e Fiaschini, prima di continuare a procedere
contro di loro”.
Dopo gli adempimenti di legge, il giudizio, così promosso, viene
ora alla cognizione della Corte.
Non vi sono stati interventi o costituzione di parti.
1. – I giudizi come sopra promossi vanno riuniti per essere decisi
con unica sentenza, dato che hanno per oggetto la stessa questione di
legittimità costituzionale degli istituti della difesa d’ufficio e del
gratuito patrocinio, anche se prospettata sotto profili in parte
diversi.
2. – È opportuno premettere che la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 128, comma secondo, e 131 del codice di
procedura penale (in connessione col gratuito patrocinio), in
riferimento agli artt. 24, comma terzo, e 35, comma primo, della
Costituzione, è già stata esaminata e dichiarata non fondata da
questa Corte con sentenza n. 114 del 1964.
È necessario poi richiamare i principi di massima affermati con
tale sentenza.
Da tutte le ordinanze di rinvio in esame, infatti, risulta
chiaramente che i giudici, che le hanno estese, di quella sentenza
avevano piena conoscenza ed ora prospettano la questione sotto profili
che solo apparentemente sono diversi.
In primo luogo la Corte, per negare il contrasto delle norme
impugnate con l’art. 24 della Costituzione, ha affermato che l’istituto
del gratuito patrocinio, anche nell’attuale disciplina, ed il complesso
delle norme vigenti, comunque dirette ad assicurare la difesa dei non
abbienti, debbono considerarsi compresi nell’espressione “appositi
istituti” adoperata dal Costituente nell’articolo suddetto.
Ha, poi, negato il contrasto con l’art. 35 della Costituzione,
affermando che la tutela del lavoro in tutte le sue forme, enunciata in
detto articolo, non esclude che, in forza dell’art. 23 della
Costituzione stessa, possano, con legge, essere imposte ai liberi
professionisti prestazioni gratuite, purché non siano tali da
trasformare lo status del libero professionista nello status di
soggetto prevalentemente tenuto alla prestazione di un servizio
obbligatorio non remunerato o comunque da impedire che l’esercizio
della libera professione possa essere sufficiente ad assicurare la
soddisfazione delle esigenze economiche e morali del professionista.
La Corte, infine, ha rilevato che ben diversa questione è quella
della completa adeguatezza dell’attuale disciplina al fine perseguito
dalla Costituzione, ma, al riguardo, ha affermato il principio che la
insufficienza o scarsa efficienza di una norma di legge, rispetto agli
scopi voluti dalla Costituzione, non può condurre a riconoscerla
senz’altro contraria alla Costituzione, col risultato di far venir meno
il poco già attuato.
Principio quest’ultimo riaffermato nella sentenza n. 1 del 1969 nei
seguenti termini: “Una eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale che si fondasse sulla sola parziarietà della
disciplina, richiederebbe intanto di condurre ad un regresso della
situazione normativa, aprendo un vuoto, che non sarebbe colmabile in
sede di interpretazione”.
Questi richiami bastano a respingere molte argomentazioni delle
ordinanze di rinvio e tutte quelle avanzate dal pretore di Roma con
l’ordinanza del 17 aprile 1968 e dal pretore di Milano con l’ordinanza
19 aprile 1969.
3. – Il giudice istruttore presso il tribunale di Vercelli, con
ordinanza 18 agosto 1968, affermato che la difesa d’ufficio si risolve
in una mera formalità priva di contenuto concreto, con la quale non
può ritenersi assicurata neppure una parvenza di vera e propria
difesa, invoca l’art. 18 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282 (che
approva la legge sul gratuito patrocinio), in forza del quale per
ottenere l’ammissione al gratuito patrocinio (da parte delle apposite
commissioni) occorre far domanda in carta bollata, con la quale bisogna
dimostrare anche il cosiddetto fumus boni juris.
Di qui, secondo il giudice a quo, la necessità anche per il non
abbiente, prima ancora di essere ammesso a quel beneficio, di
procurarsi il danaro necessario per la carta bollata e per retribuire
un legale che estenda la domanda nei dovuti termini, con la conseguente
violazione del principio di eguaglianza non solo tra abbienti e non
abbienti, ma anche fra chi riesca e chi invece non riesca a procurarsi
neppure quel poco danaro, il quale perciò non può esercitare il
diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione; tanto più
che, senza ammissione al gratuito patrocinio, anche il difensore
d’ufficio deve essere retribuito (art. 4 disp. att. c.p.p.).
Giunge, così, a denunziare, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, la illegittimità dell’art. 18, primo e secondo comma,
del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282, ed, in conseguenza, degli artt.
128, primo e secondo comma, del codice di procedura penale e 4 del r.d.
28 maggio 1931, n. 602.
Per quanto attiene alla efficienza della difesa d’ufficio basta
ricordare che anche questa Corte con la più volte richiamata sentenza
n. 114 del 1964 non ha mancato di auspicare una opportuna riforma
legislativa, aggiungendo, come si è posto sopra in rilievo, che questo
auspicio non significa che la normativa esistente, per quanto
inadeguata, si debba, per ciò solo, dichiarare costituzionalmente
illegittima.
Per quanto attiene, poi, al merito della questione, come è stata
prospettata a questa Corte, si rileva:
Come esattamente eccepisce l’Avvocatura generale dello Stato, a
differenza di quanto afferma il giudice a quo, a norma dell’art. 15,
ultimo comma, del r.d. n. 3282 del 1923, in materia penale per essere
ammessi al gratuito patrocinio basta provare lo stato di povertà (a
norma del terzo comma dello stesso articolo i relativi certificati
debbono essere rilasciati in carta libera) e l’ammissione è fatta dal
presidente della magistratura innanzi alla quale deve trattarsi la
causa o dal presidente della Corte d’assise.
Cadono, così, tutte le argomentazioni che, partendo dal falso
presupposto dell’applicabilità alla specie dell’art. 18 dello stesso
r.d., il giudice a quo trae dall’obbligo della presentazione di domanda
in carta bollata e della conseguente necessità di assistenza di un
legale per la compilazione della domanda stessa.
Risultano, pertanto, insussistenti le violazioni dei principi
sanciti dagli artt. 3 e 24, comma secondo e terzo, della Costituzione,
che, sulla base di quelle argomentazioni, il giudice a quo ha ritenuto
di dover denunziare a questa Corte.
4. – Il pretore di Roma, con l’ordinanza 10 dicembre 1968, prende
le mosse proprio dalla sentenza di questa Corte n. 114 del 1964.
Infatti, egli premette che questa Corte, con tale sentenza,
“dichiarando infondata l’analoga questione relativa al gratuito
patrocinio, riconduceva questo alle prestazioni obbligatorie previste
dall’art. 23 della Costituzione, avvertendo, peraltro, che in caso di
prestazioni imposte ai liberi professionisti la presenza di vari
presupposti valeva a legittimarla” e fra questi indicava in
particolare: “a) ragioni di interesse generale, b) condizioni di
imposizioni tali, che la prestazione del servizio non trasformasse la
libera professione in modo da annullare le soddisfazioni delle esigenze
economiche e morali del soggetto”. Dopodiché il pretore rileva che:
a) mentre la Costituzione garantisce la difesa gratuita dei non
abbienti, nulla dice per gli abbienti, cosicché non sembra legittimo,
proprio in relazione all’art. 23 della Costituzione ed alle finalità
di pubblico interesse che esso presuppone, imporre all’avvocato di
assumere il rischio patrimoniale di non essere retribuito, che giova
soltanto al prevenuto;
b) la difesa d’ufficio si è, in concreto, trasformata in una
finzione tale da abbattere moralmente lo stesso avvocato che, per i
suoi impegni, non può materialmente svolgere con la debita serietà il
compito affidatogli senza vedersi ridurre e, quindi, annullare quelle
soddisfazioni economiche che l’incarico di fiducia, al contrario, gli
conferisce.
In base a questi rilievi il pretore ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 128 del codice di procedura
penale e 4 e 5 delle relative norme di attuazione, in riferimento agli
artt. 23 e 36 della Costituzione.
Precisati così i termini della questione, si rileva:
L’art. 24 della Costituzione al secondo comma sancisce che la
difesa è diritto inviolabile del cittadino in ogni stato e grado di
procedimento. L’esercizio di tale diritto è, poi, praticamente
imposto dalla normativa vigente in materia processuale. Nel giudizio
penale l’imputato deve, a pena di nullità, essere assistito dal
difensore (art. 125 c.p.p.) e in base alla più recente giurisprudenza
di questa Corte tale obbligo deve essere esteso anche al periodo
istruttorio. In materia civile davanti al pretore le parti, di regola,
non possono stare in giudizio se non con il ministero di un difensore;
salvo i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti ai tribunali e
alle Corti d’appello le parti debbono stare in giudizio col ministero
di un procuratore legalmente esercente e davanti la Corte di cassazione
col ministero di un avvocato iscritto in apposito albo (art. 82
c.p.p.).
Davanti a questa Corte e davanti al Consiglio di Stato ed alla
Corte dei conti è pure obbligatorio il patrocinio di un avvocato
iscritto nell’apposito albo delle magistrature superiori. Ecco perché
gli esercenti le professioni forensi, in quanto dell’opera di essi il
pubblico sia per legge obbligato a valersi, agli effetti della legge
penale, sono considerati persone esercenti un servizio di pubblica
necessità (art. 359, n. 1, c.p.).
È, poi, molto significativo in relazione alla questione in esame
che il secondo comma dello stesso art. 359 del codice penale considera
persone esercenti un servizio di pubblica necessità anche i privati
che, non esercitando una pubblica funzione né prestando un pubblico
servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità
mediante un atto della pubblica Amministrazione, essendo evidente il
riferimento alla materia ora soggetta all’osservanza del precetto di
cui all’art. 23 della Costituzione.
Ma in materia penale vi è di più: poiché l’imputato deve essere
assistito dal difensore a pena di nullità del giudizio, interessa
tutta la collettività che quella nullità non si verifichi e perciò
il difensore d’ufficio deve essere nominato anche all’imputato abbiente
che per qualsiasi ragione ne sia rimasto privo o, addirittura, non
intenda nominarne uno di fiducia.
Appunto in considerazione di quanto precede, questa Corte non solo
con la più volte citata decisione del 1964, n. 114, argomentando
dall’art. 23 della Costituzione, ha escluso l’illegittimità
dell’imposizione agli avvocati dell’obbligo di difesa gratuita dei non
abbienti; ma, con la decisione n. 23 del 1968, per il carattere di
pubblico interesse, data la funzione di essenziale collaborazione con
gli organi della giurisdizione riconosciuto alla professione forense,
ha ritenuto legittima la corresponsione obbligatoria di predeterminati
contributi alla Cassa nazionale di previdenza e di assistenza degli
avvocati e procuratori, anche da parte di soggetti diversi dagli
esercenti tali professioni ed indipendentemente da tale qualità.
Ciò posto, il sostenere che l’imposizione dell’obbligo della
difesa d’ufficio nel giudizio penale anche di persone eventualmente
abbienti (che, quindi, in base all ‘art. 4 delle disposizioni di
attuazione del codice di procedura penale sono tenute a corrispondere
l’onorario al difensore) esuli dalla previsione dell’art. 23 della
Costituzione perché “impone all’avvocato di assumere il rischio
patrimoniale di non essere retribuito” è veramente eccessivo: infatti,
come sopra si è posto in rilievo, la difesa dell’imputato, con o senza
retribuzione, è di interesse pubblico, in quanto attiene alla
validità del giudizio che, alla sua volta, è di azione e di interesse
pubblici; perciò la si può imporre.
Sul punto, poi, che una seria ed effettiva difesa di ufficio
impegnerebbe talmente da annullare la possibilità dell’esercizio della
professione libera, si è pronunciata questa Corte – sempre con la
sentenza n. 114 del 1964 – osservando: “Ma nel caso in esame non v’è
dubbio che la previsione, contenuta nella legge, di una saltuaria
prestazione obbligatoria, eventualmente gratuita, non contrasta con
l’indicata norma costituzionale (art. 23) né col sistema di principi
che da essa si ricava”.
Né l’ordinanza di rinvio contiene argomenti tali da potere
indurre questa Corte a mutare opinione.
Dimostrato, così, che non può ravvisarsi alcuna violazione dell
‘art. 23 della Costituzione, in base ai principi sopra richiamati,
viene meno anche la prospettata violazione dell’art. 36.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale, degli artt. 4 e 5
del R.D. 28 maggio 1931, n. 602, contenente “Disposizioni per
l’attuazione del codice di procedura penale”, e dell’art. 18 del R.D.
30 dicembre 1923, n. 3282: “Approvazione del testo di legge sul
gratuito patrocinio”, sollevata con le ordinanze in epigrafe in
riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 23, 24, 35 e 36 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 giugno 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI.